Sul Grappa dopo la vittoria
Letteratura italiana
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Un piccolo “grande” libro
Delle volte credo di essere proprio strano, talmente pregno di soddisfazione da essere quasi incapace di spiegarne la ragione; non accade di frequente, ma capita ed è successo proprio nel momento in cui, arrivato all’ultima pagina, ho chiuso il libro. Il cuore palpitava, davanti a me si succedevano, nitide, le immagini dei protagonisti, con sullo sfondo Lui, il monte sacro, l’ultimo baluardo della patria, il Grappa. A ripensare a quel momento mi emoziono ancora, il mio corpo è percorso da un fremito lieve che sembra irradiarsi dal cuore, una sensazione unica che solo un libro così bello come questo è stato capace di darmi. E pensare che il mio primo contatto con questo autore non era stato per nulla soddisfacente, poiché La reliquia di Costantinopoli, di cui avevo lamentato l’eccessiva verbosità, non mi era piaciuto. Ma questo libro è tutta un’altra cosa, è una di quelle opere che presenta più di un piano di lettura, ma tutti egualmente validi e confezionati in modo impeccabile. L’esodo delle famiglie di Bassano a seguito della ritirata di Caporetto, la provvisoria residenza nel ferrarese, il ritorno alla propria casa alla fine della guerra, la miseria opprimente, il padre che scampa al conflitto, torna alla sua famiglia profondamente ferito nell’animo, il figlio che gli chiede notizie di quella guerra, lui che non risponde per non soffrire ulteriormente, ma anche perché non ci sono parole che possano spiegare l’orrore, il padre che, con la scusa di recuperare quanto di possibilmente utile, accompagna il figlio fino alle prime balze del Grappa, invitandolo a proseguire da solo, sono tutte immagini in bianco e nero, virato seppia, che scorrono implacabili davanti agli occhi. Ma queste pagine non potrebbero ancora spiegare il pathos che creano nel lettore; è invece il percorso in solitario del giovane sulla montagna che si incide profondamente nell’animo, con le trincee divelte, il puzzo nauseabondo e dolciastro dei cadaveri in putrefazione, i corpi, spesso smembrati, raggruppati quasi in cataste, il dramma che, nella tensione del combattimento non si svela in pieno, assume ora, nel silenzio di una pace ritrovata, l’aspetto di un’ecatombe. Girare in un terreno martoriato, dove non cresce più nemmeno un filo d’erba, imbattersi in crani dalle occhiaie vuote, ma che ancora conservano qualche ciuffo di capelli, quella natura così violata da apparire per sempre distrutta mi hanno fatto venire in mente un grande capolavoro della cinematografia, il giapponese L’arpa birmana. Ci si commuove, ci si emoziona, ma Malaguti è abile nel non tirare troppo la corda e quindi passa a epoche, anche se di poco, successive, a quella descrizione del mondo contadino di cui il giovane protagonista, benchè studente, è intima parte. E così ci vengono mostrati il difficile periodo del dopo guerra, l’avvento del fascismo con una felice annotazione, in una delle poche e opportune digressioni (Il nostro modo di essere fascisti, perché lo eravamo, era essenzialmente formale. L’Italia era fascista, il paese era fascista, noi eravamo fascisti. Non esserlo significava porsi al di fuori di una condizione forse non condivisa, ma accettata da tutti, almeno in superficie.), i primi turbamenti amorosi e infine l’amore vero e proprio. Tutto procede secondo un ordine logico, gli avvenimenti si susseguono, il mondo cambia, tranne Lui, il monte sullo sfondo, il Grappa, ritornato a verdeggiare e ad accogliere mandrie sui suoi pascoli.
Paolo Malaguti ha una mano sicura, procede per gradi senza incertezze, è capace perfino di interessare quel lettore che non conosce il dialetto veneto (non è il mio caso, ma penso che qualcuno avrà difficoltà a comprendere dei colloqui in volgare, beninteso più che mai opportuni in un ambiente rurale dove l’analfabetismo era assai diffuso), insomma riesce a completare un’opera che nelle sue 168 pagine dice tanto e lo dice bene.
Di conseguenza, reputo che la lettura sia non solo consigliata, ma anche raccomandata, visto che ci si trova di fronte a un autentico capolavoro.