Un'altra Julia
Letteratura italiana
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La fenomenologia del diverso
La fenomenologia del diverso ha sempre costituito un motivo d’interesse morboso e così donne cannone, nani, uomini a tre gambe hanno raggiunto una popolarità attraverso l’esibizione delle loro deformità. E’ stato così anche per Julia Pastrana, donna barbuta che ebbe un grande successo nel XIX secolo e che si esibì in diversi teatri inglesi. Minuta, aggraziata, dalla voce delicata e intonata, mandò in visibilio migliaia di spettatori, attirati da un “mostro” che sapeva perfino cantare.
Cinzia Pierangelini ha pensato a lei quando ha scritto questo bel romanzo, ambientato nella sua Sicilia, trovando la sua quasi sosia in una fantomatica Leda.
Il tema dei diversi è particolarmente caro a questa autrice e al riguardo mi sovviene il suo penultimo romanzo, ‘A jatta, laddove il “mostro” è un ex maschio diventato femmina; tuttavia in Un’ altra Julia troviamo una differenza sostanziale, una vena di pietà che aleggia su tutto il testo e che lo nobilita.
Ambientato in una Sicilia di epoca non recente, pur se indeterminata (potrebbe essere la fine dell’800), la territorialità della storia ha un peso determinante, con la figura di Nitto, padre-nonno padrone che richiama la brutalità del maschio dominatore, senz’anima e pure lui coperto di peli, ma solo sul cuore. Vive solo per esprimere la sua potenza di ricco proprietario terriero e che alla nipote Leda, così bella da fanciulla, cresca la barba sul viso sì da farla somigliare a una volpe, importa poco e niente, tanto in ogni caso è oggetto di scambio, un mezzo per aggiungere altra terra a quella che già possiede.
Se di primo acchito l’impressione è quella di un romanzo di appendice, pagina dopo pagina, pervasi da quel senso di pietà che così bene l’autrice è riuscita a infondere, ci si accorgerà che invece è una drammatica denuncia della condizione dei diversi, a cui tutto è negato in una vita di cui si attende solo la fine.
In quelle righe ho ritrovato la migliore Pierangelini, quella che mi aveva impressionato con Settecani, un racconto parte del suo primo libro Dall’ultimo leggio.
L’italiano sempre corretto, ricercato, ma mai greve, è funzionale allo sviluppo della vicenda e senza divagazioni riesce a creare un’ambientazione, suggerendo immagini, linee guida utili affinché il lettore possa vedere a suo modo la terra assolata, i personaggi che la popolano, la vita di un mondo contadino che ora non esiste più.
Se magistrali sono le caratterizzazioni di Nitto e di Leda, devo dire che quella di Sostene è semplicemente stupenda e il richiamo alla figura di uno che si esprime in versi, curioso per tutto ciò che è di questo mondo in quanto poeta e anche per l’infanzia trascorsa fra le mura di un convento di suore, è l’antitesi della morbosità generale di chi vorrebbe vedere la donna barbuta per il solo piacere di provare stupore e sgomento. Anche lui ha questo desiderio, ma non è il suo viso volpino che l’attira, bensì il desiderio di conoscere un essere umano così provato dalla disgrazia, una curiosità che non è repulsione, ma accettazione. Non è certo amore, ma consapevolezza che entrambi sono diversi e come tali possono vivere solo in un mondo tutto loro, dove l’apparenza non ha importanza e in cui quel che conta è solo la loro essenza intima, l’anima.
Anche i personaggi apparentemente minori sono tratteggiati con rara abilità, e così trovano una collocazione nella trama non come comparse, ma come parti integranti e necessarie la remissiva Tania e il pavido Carmine, la nonna Rachele, una figura che costituisce l’ossatura dell’intera narrazione, nella sua trasformazione da donna remissiva e succube a essere razionale e pragmatico, Tindaro, il marito di Leda, un inetto ed incapace che si illude di essere nobile e uomo rispettato.
La storia finisce logicamente, nell’unico modo possibile, e quella chiusura cala il sipario su una rappresentazione di elevato pregio, il miglior romanzo, secondo me, di Cinzia Pierangelini.