Teorema
Letteratura italiana
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Un tuffo nel vuoto
"Teorema, come indica il titolo, si fonda su un'ipotesi per absurdum. Il quesito è questo: se una famiglia borghese venisse visitata da un giovane dio, fosse Dioniso o Jehova, che cosa succederebbe? Parto dunque da una pura ipotesi". Così Pasolini presentava il suo scabroso e dissacrante film omonimo nel non molto lontano 1968. L'anno successivo ne pubblicava una versione letteraria che, nell'incedere del racconto caratterizzato da continui cambi di inquadratura, risente fortemente dell'influenza cinematografica. Inframezzando con pertinenti intervalli poetici una non meno fine prosa, l'eclettico artista miscela sapientemente amore e psiche, politica e religione, permeando l'opera di un delicato erotismo che esce fuori dagli schemi, unendo in un'aura di sensuale morbosità terreno e divino. Siamo nella villa milanese di una famiglia borghese tipo degli anni Sessanta. Paolo, il capofamiglia, è un imprenditore benestante, proprietario di una fabbrica ereditata dal padre. Lucia, sua moglie, è una distinta signora che passa le giornate immersa nella lettura. Pietro, il loro primogenito, e Odetta, la figlia minore, sono giovani adolescenti di belle speranze, studenti di scuole prestigiose per cui l'avvenire si preannuncia roseo. A completare il quadretto famigliare contribuisce Emilia, giovane domestica di origine contadina, esponente di tutt'altra classe sociale. A sconvolgere un menage familiare che, dall'esterno, appare idilliaco, arriva un ospite sconosciuto. Bellissimo, celestiale, seducente. Di lui non si conosce il nome, l'origine, l'occupazione, né il motivo della sua permanenza in villa. Si capisce subito però che il ragazzo emana un'aura straripante di fascino, di carisma, di empatia. Nessuno, né l'autorevole Paolo, né il frizzante Pietro, resterà indifferente al suo charme. Tutti, sia l'algida Lucia, sia la tenebrosa Emilia, sia la virginea Odetta, saranno sconvolti da un turbine di voluttà, di vibrante seduzione. Ma la permanenza del ragazzo non sarà eterna e la sua partenza lascerà un vuoto incolmabile nei cuori borghesi della famiglia come in quello proletario della domestica e tutti, uno alla volta, faranno i conti con una perdita che minerà alle fondamenta ogni loro certezza, sconvolgerà il loro presente e renderà il futuro un tuffo nel vuoto. "È impossibile dire che razza di urlo sia il mio: è vero che è terribile - tanto da sfigurarmi i lineamenti rendendoli simili alle fauci di una bestia – ma è anche, in qualche modo, gioioso, tanto da ridurmi come un bambino. È un urlo fatto per invocare l'attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo. È un urlo che vuoi far sapere, in questo luogo disabitato, che io esisto, oppure, che non soltanto esisto, ma che so. È un urlo in cui in fondo all'ansia si sente qualche vile accento di speranza; oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda, dentro a cui risuona, pura, la disperazione. Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa questo mio urlo voglia significare, esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine".
Indicazioni utili
Ipotesi, tesi e corollari
Pier Paolo Pasolini dimostra un inquietante “Teorema” in quest’opera (anche cinematografica) che nel 1968 fu considerata oscena.
L’equilibrio di una famiglia della piccola borghesia (“Si tratta di una famiglia piccolo borghese: piccolo borghese in senso ideologico, non in senso economico… persone molto ricche, che abitano a Milano”) viene minato dalla presenza di un ospite: un affascinante giovane, che seduce i quattro componenti della famiglia – il padre Paolo, la madre Lucia, il figlio Pietro e la figlia Odetta – e la collaboratrice domestica, Emilia. Con ciascuno di loro (“Benché nascondano un segreto non condiviso, gli sguardi che Lucia, Pietro e l’Emilia non hanno che per l’ospite, sono pieni di trepidazione e di purezza”) l’ospite ha un accondiscendente rapporto di complicità, comprensione e protezione, quasi paterno (“Come se fosse tornato, no, non nel grembo della madre, ma nel grembo del padre”).
Quando il giovane riparte, ciascun individuo ha reazioni eclatanti e amplificate, attraverso le quali manifesta la sofferenza dell’abbandono e l’insofferenza per il precedente, fragile sistema di vita.
L’analisi-dimostrazione di Pasolini penetra gli schemi esistenziali (“Non mi piacciono gli uomini, è detta con protervia ed elegante umorismo… nasconde una verità”), fisici (“la camera… è arredata, cioè, col gusto che le madri attribuiscono ai propri figli”) e psico-sociali (“il pudore e la vergogna – che la sua classe sociale vive in lei…”) della famiglia borghese.
Particolarmente tragica la crisi che investe il padre (“Infatti, come un padre, il deserto lo guardava da ogni punto del suo orizzonte sconfinatamente aperto”), fulcro di un patriarcato che crolla nell’impalcatura: “Così quando il sole rinasceva in un punto dell’orizzonte non contrassegnato da nulla, ecco che, come se nulla di reale fosse accaduto, il deserto era intorno, col disegno e la luce del giorno prima, e con l’ardore terribile del sole che si tornava a identificare col pericolo e con la morte”.
L’opera è un misto di prosa e poesia. Nell’appendice alla parte prima, ciascun protagonista declina in versi il proprio dramma (il fratello “Sete di morte”, la sorella “Identificazione dell’incesto con la realtà”, Lucia “La perdita dell’esistenza”, Paolo “La distruzione dell’idea di sé”. Soltanto il dramma di Emilia viene articolato dall’ospite in “Complicità tra sottoproletariato e Dio”, a significare una visione classista della storica contrapposizione proletariato-borghesia).
Nella poesia “Sì, certo, cosa fanno i giovani…”, si rintracciano passaggi che consacrano Pasolini come indiscusso protagonista intellettuale e originale interprete dei movimenti culturali dell’epoca:
“Di cosa parlano i giovani del 1968 – coi capelli
barbarici e i vestiti edoardiani, di gusto
vagamente militare, e che coprono membri infelici come il mio,
se non di letteratura e di pittura? E questo
che cosa significa se non evocare dal fondo
più oscuro della piccola borghesia il Dio
sterminatore, che la colpisca ancora una volta
per colpe ancora maggiori di quelle maturate nel ’38?”
Bruno Elpis