Storia di chi fugge e di chi resta
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Prevalentemente Elena.
Terzo ed ultimo capitolo della trilogia L'AMICA GENIALE, Lila e Lenu' sono ormai adulte, donne mature immerse nella vita scelta, nella vita capitata.
Il clima pure si evolve, l'Italia e' ora segnata dalle tensioni delle lotte operaie e studentesche, i volantini propagandistici, le bastonate, i coltelli, gli omicidi, la miscela pericolosa del rosso e del nero.
La prima meta' del racconto non delude , il rapporto tra le amiche continua di pari passo e il divergere delle due vite, la loro lontananza non scioglie un legame sempre presente, anche se meno capillare di un tempo. Sia nel rione che fuori l'impronta della donna e' sempre farinosa, la supremazia maschile in famiglia di fatto soffoca la femminilita' , attutisce le potenzialita' . Mogli, madri che soccombono alla necessita' senza accettare compromessi o che ostentano una forza apparente proveniente da ricchezza e potere dei propri uomini, ma dietro cosa c'e'?
Per buona parte del libro il personaggio di Lila perde vigore, diviene meteora scaraventata in un buco nero dalla presenza di Elena che forza il palcoscenico e se ne impossessa.
Nulla di male, sono gusti. I miei gusti vertevano decisamente su Raffaella Cerullo, era lei il personaggio chiave del libro, quel magma vesuviano dal carisma esponenziale, quella femmina catalizzante, galvanizzante.
Persa l'attenzione su di lei, il romanzo stesso perde il fascino dei volumi precedenti, pare rallentare seppur il ritmo sia sostenuto in un'accozzaglia di fatti che scorrono veloci, nomi che ritornano, colpi di scena che in un paiolo ricolmo di gusti invitanti creano purtroppo un miscuglio insapore.
Insomma, se devo fare un bilancio, il bilancio e' che questo resta un buon libro, ma sotto tono rispetto ai precedenti, senza Lila, con meno Lila, la Ferrante puo' raccontarle cotte e crude, ma il manicaretto non e' scontato.
Buona lettura, non c'e' due senza tre.
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Opinioni inserite: 10
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Le lodi non possono mancare
Preceduto dalla copertina (forse) meno inguardabile tra i quattro orrori sfornati da E/O, sono approdata al capitolo più valido della celeberrima tetralogia di Ferrante. Almeno per ora, perché il mio inguaribile ottimismo mi spinge ovviamente a sperare che l'ultimo volume sappia non solo concludere la serie in modo magistrale, ma anche superare in bellezza "Storia di chi fugge e di chi resta". Un terzo libro che mi ha quindi soddisfatta appieno -dal contenuto alla forma-, riuscendo perfino a rendermi gradevole il punto di vista di Lenù. Non sempre, ma lo considero già un bel passo in avanti.
Dopo un prologo ambientato nel presente, la narrazione ci riporta nella Napoli a cavallo tra la fine degli anni Sessanta ed una metà abbondante degli anni Settanta. Dopo il successo ottenuto con la pubblicazione del suo esordio narrativo, Lenù è in procinto di sposarsi con Pietro Airota, pur continuando ad essere segretamente infatuata della sua cotta adolescenziale Nino; poco prima del matrimonio, una visita imprevista la porta però a riavvicinarsi a Lila, scoprendo com'è cambiata nel frattempo la sua vita. Sullo sfondo, assistiamo alle piccole beghe tra le famiglie del rione, ma anche ai macro contrasti socio-politici in atto in Italia ed in Europa in quel periodo.
I difetti in questo testo sono a dir poco marginali, nonché ampiamente compensati dai suoi pregi. Ho trovato un po' di confusione negli spostamenti fatti dai personaggi, perché in alcuni casi li reputo mal motivati, specie considerando le difficoltà di muoversi da una regione all'altra ai tempi; anche l'utilizzo ridondante di certi termini e strutture (ad esempio, ho perso il conto di quante volte venga usato un verbo poco comune come lodare) poteva essere in parte limitato in fase di editing. In generale ci sono poi diverse coincidenze fin troppo fortuite -e penso in particolare al fatto che tutti finiscano per realizzare di conoscersi tra loro-, ma possono essere giustificate in parte con la sospensione dell'incredulità ed in parte con una sorta di metafora che porta il rione napoletano ad ingigantirsi, accorpando nelle proprie dinamiche interne l'intera Nazione.
Ma passiamo senza indugio ai punti di forza, primo tra tutti la caratterizzazione dei personaggi; non parlo solo delle due protagoniste (sempre raccontate in modo magistrale nelle loro motivazioni, nelle loro paure, nella loro rabbia), ma del cast nel suo insieme perché nessun comprimario per quanto poco presente viene descritto in modo approssimativo o sciatto. E se il mio apprezzamento per Lila è ormai cosa nota, in questo terzo capitolo anche Lenù ha saputo stupirmi, infatti è migliorata come personaggia in generale e come voce narrante in particolare: risulta più autocritica verso di sé e consapevole degli altri con il passare del tempo, e nonostante una sua certa ottusità rallenti l'arrivo di determinate rivelazioni, ho trovato il suo POV sicuramente più piacevole in questo volume rispetto ai precedenti.
L'altro grande pregio sono chiaramente le tematiche, che mai come in questo volume si concentrano sulla femminilità e sui ruoli di genere, raccontando la frustrazione di tante donne imprigionate in relazioni infelici. Ferrante riesce inoltre ad inglobare questo tema all'interno del contesto storico e sociale -mostrando un carosello di situazioni in cui ci si può rivedere oppure scoprire una prospettiva inedita-, senza però accantonare il fattore emotivo che rende tanto verosimili i suoi caratteri. E nonostante questa non sia palesemente una tetralogia da leggere per la sua trama, reputo molto interessante come la premessa del volume permetta di contestualizzare in modo più solido la serie intera, seppure l'intreccio non diventi mai la priorità.
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Lenù, inattendibile come Zeno
Al suo terzo volume, ti prende sempre più questo romanzo, ora che i personaggi ti vengono incontro dalla pagina sempre meglio sbalzati e definiti, lasciandoti un’impressione di vita e di verità.
Alfonso Carracci sa guardarsi dentro con spietata lucidità e, quando rivela a Lila la propria omosessualità, lo fa senza mezze misure, utilizzando la parola più greve e pesante che il dialetto gli mette a disposizione in quell’area semantica :”Lila, so’ ricchione”. Michele Solara trova accenti a loro modo “poetici” nel descrivere “quella cosa viva” che sta dentro la mente di Lila, quell’essere che la rende brutta e sgradevole quando non è giornata, creativa e geniale nei momenti felici. E le dichiara, lui sessista, triviale, chiuso negli schemi di una mentalità retrograda e malavitosa, un amore che a suo modo è acqua cristallina, persino spogliato della brama materiale di possesso, ammirazione e contemplazione come davanti ad un’artista. Intanto Gigliola, la moglie, è sempre più consapevole che nell’esistenza del marito lei non occupa altro ruolo che quello di madre, procreatrice, organizzatrice della vita domestica. E’ lui stesso che glielo ripete continuamente, senza riguardi, inducendola a farsi, per reazione, sempre più sgraziata, volgare, insopportabile, come per una protesta illogica e rabbiosa contro un'esistenza infelice. Emerge, tra le tante figure, la madre di Elena: un miscuglio contraddittorio e rabbioso di orgoglio materno, ma anche di odio nei confronti della figlia, di soddisfazione per la sua scalata sociale e culturale e di frustrazione per non aver saputo o potuto fare altrettanto, lei che pure si ritiene provvista delle medesime qualità: ne risulta un continuo, rancoroso dibattersi contro la vita e contro gli altri, una diversità “maledetta” di cui la zoppia è quasi il segno tangibile. Silenzioso, schivo, generoso nel dare e rassegnato nel chiedere, sofferente della sua passione non ricambiata per Lila, che teme di perderlo ma non lo desidera sessualmente, testardo nel tentare un avanzamento sociale, ma sempre rispettoso dell’intelligenza superiore della sua compagna: questa è la cifra che caratterizza Enzo. Non gli è estranea la dimensione politica, che percorre l’intero romanzo e questa sezione in modo particolare. Accanto a lui c’è l’amico Pasquale, segretario rionale del partito comunista, in rotta con la linea moderata di Berlinguer, presto schieratosi su una linea dura e oltranzista che lo accosta al terrorismo e, nel privato, lo spinge ad assumere toni via via più arroganti nei confronti di chi vive la stessa fede politica da una diversa posizione sociale e con atteggiamento più moderato e “borghese” (si pensi alle ripetute offese rivolte a Pietro, il marito di Elena, durante una breve visita, o piuttosto una fuga, condotta all’insegna della più sfacciata arroganza e maleducazione).
Anche sull’asse politico si snoda il rapporto tra i due personaggi centrali del romanzo: Lenù e Lila. La prima sembra anch’essa propendere per le posizioni estreme, almeno in teoria. In questo le si oppone il cauto riformismo del marito, Pietro Airota, nemico dell’estremismo rivoluzionario o pseudotale: un personaggio preso a calci da tutti, dalla moglie, da Pasquale, da Nino, e forse compreso solo da Lila. Egli non ha altra colpa se non quella di un rigore intellettuale che avversa e svela pressappochismo ed empiti incendiari destinati a fallire. Patetico ma anche, a suo modo, eroico.
Dall’altra parte c’è Lila, restia a scendere nell’agone sindacale e politico e a mettersi in gioco, pur essendo l’unica a conoscere di persona cosa siano sfruttamento operaio, condizioni di lavoro insopportabili, violenze e maltrattamenti in fabbrica. Tirata per i capelli nel vivo del conflitto padrone-operai dall’azione incauta dei suoi compagni, la giovane confermerà il suo lucido realismo, la capacità di analisi, la duttilità nel cogliere le situazioni, saperle descrivere, e in un batter d’occhi, sulla base della sua esperienza vissuta, riuscirà ad elaborare un documento sulla violenza e sullo sfruttamento operaio di gran lunga più vero e aderente alla realtà degli astratti proclami dei suoi compagni, “marxisti immaginari”.
Ovviamente questa folla di personaggi che popola il racconto, si realizza e si compie quando l’uno entra in rapporto con l’altro. E’ per questo che i ritratti di gruppo sono tra le invenzioni più belle della Ferrante. Domina, tra tutte, il pranzo a casa di Marcello Solara e della sua compagna Elisa, sorella della protagonista, in cui ciascuno si inserisce perfettamente in un grande coro dove ognuno canta con la sua voce solista, ma si fa porgere al momento opportuno la battuta dall’altro e a sua volta, alla stessa maniera, gliela porge . Qui davvero l’autrice si è superata ed il romanzo delle parole diventa un’armonia di voci che non ti annoieresti mai di sentire, tanto sono vere e tanto bene si definiscono nel loro reciproco accostarsi e contrastarsi. Ne risulta una rappresentazione sociale forte e potente come raramente si vede nella nostra letteratura e che trova riscontro solo nei grandi (non si può fare a meno di pensare all'episodio del ballo nel Gattopardo).
Raccontato in prima persona, probabilmente sulla base di fatti realmente accaduti, ma debitamente rielaborati, il romanzo, proprio per la ricchezza dei suoi personaggi e per la coralità dei rapporti e della rappresentazione, sfugge al triste destino di questo genere in Italia: sfociare in un racconto autobiografico rachitico e solipsistico, tutto incentrato sui drammi dell’io, lontano dalla ricchezza, dalla varietà, dalla complessità del mondo reale e dai conflitti della storia. Non a caso è piaciuto tanto fuori d'Italia.
A proposito della interrelazione dei personaggi, non si può non sottolineare quella che lega tra loro Lenù e Lila. Le due protagoniste ti sorprendono continuamente, ti spiazzano, per l’amore si direbbe quasi ancestrale che si dimostrano, il patto di sangue che ha retto le loro esistenze fin dall’episodio iniziale delle bambole perdute, il continuo essere l’una riferimento per l’altra, ma anche l’improvvisa cattiveria, il rinfacciarsi verità amare, il reciproco, amaro deludersi, perfino il colpirsi nella sfera dei rapporti sentimentali, fino all’estremo limite del tradimento. Si pensi al legame tra l’amica geniale a Nino Sarratore, “tolto” da Lila a Elena, che ne ha fatto il mito della propria esistenza, ma niente affatto privo di difetti che ella sa solo a tratti cogliere, scoprendolo seduttore nato, non diverso per certi aspetti dalla squallida figura paterna, opportunista, alla ricerca di consensi in quegli ambienti intellettuali e politici in grado di riconoscerne le doti e apprezzarne le capacità: uomo dalla vita affettiva e sentimentale discontinua e inaffidabile, ma forse proprio per questo corteggiato, cercato, voluto. Non sarebbe stato fuori luogo in un romanzo di Balzac o Stendhal, tra gli uomini mossi nella loro esistenza unicamente da un indomabile desiderio di scalata sociale.
E chiudiamo con Lenù, colei che narra, ricuce, collega, mette insieme i pezzi della storia, pone a confronto luoghi, spazi, ambienti, diversità antropologiche, in un continuo andirivieni tra Pisa, Firenze, Napoli. Ma quando analizza se stessa, la protagonista balbetta, entra in contraddizione, fino ad entrare anch’essa nella schiera dei narratori inattendibili, inaugurata da Zeno nel capolavoro di Svevo. Tocca al lettore cogliere il filo conduttore di questa esistenza fragile, incerta, piena di contraddizioni, di insicurezze, di senso d’inferiorità rispetto ai suoi interlocutori privilegiati, Nino e, soprattutto, Lila: il bisogno di un’affermazione intellettuale e culturale che la riscatti dalle sue origini popolari nella Napoli del rione Gianturco. Una bipolarità mai del tutto superata, perché questa storia che l’autrice ci ha regalato, parafrasando il titolo, è la storia di chi fugge, ma è anche e soprattutto la storia di chi, pur essendo fuggito, in realtà, in un modo o nell’altro, è restato.
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scritto con maestria
"Storia di chi fugge e di chi resta" è un potente viaggio nel cuore delle emozioni umane, scritto con maestria da Elena Ferrante. Questo romanzo, che costituisce il terzo capitolo della serie de "L'amica geniale", ci cattura e ci coinvolge profondamente nelle vite delle protagoniste, Elena e Lila, e nel loro intenso rapporto di amicizia.
La prosa vivida e avvincente di Ferrante ci trasporta nella Napoli degli anni '70, con un'accuratezza e un dettaglio che ci fa sentire parte integrante di quel mondo. L'autrice esplora la complessità delle dinamiche sociali e politiche di quell'epoca, mettendo in luce la lotta di classe, l'attivismo politico e le trasformazioni culturali che permeavano la società italiana.
Ma è attraverso la lente delle esperienze personali delle protagoniste che il romanzo brilla davvero. La loro amicizia, che ha attraversato gioie, lotte e conflitti, si sviluppa ulteriormente in questo capitolo, diventando ancora più intricata e coinvolgente. Le vite di Elena e Lila si fondono e si separano, rivelando la complessità delle relazioni umane e l'inevitabile impatto dei cambiamenti esterni.
L'autrice esplora in modo audace temi universali come la maternità, il matrimonio, l'ambizione e la ricerca dell'identità. Le sfide e le scelte delle protagoniste risuonano profondamente nella nostra esperienza umana.
Il romanzo offre anche una riflessione acuta sulla condizione delle donne, esplorando le espressioni sociali, le aspettative culturali e le lotte personali che influenzano le loro vite. Ferrante affronta questi temi con delicatezza e intelligenza.
"Storia di chi fugge e di chi resta" ci costringe a guardare oltre la superficie delle cose, a esplorare i moti interiori dei personaggi e a riflettere sulle scelte che riducono le nostre vite. Questo romanzo ci insegna che anche nelle circostanze più difficili, la forza interiore e la determinazione possono portarci verso la luce.
In definitiva, "Storia di chi fugge e di chi resta" è una testimonianza struggente della complessità dell'essere umano e delle connessioni che ci legano gli uni agli altri. Elena Ferrante ci regala una storia avvincente e ricca di emozioni.
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Il male di vivere
"Storia di chi fugge e di chi resta" è uno strano romanzo. Non è privo di problemi, anzi. È lento, lentissimo. Non succede praticamente nulla. Pagine e pagine di nulla o meglio di tormenti interiori di Elena, scontenta di tutto ciò che esiste al mondo, e solo ogni tanto uno sprazzo di eventi che mettono in moto la trama. Di tutto quello che succede a Elena in trecentottantadue pagine non c’è nulla che le piaccia, le vada bene o la renda davvero felice: il matrimonio zoppica, le figlie la sfiancano, la madre è invadente, la scrittura non va, i suoceri la fanno sentire eternamente debitrice, Lila la provoca, Nino non si fa vedere. Una nebbia di angoscia e insoddisfazione si solleva fitta dalle pagine e si fa fatica a liberarsene anche quando si chiude il libro. Eppure non si può dire che questa spiacevole sensazione sia dovuta alla particolare bravura della Ferrante nel far uscire il racconto dalle pagine, perché è semplicemente un elenco, una lunga serie di guai e psicodrammi di vario genere che lasciano addosso un male di vivere che neanche il cavallo stramazzato e la foglia accartocciata di Montale. Si arriva a un punto in cui non se ne può più di questo libro e lo si mette da parte per un po’, ma se poi capita di riprenderlo in mano, di aprirlo e leggere qualche riga, si deve continuare e non si riesce a metterlo giù, anche solo per la voglia di avvicinarsi alla parola fine e scoprire dove va a parare. È contraddittorio? Forse, ma è così. Poi arriverà un altro momento in cui non se ne può più e la trafila ricomincia, fino all’ultima pagina.
Quasi tutti i personaggi diventano ancora più intollerabili di prima, a cominciare da Elena, che si lamenta di tutto e tutti senza mai fare nulla di concreto e utile per migliorare quello che non le piace e poiché la narrazione, a differenza dei due romanzi precedenti, si concentra molto di più su lei che su Lila, il risultato è che viene voglia di dargliele una volta sì e l’altra pure. I personaggi che non peggiorano restano così come sono, da Lila, che inizia a guardare male suo figlio quando capisce che è di Stefano e non di Nino, allo stesso Nino, che mette in scena con Elena lo stesso, identico, squallido copione usato con Lila, ma lei è troppo impegnata a saltellargli intorno e non se ne accorge, credendo che finalmente sia arrivato il vero amore e di essersi presa una rivincita su Lila, perché lo Scemo (ovvero Nino) ha scelto lei e non l’amica. Questo sì che è femminismo.
Pietro è l’unico per il quale si può provare, a tratti, un po’ di vera solidarietà, perché almeno, nonostante i suoi errori, ha un progetto di vita e cerca di metterlo in pratica con impegno e serietà. E poi già il fatto che sopporti Elena e le sue lagne senza fine va a suo merito. Peccato che alla fine del libro la sua reazione alla separazione dalla moglie sia tale da far precipitare anche lui e quindi, a conti fatti, non si salva nessuno, a parte quel santo di Enzo Scanno che rimane l’unico personaggio decente di questa storia e che meriterebbe molto più spazio. Onore a Enzo.
Eppure, come si diceva all’inizio, questo è uno strano romanzo e nonostante tutto a fine libro si è ancora lì a pensare "Andiamo avanti, vediamo come va a finire". La Ferrante non sarà una grandissima scrittrice, però ha questa misteriosa capacità di spingere a continuare anche se non si riesce nemmeno a capire perché. Anche questo è un talento, in fondo.
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Un anello della catena
Terzo capitolo della saga dell'amica geniale. La storia di amicizia tra le due donne prosegue, anche se ormai le loro vite hanno preso pieghe completamente diverse e, come spesso accade con le amicizie dell'infanzia, resta un legame profondo, che si manifesta a tratti, tra silenzi e allontanamenti. Ci si perde, ci si dimentica l'una dell'altra, ci si ritrova nel momento del bisogno o semplicemente nei momenti importanti.
Rispetto ai precedenti libri, soprattutto al secondo, ho trovato questo terzo alternare momenti più coinvolgenti ad altri più lenti e a volte inutilmente prolissi. Inoltre l'inizio resta come staccato dal resto del libro, ci sono avvenimenti a cui il lettore si aspetta di ritornare alla fine del libro, come a chiudere un cerchio, che invece resta apertissimo. Al contrario degli altri che lasciavano la possibilità di proseguire il racconto, ma senza darlo per scontato, qui resta aperto proprio il punto di partenza, la storia va avanti per la sua strada senza ritornarvi, anzi allontanandosene sempre più. Mentre il primo ed il secondo volume mi hanno sembravano scritti in forma indipendente l'uno dall'altro, questa volta ho avuto l'impressione che l'autrice volesse riempire lo spazio che la separava dal successivo capitolo; diventa quindi fondamentale leggere il quarto,che si spera porti a conclusione il tutto.
In questo volume le descrizioni a volte mi sono apparse eccessive, non saprei dire se perchè effettivamente in alcuni punti siano più calcate o semplicemente sia una sensazione enfatizzata dalla stanchezza di leggere di seguito libri dello stesso autore, cosa che in genere preferisco evitare. In generale però i ragionamenti della protagonista, che nonostante sia avanzata l'età restano sempre gli stessi e non sembrano maturare con lei, vertono sempre sugli stessi punti e alla lunga, dopo ben tre libri, stufano.
Continua invece ad appassionare la storia, proprio perchè viene presentata l'evoluzione non solo delle vite e delle esperienze delle due amiche, ma anche di quelle dei personaggi di contorno che le accompagnano dall'infanzia. L'autrice non si dimentica di nessuno, riaggancia i fili in maniera superba, riuscendo a portare avanti tutto contemporaneamente, senza lasciare indietro nè chi ha avuto un ruolo più importante nè le piccole comparse. Chiunque è entrato nelle pagine dei libri precedenti ricompare, come a sottolineare che nessuno è stato inserito casualmente o marginalmente. Anche per questo suona ancora più dissonante il non chiudere i primi episodi narrati, il non ritornare ai tempi iniziali del libro, ma rimanere sul finale, ancora molti anni indietro.
In generale bel libro, ormai la saga è nota e consolidata, ma non entusiasmante e coinvolgente come il secondo.
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Ragioni dell'anonimato e anni 70
Il terzo volume dell’amica geniale è molto diverso dai primi due e capisco che a qualcuno possa non piacere. A me il cambiamento però sembra positivo. La vicenda delle amiche passa in secondo piano e fa da sfondo a una descrizione/analisi sociologica degli anni 70 con tutto il marasma che essi contengono: nascita del sindacato, Br, lotta continua e così via. Secondo me è proprio questo l’aspetto interessante del volume.
Nelle prime pagine Elena immagina di avere pubblicato un primo romanzo con il nome sulla copertina. Da tutte le seccature che ne conseguono per una donna che abita in un rione, l’equivalente di un piccolo paese, capiamo le ragioni dell’anonimato. Scrivere con il nome è come girare nudi per strada facendo finta di niente.
A parte questo, la prima parte del romanzo è la più bella, e Lila fa da protagonista con il suo lavoro nel salumificio, pretesto per descrivere le condizioni di lavoro degli operai, in particolare delle donne, la nascita del sindacato.
Leggere queste pagine in questi anni in cui siamo al capezzale dei sindacati fa uno strano effetto. Certo l’impoverimento e la perdita dei privilegi ottenuti in passato è evidente come è ancora più triste il fatto che ora il lavoratore non ha più possibilità di puntare i piedi ma deve sacrificarsi per far campare la fabbrica. Nel romanzo c’è un diverso fermento, e la condizione operaia è terribile ma contiene delle possibilità di miglioramento. Le pagine che parlano di Lila sono le migliori come se Elena riuscisse a sentire la vita e le cose soprattutto attraverso la pelle dell’amica. Nello strano rapporto comunque c’è una componente di affetto che è evidente dal calore e dalla partecipazione di queste pagine. Poi Elena si ritrova moglie di Airota, un intellettuale con idee non così innovative e coraggiose. Airota pur nella sua mentalità laica e sinistroide ha dei valori come la famiglia, il rispetto, la lealtà, una diffidenza verso la violenza che gli vengono rimproverate da moglie e colleghi, come se fosse un residuo poco ripulito della vecchia mentalità DC. A me Pietro piace, e anche sua madre Adele e sua sorella, li trovo onesti.
Invece interessante e terribile è la mentalità degli ambienti intellettuali del tempo: la vicinanza con la mentalità delle br, l’idea che l’intellettuale coraggioso debba spingersi oltre ogni limite, e terribile è soprattutto il fatto che dietro queste discussioni e ideologie non c’è quasi mai l’uomo o un senso di solidarietà ma una potente volontà di autoaffermazione. In un certo senso il mondo degli intellettuali fa rimpiangere i Solara. Michele Solara fa per mentalità mafiosa, alla luce del sole, quello che gli altri fanno sotto il mantello “etico” dell’ideologia. Ma che differenza c’è? In un certo senso è come se all’uomo fosse impossibile uscire dal rione perché c’è sempre un altro rione.
E’ bello il modo affettuoso con cui sono descritti tutti gli amici del rione nei loro simpatici difetti, nel loro dire le cose che pensano schiettamente. E’ come se a Elena pesasse il mondo degli intellettuali e rimpiangesse l’immediatezza, la franchezza dell’altro mondo pur nella sua grettezza e nelle sue passioni a volte meschine e mal mascherate. E’ la simpatia che fa il bambino rispetto all’adulto.
Curioso il secondo romanzo di Elena sulla donna creata dai maschi. Immaginando Elena Ferrante uomo, mi pare che se la rida sotto i baffi. In ogni caso la donna come la presenta Elena, la donna emancipata e liberata assomiglia pure a un uomo. E se Elena condanna la donna dell’immaginario di un Airota, tutta casa, marito e figli, anche la donna dell’immaginario Ferrante ha qualcosa che non va e assomiglia alla donna dell’immaginario della nostra società che trova spazio solo se ha pretese da uomo per carriera e ambizione, se è più cattiva di un uomo, se è disposta a sacrificare tempo, affetti, famiglia, figli alla carriera. Oggi, la donna che vuole fare figli dopo anni di lotte sindacali ancora non fa carriera se è nel pubblico e viene licenziata se è nel privato, nonostante la società sia a rischio di implosione per il calo demografico: uno strano caso di schizofrenia sociale. Nella parte finale mi pare che Elena non abbia troppa simpatia per il suo personaggio. Non c’è molta simpatia quando si descrive, mentre c’è quando descrive Lila che è sempre a colori. Pur arrivando davanti all’amica sempre e in tutto, mi pare che la guardi con rimpianto oltre che con diffidenza. Secondo me rimpiange un diverso tipo di rapporto che non è riuscita a impostare con lei, che non contenesse tante paure e rivalità.
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Storia di chi fugge e di chi resta.
"Nelle favole si fa come si vuole e nella realtà si fa come si può."
Terzo capitolo della storia della Ferrante, dove troviamo Lila un po' sullo sfondo, mentre Lenù in primissimo piano ci viene raccontata in tutte le sue mille sfaccettature: piena di ansia, di paura, debole e stanca perché diventa madre e moglie, deve accudire le figlie, capire ed amare un marito spesso assente e distante a causa del suo lavoro all'università, cerca di allontanarsi dal rione e da tutti i suoi abitanti, ma un filo la lega indissolubilmente alla sua terra di origine, ogni volta è costretta a ritornare dove tutto ha avuto inizio, la sua carriera da scrittrice latita e le sue aspirazioni traballano, il matrimonio vacilla affondato nelle difficoltà del quotidiano e grazie agli scherzi del destino Nino prepotentemente si riaffaccia nella sua vita, sconvolgendola e mostrandoci una Lenù piena di una passione fin troppo eccessiva e accecante.
Nonostante sia il terzo della serie, ci si poteva immaginare che la Ferrante non sarebbe riuscita ad attirare ancora l'attenzione del lettore sulla storia delle due amiche Lila e Lenù, ma grazie alla sua forza narrativa cattura ancora una volta l'attenzione di chi legge e la curiosità per l'ultimo libro lasciando la storia sospesa!
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Un seguito deludente
Dopo i due primi volumi della saga dell'Amica geniale - scrittura scintillante, materia travolgente, letteratura ai massimi livelli - questo terzo volume è deludente al punto da confermare il sospetto che quella di Elena Ferrante sia una scrittura multipla. Arrischiando un'ipotesi non confermabile, non mi stupirebbe che sia stato scritto da uno scrittore maschio e mediocre: la scrittura è fiacca e piena di clichés (guardate solo quante volte è declinato il termine "fine", "finissimo" "finemente"), l'io narrante è sfocato, lo stesso personaggio di Elena, al quale il confronto con Lila dava toni sulfurei e selvaggi negli altri volumi, si è ammosciato, per dirla con la Ferrante dell'inizio. Insomma, grande delusione, anzi, tradimento!
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Il disordine degli anni'70 e dell'animo di Elena
"Storia di chi fugge e di chi resta", terzo volume della saga de L'amica geniale della Ferrante. Se il secondo libro è troppo prolisso, ripetitivo, a tratti forse un po' banale, questo si legge d'un fiato, è sincero, intenso, viscerale. E molto complesso. Al suo interno c'è tantissimo: il racconto degli anni Settanta, gli anni del terrorismo e delle lotte operaie; l'amore, il matrimonio, la maternità, la condizione femminile - e a proposito, non posso credere che dietro Elena Ferrante si celi un uomo, sa sviscerare troppo bene l'animo dei suoi personaggi femminili per pensare che possa non essere una donna. E poi sempre Napoli, sullo sfondo, dura e crudele, caotica e affascinante, sempre capace di esercitare quel richiamo imprescindibile sui protagonisti così come sul lettore. Il personaggio di Elena qui finalmente cresce, viene fuori in tutta la sua pienezza e il suo disordine represso, mentre Lila resta l'amica geniale ed enigmatica, adesso forse la più lucida e lungimirante fra le due. Impossibile non cominciare subito, avidamente, il quarto volume, con l'ansia di seguire ancora le storie delle due amiche, che più che personaggi di un romanzo adesso sembrano persone che si conoscono da sempre...
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UN AMORE A TELA DI RAGNO
Che cosa succede quando la fiaba finisce e la principessa va a vivere felice e contenta nella sua reggia?
Lila, la principessa cattiva, si è accorta subito di aver donato bellezza e intelligenza al principe sbagliato, che si è trasformato in orco già durante la festa di nozze. Lenù, la principessa buona, arriva al traguardo dopo aver attraversato un bosco buio e senza fine: ha dovuto sudare sette camicie sui libri e tessere oro dalla paglia, ma infine ha sposato il figlio del re di un reame lontano dal rione e ha coronando anche il suo sogno infantile scrivendo senza fatica un romanzo di successo. Ma anche questa fiaba è destinata a finire.
“Il matrimonio mi sembrava un istituto che, contrariamente a quanto si pensava, spogliava il coito di ogni umanità.”
Il sesso si rivela una delusione, la maternità divora il corpo e la mente, il successo letterario si sgretola in fretta e su tutti gli affetti, dall’amore all’amicizia, si stende un incantesimo maligno che impedisce di comunicare, di chiedere, di rispettare. Lenù voleva fuggire dalla plebe, ma il rione torna da lei, fondendosi e confondendosi nella violenza degli anni di piombo: parolacce, mazzate, sopraffazione, morte. E malodore.
L’autrice riesce a raccontare con efficacia la storia di quegli anni “formidabili”, che abortiscono nella lotta armata: lo sguardo perduto e colto della principessa buona illumina di luce cruda le contraddizioni di quel periodo, mentre la voce lontana di Lila l’accompagna come ombra e ossessione, minaccia e pietra di paragone costante.
Lenù, prigioniera del suo matrimonio, della sua famiglia di origine e anche del suo antico legame di amicizia, cerca un altrove dove fuggire, ma ritrova la chimera della sua giovinezza: Nino, il rubacuori che ha dato il colpo di grazia al matrimonio di Lila, dopo aver seminato con noncuranza figli e rimpianti torna a prendere anche lei. Come finirà la seconda fuga di Lenù? Che conseguenze avrà l’abbandono? Che ne sarà dell’amicizia geniale? Lo scopriremo alla prossima puntata, anche non stiamo seguendo una serie televisiva: sullo sfondo, scorrerà ancora la storia del nostro paese, raccontata da una prospettiva d’eccezione.