Quer pasticciaccio brutto de via merulana
Letteratura italiana
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Diritto e rovescio
“Chi è certo di aver ragione a forza, nemmeno dubita di poter aver torto in diritto”.
Immaginiamoci se Ingravallo, poliziotto molisano nella fascistissima Roma del 1927, può lontanamente pensare di impersonare il dubbio nella ricerca della verità: ovvio è, che niente può turbare la quiete pubblica o per meglio dire l’artefatta costruzione della realtà che il regime impone. Lo seppe bene il povero Gino Girolimini che - per inneggiare alla giustizia celere il “Testa di Morto in feluca “- venne per tale solerzia ingiustamente accusato di ben sette omicidi legati alla pedofilia, poi discolpato ma con la vita rovinata. E questo, nel quale si trova a indagare il povero Ingravallo , è proprio un caso di omicidio a doppio filo legato ad un precedente furto subìto dalla signora Menegazzi – attenzione vuole che non si avviti la lingua proprio sullo scambio consonantico nel secondo termine - inquilina dello stesso stabile in via Merulana 219, scala A, dove è stata uccisa appunto la signora Liliana Balducci. Già queste mie scarne righe introducono la vicenda e l’ambientazione ma è lo stile a far la differenza: un rimbombare di dati, un affastellarsi di richiami, un prepotente realismo che toglie a tratti il respiro e allontana dal puro fatto accidentale.
Ho letto questo giallo non giallo, non si perviene infatti a una risoluzione ma si rimane ancorati all’ultimo emblematico dubbio del protagonista, con viva curiosità, alte aspettative e il giusto timore reverenziale scaturito da un acerbo approccio al romanzo , su consiglio di una docente che ne parlò come della “migliore opera della letteratura italiana del Novecento” e che abbandonai dopo le primissime pagine. Troppo piene, troppo allusive, ricche di richiami culturali che mi era impossibile inseguire e quel lento scivolare dentro l’anima delle persone attraverso il logos. A distanza di anni, molti in verità, sono stata invece scalzata dalla mia reticenza perché ho goduto di questa lettura che mi ha sorpresa soprattutto sotto l’aspetto linguistico.
Posso paragonare il sentimento a quello provato nel leggere per la prima volta Bufalino, con la sola differenza che qui avevo bisogno del suono e per lunga parte ho sentito l’esigenza di leggere a voce alta il pastiche linguistico dove su tutto regna il romanesco. Magistrali sono le pagine , soprattutto nella prima parte, che a tamburo battente intercalano la prosa con fiorite e colorite espressioni che richiamano alla mente il duce , si va dal “Testa di Morto in stiffelius” a “potenziatore d’Italia”, passando per “mascelluto”e “Pupazzo a Palazzo Chigi”. Si respira fin da subito un’esigenza di giustizia e di ordine, l’ironia è fine, a tratti irresistibile e divertente, se non fosse che su tutto aleggia l’opprimente cappa di connivenza, di subordinazione, di ordine perfetto e il pensiero allora si arresta alla dura riflessione. Il senso della giustizia. Alla mente subito Sciascia e poi Tabucchi, altri regimi, altre connivenze e quel torpore di chi , il protagonista delle loro opere, come Ingravallo, si muove. Ho parlato di una prima parte, in realtà l’opera non vive di distinzioni di tal sorta, ma è come se fosse bipartita in virtù della sua adesione o meno al modulo del giallo; fino al settimo capitolo si acquisiscono le informazioni necessarie per avviare l’indagine e la fabula va di pari passo con il procedere degli eventi fino ai funerali della vittima, poi è un lento procedere e arenarsi tra piccola gente di borgata scoperchiata nella sua quotidianità, piccola e greta e sudicia, a scalfire una patina di perbenismo che mai sarà crosta. La dura crosta è altro. È il moribondo in povertà alla fine del romanzo speculare alla rappresentazione della trachea inanellata trafitta da una lama che si perde nel gorgoglio del denso sangue di una vittima perbene. La crosta è la violenza di cui si nutre l’uomo e che si perde nella filosofia del protagonista con la fronte segnata da due “bernoccoli metafisici”: le catastrofi sono sempre non tanto l’effetto di una singola causa ma di una “molteplicità di causali convergenti” in uno “gnommero” ( gomitolo) che può solo trasformarsi in un “pasticciaccio”. Buona lettura.
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Tabucchi
Un gomitolo ingarbugliato
Questo libro inizia con la connotazione di un giallo, ma ben presto si trasforma in un viaggio nell’italianità più colorata, con tutta la sua mescolanza di dialetti tipici, che fa dello stile di quest’opera un tratto caratteristico. In questo groviglio impressionante di lingue però ti perdi, non riesci a trovare il filo di Arianna dei fatti raccontati, forse anche perché la vita stessa non ha sempre un perché ed un chi ben definiti. La lettura risulta indubbiamente molto complessa e stancante; non è davvero un libro per tutti.
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Gnommeri e garbugli
Un fantastico esercizio di stile, geniale, interessante e sorprendente. Un utilizzo delle lingue (dialetto romano, napoletano, veneto, lombardo, latino, francese, inglese) impressionante, ricercatissimo e magistrale. Una ironia studiata, nascosta tra le righe, latente, irresistibile in molto passi. Alcune pagine sono memorabili.
La trama è volutamente complessa, stratificata e aggrovigliata per far risaltare ancora di più lo stile linguistico. Un romanzo senza protagonisti, un omicidio senza colpevoli, un giallo senza tensione, in cui il filo del discorso viene frenato continuamente da metafore, descrizioni, considerazioni, galline che girano, rumori di popolo, invettive.
L'ho letto? No, ci ho provato più volte, ma non ci sono riuscito, troppo complesso, troppi dialetti, troppo intricato, troppo... soporifero (accidenti, quanto son limitato).
Ma me lo sono fatto leggere da Fabrizio Gifuni (in audiolibro) e ne sono rimasto estasiato. Di Gifuni, intendo. Bravissimo, espressivo, strepitoso! Musicale, divertente, interessante.
Bellissimi certi passaggi, come per esempio questo sulla burocrazia:
"Là, là, da più lune, la sua pratica risognata attendeva, attendeva. Come delle pere, delle nespole, anche il maturare d'una pratica s'insignisce di quella capacità di perfettibile macerazione che la capitale dell'ex-regno conferisce alla carta, si commisura ad un tempo non revolutorio, ma interno alla carta e ai relativi bolli, d'incubazione e d'ammollimento romano. S'addobbano, di muta polvere, tutte le filze e gli schedari degli archivi: di ragnateli grevi tutti gli scatoloni del tempo: del tempo incubante. Roma doma. Roma cova. In sul pagliaio de' decreti sua. Un giorno viene, alfine, che l'ovo della sospirata promulga le erompe alfine dal viscere, dal collettore di scarico del labirinto decretale: e il relativo rescritto, quello che abilita il macilento petente a frullar quel cocco, vita natural durante a frullarlo, vien fulgurato a destino."
O questo, sulle abitudini alle telefonate gerarchicamente a cascata tipiche dell’Italia (del tempo ma anche odierna), tanto inevitabili quanto inutili:
"La cascatella delle telefonate gerarchesche, come ogni cascatella che si rispetti, era ed è irreversibile in un determinato campo di forze, qual è il campo gravidico, o il campo ossequenziale-scaricabarilistico".
Gadda è stato un grandissimo scrittore e questo libro ne è la dimostrazione. Anche se il libro, a mio parere, non è per tutti.
Se qualcuno facesse fatica (come me) a leggere il libro per conto suo, consiglio vivamente l'audiolibro; è una esperienza di lettura diversa ma in questo caso estremamente soddisfacente.
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Cronache minimali dalla Roma del fascio
Il commissario Francesco Ingravallo è un tipo “tosto”: un molisano determinato che sa essere sbrigativo quando e quanto occorre, armato di una dose di cinismo funzionale al suo ruolo. Ma non troppo in armonia con l'imperante ideologia mussoliniana: potendo scegliere, avrebbe preferito fare dell'altro – o nascere in un diverso periodo – piuttosto che essere tra i tutori dell'ordine nella “Roma fascistissima” dell'anno 1927.
Il 20 febbraio – giorno come tanti – il commissario è invitato a casa Balducci, per un pranzo esteso ad altri amici della signora Liliana: lei, nubile e piacente padrona di casa nonostante i segni della mezza età, è compagnia che il commissario Ingravallo non disdegna, pur mantenendo l'assoluta osservanza delle dovute maniere.
Poco dopo quella piacevole giornata, tuttavia, in quello stesso stabile di via Merulana si susseguono due fatti di cronaca nera: prima una strana rapina, poi, qualche giorno dopo, l'omicidio della stessa signora Liliana, sul cui corpo l'assassino si accanisce senza un'apparente spiegazione.
E' quello il “pasticciaccio” che Ingravallo – profondamente colpito dall'accaduto – si troverà a dover sbrogliare. E inizierà torchiando il cugino della vittima, certo Giuliano Valdarena, un bell'uomo dai comportamenti apparentemente ineccepibili, e che tuttavia – secondo il commissario – con la sua parente aveva un rapporto tutto da chiarire...
Decisamente l'opera più nota dello scrittore milanese Carlo Emilio Gadda. Che all'inizio pare utilizzare lo schema del giallo, mentre il libro – come si scopre presto – va in tutt'altra direzione.
Il “pasticciaccio brutto” che sconvolge una ordinaria giornata capitolina è infatti il pretesto per un'analisi dei caratteri umani, così di un certo ambiente alto-borghese della Roma degli anni '20-'30 come dei quartieri popolari, sprizzanti veracità ed “assuefazione” all'esistenza. Un risultato che Gadda raggiunge con un linguaggio assolutamente unico: un misto di espressioni dialettali (laziali, molisane, campane) e modi di dire, per una scrittura creata apposta per esaltare lo sguardo ironico sulle vicende, i personaggi e – perché no? - il momento storico.
A queste condizioni diventa superfluo anche un vero e proprio finale: un libro che si conclude ad un certo momento della vicenda, ma che sarebbe potuto proseguire a discrezione di chi l'ha partorito.
In realtà, “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana” è universalmente conosciuto – e da molti ritenuto un capolavoro della letteratura italiana novecentesca – per lo stile prescelto dal suo autore molto più che per il suo contenuto. Stile che (ancor prima del linguaggio) chiede al lettore un'alta soglia di impegno: il suo essere spiccatamente anticonvenzionale (anche per la letteratura odierna) può rendere faticosa la lettura, al punto di indurre all'abbandono del libro prima di averlo terminato.
Si tratta di un'opera a suo modo unica, senza dubbio... ma è anche vero che lo scrittore si cimenta, mentre nelle facoltà del lettore è rifiutare. A ciascuno la scelta.
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La vita e questo romanzo sono un “garbuglio”
La vita è un gran “garbuglio” e inutili sono gli sforzi per dipanare la matassa, tanto ciò che è resta e a questo concetto sembra improntarsi l’azione svogliata del Commissario della Squadra Mobile di polizia Francesco “Don Ciccio” Ingravallo, sulla cui esistenza tutto sommato tranquilla cadono pressoché contemporaneamente le indagini per due misfatti perpetrati nello stesso stabile di via Merulana: un furto a colpi di pistola nell’appartamento della contezza Menegazzi e poi addirittura l’omicidio della sua dirimpettaia, l’affascinante signora Balducci, grande amica dello stesso Ingravallo, peraltro nascostamente innamorato di lei.
Siamo negli ultimi anni venti, con il fascismo che ha consolidato il suo potere e che aspira a mostrare al mondo un’Italia ordinata, sicura, senza fatti delittuosi, un po’ con l’efficacia di leggi eccezionali, ma soprattutto con il bavaglio alla stampa che di certe cose non deve dar risalto. Ma se è possibile condizionare i giornali, è assai difficile imbrigliare la voce popolare, sempre sensibile a fatti di sangue, soprattutto quando le vittime non sono personaggi oscuri.
Quindi si deve arrivare il prima possibile alla soluzione, oppure, in caso di esito sfavorevole, si rende necessario calmare le acque, sotterrare piano piano vicenda e personaggi, in modo che il nostro “Mascellone” possa ostentare in tutta sicurezza la sua grinta leonina.
Quasi a passo di gambero procede Ingravallo, nel mentre la vox populi .deforma e amplia la realtà, cosicché tutti diventano sospettati, ma non perseguibili, in quanto del reo o dei rei non c’è il benché minimo indizio. E alla fine questo giallo resterà irrisolto, anche perché la vicenda è solo un pretesto a cui l’autore ricorre per mostrare da un lato le ipocrisie del fascismo e dall’altro per guardare con sospettosa ironia la vita, come se questa fosse una grande opera incompiuta, senza né capo né coda, nonostante che gli uomini si arrovellino, non proprio tutti, ma una buona parte, per trovarne il senso, per venire a capo di un garbuglio che diventa sempre più intricato.
E’ una visione pessimista dell’esistenza sorretta tuttavia da una vena di sottile autoironia che salva l’opera dal rischio di scivolare nel ridicolo, un romanzo che in altre mani sarebbe proceduto veloce e senza intoppi, pur senza giungere a una canonica conclusione, ma che, a mio avviso, risulta gravato da digressioni spesso inutili, non pertinenti, e da un linguaggio del tutto inventato (una sorta di romanesco italianizzato) che se, sporadico, sarebbe caratteristico, ma che invece quasi sempre ripetuto finisce con lo stancare, anche perché l’autore non si propone, bensì si impone al lettore e questo è un grave errore, una mancanza non solo di umiltà, ma anche di professionalità.
Comprendo che lo scrittore ha cercato di coniare un linguaggio nuovo, ma ciò non deve essere fine a se stesso, perché la parola è e deve essere considerata solo un mezzo con cui viene portato avanti un discorso, con cui si lancia un messaggio, un tramite quindi per comunicare.
E pensare che Gadda viene considerato uno dei grandi della letteratura e può anche essere che lo sia, soprattutto per una certa cerchia di critici che ha ignorato a lungo degli autentici “grandi”, fra i quali, tanto per fare un nome, Primo Levi, il più grande scrittore italiano del XX Secolo.
Vorrà dire che io non sono capace di giudicare, né io ho mai avuto del resto la pretesa di essere considerato una voce prestigiosa; in fondo sono un semplice lettore che azzarda delle critiche e se i miei giudizi possono apparire fuori luogo, però da semplice lettore mi permetto di dire che questo romanzo è stato da me scarsamente gradito, sia per i contenuti, per niente profondi, sia per uno stile barocco pesante come un macigno.
Con ciò non voglio dissuadervi dal prenderlo in considerazione, ma è bene che sappiate quello a cui andrete incontro.
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Inesplicabile gnommero
Nella Roma del ventennio non c’è spazio per la criminalità. L’opera di moralizzazione dell’Urbe portata avanti dal “Testa di Morto in tight” prevede l’estinzione di ladri, assassini, truffatori e compagnia bella. Ma un duplice pasticciaccio rischia di infangare la riuscita del programma del “Mascellone”. Nell’inverno del 1927 infatti in via Merulana succedono a breve distanza due fatti criminosi, nello stesso palazzo e addirittura sullo stesso pianerottolo. Prima avviene un furto a colpi di pistola in casa della contessa Menegazzi, quindi viene brutalmente assassinata la sua dirimpettaia, la distinta e affascinante signora Liliana Balducci, grande amica e inconfessato amore del dottor Francesco Ingravallo, comandato alla mobile. E proprio a lui, don Ciccio come tutti lo chiamano, viene assegnato il compito di condurre le indagini, per scoprire i colpevoli e mettere a tacere l’opinione pubblica per la gioia del “nuovo inquilino in fez di palazzo Chiggi”. Ma non sempre le ricerche portano alla scoperta della verità. Coerentemente con la sua visione del mondo basata sulla inesplicabilità delle vicende umane, Gadda lascia questo giallo insoluto, così come insoluti risultano gli sforzi dell’uomo per venire a capo della complessa matassa della vita. Vediamo quindi i vani tentativi di don Ciccio di districarsi in questo ingarbugliato “gnommero” , tra cugini incantatori, ingegneri dal palato fino, garzoni sospetti, elettricisti latitanti e ragazze sedotte e abbandonate. Ma il buon Ingravallo appare svogliato e rassegnato nella conduzione dell’indagine, un po’ per la palese inanità della sua ricerca, un po’ per la scarsa voglia di lavorare al servizio di un governo scellerato. L’autore mette in secondo piano l’aspetto giallo della storia, esponendo invece la sua disillusa concezione della vita, ironizzando sulla condizione umana e affondando stoccate sul regime e sul suo fanatico leader. Ma la sua idea di inestricabilità del mondo sembra ricadere anche sulla prosa che risulta arcigna e fin troppo articolata, rendendo ostica e pesante la lettura. A ciò vanno aggiunte le lunghe disquisizioni in stile barocco su argomenti avulsi dal contesto e per niente interessanti come ad esempio l’importanza degli alluci nell’iconografia sacra. Gradevole invece, anche se a volte di difficile interpretazione, il ricorso a pittoresche espressioni dialettali e a folkloristici personaggi popolari come ad esempio sora Manuela o la Zamira, sarta, lavandaia, ristoratrice, indovina, meretrice e maitresse, che danno un’idea colorita e realistica di una capitale e di una nazione a cui, nonostante le difficoltà dell’epoca in questione, non si può che guardare con simpatia.
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