Reborn
Letteratura italiana
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Madre potenziale
Ed eccomi qui, a recensire la talentuosa (e prolifica) autrice Valentina Belgrado. “Reborn” è la sua ultima creatura, che conserva lo stile distintivo dell’autrice: forbito, preciso, e nel caso del suo ultimo lavoro arricchito da una scorrevolezza che gli dà qualche punto in più.
Nel corso di queste quasi settanta pagine veniamo accompagnati in un viaggio nella psiche della nostra protagonista, Prisca, che si rivela un personaggio interessante e controverso. E’ questo secondo me il punto di forza di questo romanzo, ma dell’autrice in generale: quello di essere capace di portare in vita personaggi che si rivelano realistici nel loro essere anomali; molto spesso, nella letteratura, ci si imbatte in uomini e donne che sembrano troppo coerenti per far parte dell’umanità, che agiscono in maniera troppo lucida e i cui pensieri seguono fili troppo immacolati per appartenere a esseri umani carichi di sofferenze, fobie, insicurezze. Prisca è invece carica di quelle contraddizioni, di quei tratti distintivi che la rendono unica come potrebbe essere una donna in carne e ossa.
Come dicevo, la storia di “Reborn” è incentrata su Prisca e sulla sua volontà di avere un figlio, che lei desidera chiamare Tancredi; un figlio che vuole avere in ogni modo. Tuttavia, la sua vita sentimentale non le permette di intraprendere questo percorso, essendosi silenziosamente separata da un uomo con cui ha condiviso vari anni di vita, pur non avendo con lui condiviso nulla, non realmente. Da una storia sterile, Prisca non poteva ricevere il frutto del suo desiderio; tuttavia, lei sembra scovare un altro modo per poter avere quel figlio tanto atteso. Questa scelta la porterà a trasferirsi per un certo tempo in Emilia Romagna, dove una serie di eventi la costringerà a guardarsi dentro, a confrontarsi col suo passato e con la spaventosa realtà che ci circonda.
Prisca intraprenderà un viaggio dentro sé stessa, e noi con lei.
“Una tenace cortina di struggimento per ciò che non ero ha avviluppato tutti i primi periodi della mia esistenza, con scarsi e fugaci barlumi di leggerezza. La ricerca ostinata di un grimaldello di sofferenza per essermi guadagnata davvero tutto quell’agio e quel benessere che, in termini societari, ritenevo dovuti. Quindi, da fuori, mi si percepiva viziata e capricciosa; da dentro, io mi sentivo misurata e insignificante al punto di necessitare continui tormenti per potermi dire in pace.”