Narrativa italiana Romanzi Un uomo che forse si chiamava Schulz
 

Un uomo che forse si chiamava Schulz Un uomo che forse si chiamava Schulz

Un uomo che forse si chiamava Schulz

Letteratura italiana

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La cittadina si chiama Drohobycz, Polonia. Dentro questa cittadina c'è una bottega dove una famiglia ebraica vende stoffe al dettaglio. E dentro la bottega l'ultimo figlio, per evadere dal suo fondaco, dalla sua cittadina, da un mondo che non sa come prendere, dipinge e scrive. Ma soprattutto sogna. I suoi sogni, quasi visioni, si intessono alla vita, ne diventano il punto di riferimento, ritornano come presenze a scandire il senso di un'esistenza che procede incerta, timorosa di manifestarsi, in contrasto con il mondo esterno, quello in cui accadono le cose. E di cose ne accadono in questo romanzo.



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Un uomo che forse si chiamava Schulz 2014-01-21 09:37:57 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    21 Gennaio, 2014
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Bruno Schulz, un piccolo grande uomo

Da Pag. 128 “ Eravamo, invece, pesci alla mattanza e percorrevamo con diligenza i corridoi sempre più stretti della nostra tonnara. La nostra vita fu capovolta e catapultata in un’altra dimensione e lo spazio in cui muovevamo i nostri passi sempre più incerti si ridusse di giorno in giorno, asservito al trionfo dei regolamenti, consumato insieme alle nostre personalità. Non fummo più persone, ma classi, tipologie e numeri diligentemente trascritti sulle carte e i diagrammi, appesi nelle sale della vecchia casa comunale.
Noi, i reietti, fummo passati al setaccio come sabbia grezza da costruzione, vagliati e cerniti per lasciare in un mucchio gli unici mattoni che sarebbero serviti a costruire le gabbie per noi stessi.”

Bruno Schulz, nato a Drohobycz il 12 luglio 1892 ed ivi morto il 19 novembre 1942, fu un pittore e scrittore polacco, di famiglia ebrea. A quanto si sa era un uomo che eccelleva nel dipingere, ma era anche uno straordinario narratore, come testimoniato dal suo libro Le botteghe color cannella, una originale autobiografia trasformata in una fantasiosa leggenda dell’infanzia.
E proprio l’elemento fantastico colpì Italo Calvino, che non poco contribuì a far conoscere questo autore allorché presentando la traduzione italiana nel 1970 ebbe a dire: “Da oggi la letteratura europea del Novecento conta tra i suoi maestri un nome in più". Di certo Ugo Riccarelli fu fra coloro che lessero questo libro e anche lui ne fu colpito profondamente, al punto da scriverne un’autobiografia romanzata, appunto Un uomo che forse si chiamava Schulz. Se L’amore graffia il mondo, pur piacendomi, mi aveva indotto a ritenere che il romanziere torinese fosse uno scrittore del dolore, tanto ne sono pervase appunto le altre due sue opere che ho letto (Il dolore perfetto e appunto L’amore graffia il mondo), questo libro, che narra la vita di un essere umano dalla nascita alla sua tragica scomparsa, è invece solo pervaso e a tratti, soprattutto nelle ultime pagine, da un senso di malinconia. Bruno Schulz, inginocchiato nel ghetto ai piedi del capitano Gunther della Gestapo, che sta per premere il grilletto della pistola puntata sulla sua testa, rivive in quei pochi attimi quella che è stata la sua esistenza, fin dalla nascita descritta in modo del tutto originale e che crea subito con il lettore un rapporto di viva e interessata partecipazione. La sua vita non è stata monotona, anzi svariate vicende, anche drammatiche, hanno coinvolto la sua famiglia, ma lui si rinchiude in Drohobycz, questa piccola cittadina galiziana, prima parte dell’impero austro-ungarico, poi della Polonia e ora dell’Ucraina. Essa è per lui un ghetto volontario, un ambiente sicuro come la sua grande casa in cui poter dar sfogo alla sua immensa fantasia, dai primi tratti di gesso incerti dell’infanzia ai più considerevoli dipinti della maturità, e poi, consapevole della forza delle parole, arriva quel libro (Le botteghe color cannella) in cui c’è tutta la sua vita e indirettamente la storia di un secolo, il XX, di profondi sconvolgimenti, che tuttavia non turbano l’atmosfera tranquilla e rassicurante della cittadina fino all’invasione nazista, a quei prussiani dispotici, esaltati e criminali di cui aveva paventato anni prima la venuta il rabbino della comunità. La mano di Riccarelli è leggera, lascia parlare il suo personaggio, non ne forza l’espressività, ma è come se l’autore stesso fosse lo spettatore di un film che si proietta davanti ai suoi occhi. Non manca, però, come dicevo una malinconia di fondo, un senso di incertezza che né le mura di Drohobycz, né le fantasie di Bruno possono cancellare. E infatti, fra i tanti animali dei suoi sogni, poco a poco, unica superstite resta una renna ferita, come profonda è la ferita nell’animo di Schulz che vede il suo mondo disgregarsi progressivamente, fino a implodere con l’arrivo dei tedeschi.
Tanti libri hanno descritto l’Olocausto, ma, credetemi, come l’ha descritto Riccarelli negli ultimi capitoli di questo romanzo non c’è stato nessuno. Lì la sua narrazione, pur essendo distaccata, ci presenta una realtà tangibile, un’atmosfera opprimente e devastante e ciò senza che si parli di un campo di sterminio. Poco a poco le paure, le privazioni, la perdita di speranza rendono questi ebrei, e fra essi Bruno Schulz, degli esseri privi di volontà, degli uomini rassegnati e pronti ad andare, senza la minima opposizione, al macello, all’ultimo e definitivo sacrificio. Caduta l’illusione dell’arrivo del Messia che con la sua spada fiammeggiante distrugga l’orda nazista e salvi il suo popolo, non resta più nulla se non la morte.
Ecco, Riccarelli mi ha stupito nell’aver descritto cosi bene una condizione che a noi, comodamente seduti nelle nostre case, al caldo, ben saziati e sicuri risulterebbe altrimenti non del tutto comprensibile.
Ma non è l’unico merito del libro, perché i pregi sono moltissimi, fra cui i protagonisti descritti in modo meraviglioso; al riguardo basti pensare allo zingaro saggio e gobbo Emram, che tutte le primavere arriva con il suo orso ballerino e con gli altri del suo clan nella cittadina, portando una luce di allegria e di poesia, e che per Schulz sarà un grande amico; indimenticabili poi sono Hoffmann, il marito della sorella di Bruno, finito tragicamente, oppresso da debiti familiari che lui non aveva contratto; se il padre di Bruno, nella sua estrema originalità, può sembrare una drammatica macchietta, esemplare è la descrizione di Danuta, la domestica di famiglia, degna di farne parte e che sarà l’unica a salvarsi, perché deciderà di andare per tempo in America, liberandosi dalla inconscia costrizione di quella città, un tempo sicura nella statica tranquillità dell’impero asburgico, ma che gli eventi del nuovo secolo hanno privato della sua intima forza, rendendola un normale agglomerato di case, in balia dei venti di guerra.
Quando ho ultimato la lettura di questo libro ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte a un capolavoro e per quanto sia a conoscenza del fatto che il giudizio di altri sia piuttosto controverso, a una seconda rilettura la mia convinzione si è rafforzata. Contenuti, stile, misura nella narrazione, capacità di ricreare ambienti e atmosfere, piacevolezza sono tutti elementi che inducono a definire Un uomo che forse si chiamava Schulz il più bel romanzo scritto da Riccarelli, nonché un libro senza tempo, uno di quei testi, stupendi, che manterrà inalterato anche per gli anni a venire il suo valore.
Leggetelo, perché di opere così ne appaiono poche nell’immensa produzione letteraria di un secolo.

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Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Il dolore perfetto, L'amore graffia il mondo, entrambi di Ugo Riccarelli;

I sommersi e i salvati, Se non ora, quando?, Se questo é un uomo, tutti e tre di Primo Levi
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Un uomo che forse si chiamava Schulz 2012-10-08 15:12:59 silvia71
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    08 Ottobre, 2012
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I sogni di Bruno

Bruno Schulz è un ragazzo polacco assassinato dai nazisti nel 1942.
Il nome di Bruno torna ad essere ricordato dopo tanti anni dalla sua morte, grazie alla pubblicazione del suo libro “ Le botteghe color cannella” , scritti e disegni cui affida il racconto della propria infanzia in un arco temporale che va dalla prima alla seconda guerra mondiale.

Proprio leggendo questo racconto autobiografico unitamente ad altre ricerche storiche, Riccarelli ha elaborato un romanzo sui generis; l'intento dell'autore non è quello di proporre una mera biografia romanzata o meno, né di elaborare un romanzo storico improntato sugli orrori del nazismo.

La storia di Bruno viene tracciata per sommi capi con una penna dal tocco epico, una penna delicata e poetica, pronta a catturare immagini dure e dolorose ma anche a volare sulle ali dell'immaginazione e della fantasia di un bambino prima e di un giovane poi, bisognoso di evadere dal contesto reale e storico in cui è costretto a vivere.
Quello rappresentato è il pensiero di Bruno, giovane talentuoso con la penna ed il pennello; la sua mente vola lontano dalle brutture quotidiane e dalle mura di casa, spaziando in un mondo fatto di colori e di luci, un mondo a misura di bambino.
Da sogni e visioni confortanti si passa alla scontro con la vita vera, le tinte si fanno fosche, l'aria rarefatta, i sorrisi si spengono lentamente finché arriva il buio e la paura.

Tutto passa attraverso gli occhi di Bruno; dalla cerchia dei familiari a dir poco stravaganti alle figure cupe dei gerarchi nazisti, dalle piccole faccende quotidiane alle svolte della storia mondiale.
In queste pagine c'è tutto il candore, l'innocenza e la voglia di vivere dell'infanzia e della giovinezza; c'è lo sbocciare di una vita e c'è l'appassire di una esistenza recisa senza pietà.

Per chi conosce il Riccarelli de “Il dolore perfetto" sarà naturale riscontrare una affinità stilistica e linguistica tra i due lavori; questo è un autore che cammina sempre sulla sottile linea tra realtà e immaginazione, regalandoci personaggi fuori dagli schemi, non esenti da vizi e virtù in quanto esseri umani ma carichi di tutta la tragicità della vita ed immersi in un'aura di vaghezza indefinita ed epica.
I personaggi di Riccarelli fanno sorridere e fanno piangere, sono eroi e vittime, vincitori e vinti, sono cuore e ardore, sono fantasia e realtà.

Una lettura poco conosciuta ma di gran valore.

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Il dolore perfetto Di U. Riccarelli
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Un uomo che forse si chiamava Schulz 2008-07-28 00:51:22 galloway
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galloway Opinione inserita da galloway    28 Luglio, 2008
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Un uomo che forse si chiamava Schulz

Presentando nel 1970 la traduzione italiana dell'unico libro di Bruno Schulz, "Le botteghe color cannella", Italo Calvino non esitava a professare la sua commossa ammirazione: "Da oggi la letteratura europea del Novecento conta tra i suoi maestri un nome in più". A distanza di circa trent'anni Ugo Riccarelli, dopo una frequentazione che presumo assidua e incantata, scrive un romanzo intitolato "Un uomo che forse si chiamava Schulz". E' la storia dello scrittore ebreo-polacco ispirata dal libro e dalla biografia, ma anche dai vuoti del libro e della biografia, nel ricordo delle carte disperse e di una fine immatura e atroce.

Schulz era nato a Drohobycz, nella Galizia austroungarica, che, dopo essere diventata polacca e poi sovietica, appartiene oggi all'Ucraina, in una vicenda metamorfica che lui avrebbe saputo apprezzare. Morì, abbattuto da un colpo di pistola alla testa, nel ghetto della città natale. Prima di riconoscersi scrittore era stato un originale pittore, e si sentiva rassicurato dal capitano tedesco, Landau, di cui aveva eseguito il ritratto e affrescato le pareti di casa. Ma un altro ufficiale nazista, per vendicarsi del collega che aveva mandato a morte un suo protetto, uccide Schulz, identificato anonimamente come "il giudeo di Landau". Definendo il suo triste eroe "Un uomo che forse si chiamava Schulz", Riccarelli non intende tanto cautelarsi contro eventuali imprecisioni o fraintendimenti ma riscattare, con un supplemento di scavo e di pietà, quel nome negato.

Immagina che sia lo stesso Schulz, sotto la canna della pistola, a ripercorrere la sua intera vita, come un caleidoscopio scosso dalla mano del destino. Esce dal ventre materno con "riluttanza", avverte più di quanto non accada comunemente la stranezza di essere tenuto per i piedi, con la testa all'ingiù. Quella testa pesante che tenderà sempre a piegarsi verso terra: dove contempla i graffi e le minuzie del pavimento, il tramenio degli insetti che rodono la casa, le presenze umane rivelate dalla foggia delle scarpe. Con intuizione sicura, Riccarelli disegna così la condizione di solitudine a avvilimento, propria di chi crescerà sforzandosi di "passare inosservato lungo i muri della storia".
Sarà il padre visionario, il mercante di stoffe Jakub, che lo induce a sollevarsi in un mondo di quotidiane fantasmagorie, a spaziare in cieli tumultuosi, in una festa panica di colori e prodigi. E' un demiurgo bizzarro che contende al Dio dei padri e all'Imperatore dalle lunghe fedine il diritto di manipolare la materia, di infrangere le regole, di smemorarsi con le collezioni di insetti, i manichini, le ibridazioni di uccelli esotici, le più strampalate teorie.

Non è un caso che il piccolo Bruno, nell'immaginazione del suo interprete, attenti con involontaria profanazione alla Bibbia conservata nel tempio: lui che è affascinato dalla ricerca del Libro Autentico, riconosciuto di volta in volta nel registro della bottega paterna, nelle riviste illustrate con cui viene accesa la stufaÀ? Ma la sregolatezza è ammessa soltanto nella dimensione dell'infanzia, che è la vera maturità e colora di fiaba gli anni del tramonto asburgico, minacciati dal "sacrilegio del Cambiamento". (Quello che, annunciato dalla effimera febbre del petrolio, condurrà alla prima guerra mondiale, all'invasione sovietica e nazista). Si spiega così come Schulz, a eccezione di qualche breve viaggio a Leopoli, Vienna, Parigi, decida di rinserrarsi a Drohobycz, a fare l'insegnante di disegno, a coltivare sogni fiammeggianti.

Riccarelli procede con fedeltà alle fonti e illuminanti invenzioni. Penso al padre che attribuisce ogni sciagura all'imperfetto dosaggio del sale nell'alimentazione: il sale che è seme di sapienza ma è anche la sostanza biblica in cui sono trasformati gli uomini che Dio ha abbandonato, "statue immobili nelle circonferenze dei giorni". E penso alla storia del Messia, oggetto di un romanzo perduto di Schulz. Si sparge nel ghetto la voce che sia vicino, scende dai Carpazi per fare giustizia, e Bruno è mandato ad avvistarlo.

Scoprirà davanti a uno zingaro crocifisso che l'atteso Messia non è altri che il Reich. Quello che li tiene avvinti e ne farà strame. Riccarelli non ricorre alle immagini lussureggianti, alle rampollanti metafore del suo autore. Anche se lievitata a momenti da uno humour di chiara derivazione chassidica, il tomo dominante è quello di una asciutta, sommessa trenodia.

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