Narrativa italiana Romanzi Tralummescuro
 

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Letteratura italiana

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"Radici" è il titolo di uno dei primi album di Francesco Guccini, e radici è la parola che forse più di tutte rappresenta il cuore della sua ispirazione artistica. Radici sono quelle che lo legano a Pàvana - piccolo paese tra Emilia e Toscana dove sorge il mulino di famiglia, vera Macondo appenninica ormai viva nel cuore dei lettori - e radici sono quelle che sa rintracciare dentro le parole, giocando con le etimologie fra l'italiano e il dialetto, come da sempre ama fare. Oggi Pàvana è ormai quasi disabitata, i tetti delle case non fumano più. È in questo silenzio che il narratore evoca per noi i suoni di un tempo lontano, in cui la montagna era luogo laborioso e vivo, terra dura ma accogliente per chi la sapeva rispettare. Rinascono così personaggi, mestieri, suoni, speranze: gli artigiani all'opera in paese o lungo il fiume, i primi sguardi scambiati con le ragazze in vacanza, i giochi, gli animali e i frutti della terra, un orizzonte piccolo ma proprio per questo aperto all'infinito della fantasia. Tra elegia e ballata, queste pagine sono percorse da una continua ricerca delle parole giuste per nominare ricordi, cose e persone del tempo perduto; la malinconia è sempre temperata dalla capacità di sorridere delle umane cose e dalla precisione con cui vengono rievocati gesti, atmosfere, vite non illustri eppure piene di significato. Francesco Guccini non canta più, ma la sua voce si leva di nuovo per noi, alta, forte, piena di poesia, per consegnarci un'opera che è testamento e testimone da raccogliere, in attesa di una nuova aurora del giorno.



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Tralummescuro 2020-10-04 05:14:04 Bruno Elpis
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    04 Ottobre, 2020
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Triste cartello… VENDESI…

Tralummescuro di Francesco Guccini, opera finalista al Premio Campiello 2020, è un omaggio a Pàvana, paesino dell’Appennino tosco-emiliano che oggi vive il dramma dell’abbandono (“Il Mulino ha avuto anni di abbandono, l’umidità si è impadronita delle stanze già umide di suo e i campi atorno sono stati abbandonati…”) e dell’inesorabile spopolamento (“Tristi sfilate di case, con un altrettanto triste cartello… VENDESI…”).

Su queste pagine si abbattono folate di nostalgia per tempi irrimediabilmente perduti e per una civiltà – quella contadina – pura nelle sue declinazioni a volte crudeli e rudimentali (“Il compito di castrare i galletti era di solito affidato a una donna perché, credi, nessun uomo, pensando ai propri gioielli, avrebbe avuto il coraggio…”) e nei suoi riti (“Il pane lo facevamo ogni giovedì. Non c’era una ragione specifica per questo rito del giovedì…”).

Il linguaggio è creato ad hoc, contaminato da espressioni dialettali (“Hai bolato?” = Hai trovato funghi?) e, pur intonato allo spirito dell’opera, rappresenta uno degli ennesimi esperimenti che – dopo Camilleri – non sono più né originali né piacevoli per il lettore. Ad ogni buon conto, in appendice, si trova un vocabolario che consente la traduzione dei passaggi più ostici.

Bruno Elpis

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