Quando tornerò
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Cuori invisibili
“Quando tornerò” di Marco Balzano è un romanzo familiare a tre voci, quello di una giovane madre della Romania, Daniela, che vive e lavora come badante a Milano, e i suoi due figli, una ragazza ed un ragazzo, rimasti nel paese natale; la prima, Angelica, appena alle soglie della maggiore età, il secondo è Manuel, un ragazzino che sta appena affacciandosi sull’adolescenza.
Si parlano, si raccontano, si dicono: prima il ragazzo, poi la madre, infine Angelica.
Questo, perciò, è un testo sonoro, non è un audiolibro e però è un libro da sentire, di poche parole all’inizio, ma poi quasi subito progressivamente ingravescente di dialoghi e discorsi, un romanzo di cui porsi in ascolto in religioso silenzio, da orecchiare tenendo fissi gli occhi sulla pagina come fossimo assorti sul labiale.
Marco Balzano, già autore dell’intenso e fortunato “Resto qui”, stavolta fa da fonico, registra suoni e dialoghi, li modula, ce li porge e ce li fa ascoltare con decisione senza omettere alcuna nota, anche le più stridule: il suono è invisibile ma concreto, come certe persone che nessuno nota eppure esistono, vivono con noi e intorno a noi, ci badano e si prendono cura di noi, dei nostri nonni, dei nostri cari anziani e malati. Sono cuori invisibili, ma cuori vivi, che battono, che palpitano, che stentano.
Cuori invisibili, resistenti e resilienti.
Balzano raccoglie le loro pulsazioni, il ritmo, gli sbalzi pressori, più spesso le fibrillazioni o le aritmie, e lo fa con intensa e diretta partecipazione empatica, è evidente dal modo, la gentilezza, la delicatezza con cui sistema i microfoni a portata di voce dei suoi protagonisti, ma allo stesso tempo dosando perfettamente il bilanciamento e trascrivendo con cura quanto registrato.
Una scrittura asciutta, dialogata, che estrinseca nel parlato azione e pensiero, condotta ed emozioni, eventi e sensazioni, direi davvero un ottimo elaborato, più sentito e maturo del precedente libro.
Come dire, risaltano qui solo le voci essenziali della famiglia protagonista e narrante, poiché la figura paterna, che pure c’è e che a tratti fa sentire la sua voce, per quanto flebile, non conta, è ininfluente, semmai un impiccio più che altro, nel racconto non ha la stessa incisività degli altri componenti, madre e figli. Non può averla, almeno questo genitore, una sorta di arcaico e anacronistico padre padrone, benché giovane d’età, figura che ancora sopravvive e non è una eccezione per i luoghi di cui si parla, l’entroterra rurale dei paesi dell’est europeo dopo la caduta dell’impero sovietico.
Evento storico e politico disastroso, che ha trasformato la forza motrice dei paradisi socialisti del lavoro in un esercito di badanti. Due terzi dei quali sono donne.
Perciò l’ uomo di casa, il capofamiglia, brusco, rude, lavoratore poco specializzato e poco scolarizzato, dedito facilmente all’alcol come requisito indispensabile per la patente di “uomo e maschio”, ha poca voce in capitolo in questo libro che parla di forza, ma di quella vera, quella di certe donne come Daniela, la forza d’animo indispensabile per tollerare esistenze estenuanti, sfibranti, deprimenti. Talora il padre sembra un estraneo ai suoi stessi congiunti, più che un fantasma, una persona assente anche quando è in presenza, può ammaliare la figlia e il figlio, forse, data la loro età, salvo non rendersi mai conto della realtà delle cose, posticipa qualsiasi scelta e decisione, è inconsapevole ed irresponsabile ad un tempo. Ha un vissuto fuggevole ed estraniante dalle vicende e dai pensieri del resto del gruppo, questi ultimi tre legati invece da un intreccio complesso in cui coesistono sentimenti di abbandono, di nostalgia, di solitudine, di lotta per la sopravvivenza, e cocciuta disperazione. E sogni, desideri, ambizioni comuni ed usuali.
Un romanzo familiare, e sarebbe da dire meglio un dramma familiare, se non fosse che quanto descritto non viene vissuto come un dramma, ma quasi come un destino ineluttabile.
Per quella famiglia, e per tante come loro, il penoso trascinarsi dell’esistenza rincorrendo i bisogni primari è la norma, è nell’ordine delle cose. Questo è un libro, asciutto, duro, ma estremamente reale.
Si racconta qui della fatica dell’esistenza, del logorio di certe esistenze per vivere, è infatti una storia di migranti, di moderna schiavitù travestita da migrazione, di esodo forzato.
Una normale famiglia romena, di estrazione rurale, si ritrova quasi da un giorno all’altro sul baratro del fallimento. Il capofamiglia perde il lavoro, unico sostentamento del nucleo familiare, non riesce a trovarne un altro, e come tipico di quelle popolazioni dell’entroterra arretrato, risolve con l’alcool la sua depressione ed incapacità di agire. Tocca alla madre, Daniela, come tante altre, se non tutte, le donne della regione, trovare un’attività che permette al resto della famiglia di sopravvivere, al marito disoccupato di procurarsi i materiali edilizi necessari per sistemare l’abitazione, soprattutto per permettere ai figli di continuare a studiare. Fuori dal paese, naturalmente. In Italia, a Milano.
Un giorno all’improvviso. Partendo di nascosto dagli stessi familiari, di notte come un ladro.
Perché è inutile restare a fare la guardia ad un mondo che muore.
Un viaggio su un autobus, certo non su un barcone alla deriva nel mare a rischio della vita, ma non meno inammissibile, per giungere in un’altra nazione, in un’altra città con lingua diversa, usi e costumi insoliti e discordi.
Per esercitare la professione di badante.
“…questo è il lavoro che si trova, questo è il paese dove siamo nati, e questo è il tempo in cui ci tocca vivere, non l’ho scelto io…”
Un lavoro duro, difficile, estenuante, deprimente per chi magari ha altri titoli e qualifiche più elevate, per di più svenduto a prezzo irrisorio: la maggioranza della popolazione del mondo occidentale benestante, gode di alimentazione, cure mediche e conforti tali da allungare l’esistenza, pertanto è anziana. Gli anziani necessitano di cure, le cure per definizioni sono prerogativa delle donne, le donne dell’est sono in condizioni disperate, al punto di accettare una modesta retribuzione, che nessun occidentale accetterebbe, per prestare queste cure, e si prestano.
A caro prezzo, ma un prezzo in capo a loro, non ai datori di lavoro.
“Le prime parole che ho imparato in Italia sono stati i nomi delle malattie, i principi attivi dei farmaci, le parti inferme del corpo. Quando me ne rendevo conto impietrivo.”
Vengono per prendersi cura, ma sono cuori invisibili, nessuno si prende cura di loro, nemmeno quelli rimasti a casa e che dai proventi dei loro sforzi traggono soldi, sostentamento, mantenimento agli studi, videogiochi, gadget tecnologici, ricariche telefoniche e tutto quanto serve.
Solo che per gli uni e gli altri si perde di vista cosa effettivamente serve.
Daniela lavora instancabilmente perché la famiglia abbia cose, e si perde non nella fatica che costa procurare cose ma nella tristezza della solitudine, che a sua volta le restituisce solo una cosa, la depressione:
“…la mia vita, finche non ritornerò a Radeni, sarà sempre veder morire dei vecchi, pensavo.”
”Quando tornerò” non è solo il titolo del libro, o un auspicio di tempi migliori, è una chimera, è una nenia che Daniela si ripete come un karma per trovare in sé forze residue e motivazioni sufficienti per continuare in un’esistenza, infine, di mero sfruttamento, che inevitabilmente si tramuta in un “mal d’Italia”, il limite ultimo dei muli da soma sfruttati fino all’inverosimile.
Per vivere non basta una retribuzione per quanto modesta e irregolare: serve altro, serve affetto, tenerezza, calore, attenzione, cura reciproca, supporto, conforto, vicinanza.
Tutte cose che la famiglia, gli affetti, ti assicurano: vale per Daniela “reclusa” a Milano come per Angelica e Manuel bloccati in Romania e pervasi di nostalgia struggente per la madre e consunti per il desiderio spasmodico di un corso diverso della loro esistenza.
Dovrà però tornare a forza, Daniela, a seguito di un evento straziante: Manuel ha un incidente con il motorino, giace in coma. Così la donna ritorna al suo paese in Romania, Redeni, giace per mesi al capezzale del figlio, e gli parla, gli bada, lo assiste, si prende cura di lui, questa volta non è una badante, ma solo una madre, gli sta vicino con cocciutaggine ed amore senza fine.
La sua retribuzione stavolta non sarà irrisoria e in nero, come un’elemosina per vivere, ma inestimabile è il riprendersi parte delle esistenze dei figli che si era persa, e che loro di lei avevano perso. Termina la storia infine come è giusta che finisca, con le esistenze di ciascuno che si separano, ancora una volta, ma con un appuntamento, un “quando tornerò” meglio delineato, dopo un percorso che è come il tragitto di un boomerang lanciato in aria.
Sfreccia in alto, raggiunge un culmine, poi vira e torna indietro: in quell’attimo devi essere pronto a saltare per riafferrarlo mentre torna e ricade, devi raccogliere il testimone.
Un bel libro, consiglio di leggerlo e farlo leggere; perché è ben scritto, perché Marco Balzano dà voce a chi non l’ha, rende noti i cuori invisibili che non sono fantasmi ma sono concreti, umili, silenziosi, non badanti ma non badati che permettono ai visibili fortunati di vivere la loro concretezza agiata disinteressandosi della vil materia del vivere; infine, perché il messaggio racchiuso in un libro talora si comporta esattamente come un boomerang, sfreccia nell’aria, curva e torna indietro, e qualcuno salta per prendere il testimone. Deve saltare, ha un senso solo così.
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MAL D'ITALIA
Condivido quanto afferma Sandra Petrignani: Marco Balzano è uno degli autori maschili contemporanei che meglio sa raccontare le donne.
Lo fa, partendo da una storia tipica dei nostri tempi: quella delle badanti venute dall’Europa dell'Est in Italia per accudire i nostri anziani. Il racconto è affidato alle voci dei tre protagonisti: Daniela, la madre, Manuel e Angelica, i figli, si alternano nella narrazione di un pezzo di storia comune e di un pezzo di storia privata. Al racconto oggettivo degli eventi si sovrappone, così, la prospettiva intima dei tre, fatta di ragioni, sentimenti, rancori che, se pure non incarnano i fatti, comunque li determinano.
Il marito-padre resta sullo sfondo, come una figura marginale, svogliata, incapace di incidere sul corso della storia o anche solo di supportare la famiglia. Piuttosto sopporta, finché non se ne va.
L’incipit del romanzo prende le mosse dalla partenza improvvisa di Daniela che fugge di notte per l’Italia. In segreto, ha fatto le proprie scelte. Ora, a distanza, si propone di indirizzare quelle dei suoi affetti.
E invece, come prevedibile, il gioco sfugge al suo controllo. I figli prendono altre strade, i canali comunicativi si chiudono e i cellulari, le felpe, le ricariche telefoniche che Daniela manda a distanza non riescono a colmare l'abisso che si è creato tra lei e i suoi ragazzi. Impotente, assiste allo sfacelo della sua famiglia e, tuttavia, non torna. Il mal d'Italia è troppo forte.
Tutti i protagonisti restano come invischiati in un meccanismo perverso che tradisce le aspettative, illude le speranze, fabbrica menzogne e, a ogni mossa, il cordone che li teneva uniti si sfilaccia sempre più fino al definitivo strappo.
Uno strappo doloroso ma al tempo necessario alla emancipazione dei singoli e alla ricomposizione, in forma differente, del nucleo familiare.
Manuel, il figlio minore, dopo aver vagato senza meta con spirito indolente, trova una propria collocazione nel mondo e riesce ad affermare la propria identità.
Angelica, la maggiore, complice anche il peso del fratello, dapprincipio segue diligente il solco tracciatole dalla madre; dopodiché, assolti i propri compiti, dice basta e si affranca con una scelta improvvisa e radicale.
Daniela, per chiudere, resta sulla linea di confine tra Romania e Italia, a testimoniare che dal mal d'Italia non si guarisce mai.
Un romanzo bello, sincero e commovente in cui spiccano, come detto all’inizio, le figure femminili di Angelica e Daniela, due anti-eroine che si ribellano a modo loro al marchio atavico del destino che ha imposto loro di accudire e di arrangiarsi. Non maledicono la propria condizione, non combattono la sorte, bensì ci passano attraverso, fino in fondo.
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Un mondo sì e un mondo no.
Sembrerebbe proprio che il mondo sia diviso in due parti: un mondo sì, del benessere, dell’agiatezza, del progresso, del vivere civile; e un mondo no, popolato di oppressi, emarginati e reietti, governati da regimi spesso sanguinari, infelici feriti nell’anima come nel corpo, che vedono nella fuga il solo mezzo per sopravvivere. Eppure questi due mondi coesistono, ma troppo spesso l’uno rifugge dal farsi carico dei drammi e delle vere tragedie dell’altro, di cui peraltro non raramente è persino responsabile.
Quanta forza nel J’accuse di Papa Francesco in occasione dell’ennesima strage di migranti in mare, che non può non essere condiviso anche da chi non è mosso dagli stessi sentimenti di fede e di religione: “E’ il momento della vergogna! Preghiamo per questi fratelli e sorelle e per tanti che continuano a morire in questi drammatici viaggi. Anche preghiamo per coloro che possono aiutare, ma preferiscono guardare da un’altra parte!”. Ecco è qui tutta la contrapposizione tra il mondo si, egoista e indifferente e il mondo no popolato da chi è nato nel luogo sbagliato. Perché se è vero che “quisque faber fortunae suae”, è pur vero che il destino e la sorte di ciascuno sono segnati sin dalla nascita.
È questo il tema di fondo del bellissimo libro di Marco Balzano “Quando tornerò”: il dramma di una donna che abbandona la propria terra e i propri affetti per giungere in Italia in cerca di lavoro e di quel guadagno che possa offrire ai suoi figli un futuro migliore. Una fuga furtiva, di notte, senza preavviso, per evitare addii strazianti e il pericolo della rinuncia. Una fuga che provoca il rancore dei figli piuttosto che la loro gratitudine. Perché è spesso questo ciò che succede: il sacrificio di una madre che si adatta ai lavori più umili, e soggiace a situazioni umilianti non è compreso da chi rimane in patria e si sente orfano e defraudato di quella serenità alla quale sente di avere diritto. Quando una donna cessa di essere madre? Può la lontananza cancellare i diritti e i doveri di una madre? E sono sempre le donne le più penalizzate, molto più spesso sono loro che si allontanano per cercare di aiutare la famiglia, mentre gli uomini si rivelano l’anello debole della catena, inclini ad affogare nell’alcol delusioni e dispiaceri. Daniela, Angelica e Manuel sono le tre voci che danno vita a questa storia di dolore e di speranza. Ritrovarsi dopo la lontananza è sempre più difficile, specialmente quando si sono visti vanificati i propri sogni.
È ad un’immagine di grande efficacia che Marco Balzano affida il significato delle legittime aspirazioni di ogni individuo: l’immagine del boomerang. È il nonno ad insegnare a Manuel come lanciare il boomerang. Non è facile. Non è detto che si riesca a riprenderlo. “Il gioco è questo – aveva detto mettendomi in guardia. Prima di lanciarlo esprimi un desiderio, se quando torna indietro riesci a prenderlo, allora ci sono delle possibilità.” “E se non riesco?” “Cambia desiderio, oppure lavoraci ancora.” È qui tutto il significato del romanzo che definire molto molto bello è assolutamente riduttivo. Un rigore linguistico e una sobrietà di espressione rendono la lettura estremamente piacevole, al di là del contenuto che commuove e scuote le coscienze.
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Le declinazioni dell’amore
Orfani, sopravvissuti, migranti, dolore, solitudine, rabbia, nostalgia, tanti i temi dell’ ultimo romanzo di Marco Balzano. Tre capitoli, tre voci, tre protagonisti, una madre e due figli, un nucleo famigliare forzatamente disgregato dopo l’ improvvisa partenza di Daniela ( Moma ) per l’ Italia alla ricerca di un lavoro che restituisca dignità, presente e futuro ai propri figli.
Assenze protratte e presenze menomate, un’idea di sopravvivenza in attesa di un ricongiungimento affettivo, una scelta obbligata che riguarda molte donne dell’ est e destinata a cambiarne le vite per sempre .
C’è chi parte, il migrante, e chi resta, i sopravvissuti, due “ orfani “, Angelica, la sorella maggiore, e Manuel, il più piccolo. Sovente il migrante non tornerà, inghiottito da una necessità che diviene nostalgia, il cosiddetto mal d’ Italia, mentre i figli, affidati alle cure di nonni e zii ( i padri latitano ) in qualche modo sopravviveranno.
C’è chi sostituirà affettivamente e praticamente la figura materna ( Angelica ), cercando di costruirsi un futuro diverso, altri si chiuderanno in se’ stessi ( Manuel ), menomati nell’ animo, vivendo un lutto irrisolto.
Le migranti si scontrano con la nuova vita, difficile, dura, non richiesta, sovente cambiano luogo e lavoro, sognano una casa che non possono avere, soffrono di solitudine, accettano lavori sottopagati e poco gratificanti, umiliazioni, invisibilità, restituiscono serenità in ambienti famigliari in difficoltà, costruiscono precarie relazioni di comunanza destinate a svanire, desidererebbero un briciolo di amore.
Ogni sera al telefono inscenano la medesima litania, una patetica normalità, promettono un ritorno improbabile, ascoltano chi si sente abbandonato, ferito, tradito, che a sua volta non ha nulla da dire, ne’ voglia di parlare.
Quando un evento tragico, inaspettato, traumatico, restituisce Daniela ai propri affetti lontani, affidandola a una flebile speranza di vita, tutto cambia, si ferma, svanisce, il presente una riflessione su quello che è stato e un senso di colpa sempre più evidente, rimuginando sugli errori commessi.
Unità disperse di una famiglia disgregata, idee rafforzate da un senso di non appartenenza e di comunanza negato, il ricordo dei momenti di felicità condivisi.
Manuel, abbandonato dalla madre, aveva sofferto a tal punto da pensare che la propria vita non avesse più un senso, Angelica, a lei sempre più somigliante, si è costruita un futuro altrove,
Daniela scopre al capezzale del figlio pezzi di vita ignorati, immaginati, una rabbia che nasconde nostalgia, lei stessa ha vissuto l’ impossibilità di amare.
Ma ... “ questo è il lavoro che si trova, questo è il paese dove siamo nati e questo è il tempo in cui ci tocca vivere “.... Daniela si assume la colpa di avere abbandonato i propri figli involontariamente, di essere partita in attesa di un ritorno, di avere ignorato e tralasciato dettagli importanti.
Un romanzo di relazioni che affronta socialmente e psicologicamente il tema della migrazione al femminile e degli “ orfani bianchi “ in una doppia dimensione, la solitudine della lontananza e quella della permanenza, un sostentamento economico causa di carenze e traumi affettivi a lungo termine.
I figli ringraziano per il sostegno ricevuto, la possibilità di studiare e cambiare la propria vita, ma avrebbero voluto altro, anni rubati agli affetti più cari. Le madri sono costrette ad abbandonare lavori mal pagati in paesi senza prospettive accettando altrove mansioni non in linea con il proprio titolo di studio, un flusso di sostentamento che rende impossibile il ritorno.
Come ci ricorda l’ autore, tante sono le storie da raccontare e soprattutto le voci da ascoltare...
. ..” Le parole di quelle donne, di quei bambini e di quei ragazzi sono il seme da cui è nato questo libro. Scriverlo è stato per me un tentativo di risarcimento “...
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La nostalgia
Un altro bellissimo romanzo di Marco Balzano sul tema delle donne dell'Est, donne coraggiose che lasciano, abbandonano i figli per dare loro un futuro. Una scelta coraggiosa e difficile e a doppio taglio, che porta dolore, fatica e una certa dose di infelicità per tutti. La storia è raccontata a tre voci dal punto di vista di una donna e dei suoi due figli. La prima parte, raccontata da Manuel, il figlio minore, è bellissima e anche la parte della madre, Moma, Daniela è molto bella. L'ultima, quella di Angelica è meno intensa, anche perchè Angelica è la ragazza forte, quella che si è presa cura del fratello e della casa, quella che ha studiato e tenuto duro. Angelica mi è piaciuta un po' meno del fratello. Invece degli altri due è bellissima la nostalgia, l'idea che la ricchezza più grande è la presenza dell'altro e che pur sapendolo per il bene dell'altro uno possa arrivare a privarsene e a privarne chi ama per la speranza, a volte difficile da condividere, di vedere l'altro felice in un futuro lontano.
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Coralità
«La vita è solo questione di starsi vicini, come i conigli nell’aia quando fuori si gela.»
Daniela, detta Moma, non ha alternative. Con due figli, Angelica, la maggiore, e Manuel, il minore, un marito bevitore e assolutamente incapace di tenersi un lavoro, non ha altra scelta se non quella di lasciare il suo impiego in ufficio di un paesino della Romania per approdare in Italia come badante in quel di Milano. La scelta non è semplice, sa che nel momento in cui se ne andrà il legame con i figli subirà una incrinatura inevitabile ma sa anche se vuole loro garantire un futuro migliore e qualche possibilità deve compiere questo passo verso un luogo sconosciuto. Ed è così che mentre la madre approda in Italia e vive il suo personalissimo abbandono fatto di senso di colpa e di tentativi falliti di assoluzione che Angelica termina gli studi superiori e inizia l’università e Manuel termina le scuole medie per iniziare l’istituto internazionale, il migliore in assoluto nel territorio ma anche per lui sinonimo di insuccesso. Sono cresciuti dai nonni, entrambi, eppure è diverso il modo in cui affrontano la separazione prima dalla madre e poi anche dal padre che a sua volta trova lavoro come camionista e parte per la Siberia. E non basta la presenza dei nonni a far da paciere e a colmare quel vuoto, i silenzi iniziano a susseguirsi, le richieste aumentano, le ripicche anche. Madre e figli viaggiano su due viaggi paralleli sino a che l’irreparabile accade: Manuel ha un gravissimo incidente che riporta Moma a casa.
Ha inizio da qui il viaggio di Manuel, Daniela e Angelica, un viaggio fatto di confessioni e di segreti rivelati. Manuel che ha abbracciato la vita dissoluta è assistito dalla madre che tra lacrime e coraggio gli sussurra la verità su quel soggiorno in terra italiana come badante, baby-sitter e ancora nuovamente badante. Racconta al figlio di quanto sia stato difficile ambientarsi, accudire gli anziani, di quanto sia stato vitale tornare a sentirsi utile con i bambini di altri – una madre non proprio da buttare – e dover poi nuovamente tornare a gestire una terza età non accettata. Racconta del vuoto provato dentro, del senso di assenza e di perdita dato anche da una lingua che seppur familiare e padroneggiata resta sempre estranea.
«I primi tempi mi pareva di aver perso l’allegria, in italiano non mi veniva mai una battuta. […] Uno fa solo pensieri da anima senza la sua lingua.»
Tre sono le voci portanti di questo nuovo romanzo a firma Marco Balzano, titolo che sin dalle prime battute riporta alla mente dei lettori “Orfani bianchi” di Antonio Manzini ma che va anche oltre. Perché Balzano non si accontenta di narrare di una storia fatta di una madre che lascia il proprio paese in cerca di un lavoro stabile, non si accontenta di parlare di migrazione per donne e madri che rappresentano un altro anello della catena, vuol parlare anche dei figli che invece, di questa, sono proprio l’ultimo anello.
Ecco perché questo romanzo corale ci propone tre volti che prendono scelte, che subiscono quelle altrui, che rivendicano proprie necessità, propri traumi, proprie aspirazioni, propri e nuovi inizi, fini che chiedono di essere nuovi principi. Perché, ancora, se la migrazione di queste donne che sono trattate e viste quasi come pacchi da portare e trasportare, comporta il miglioramento delle condizioni economiche della famiglia di origine, al contempo va a ledere inesorabilmente su quelli che sono gli affetti e le identità, gli equilibri e i sentimenti. Ciò provoca anche un allontanamento dai figli. Perché una volta che sei partita, per quanto tu possa ripeterti che tornerai a casa, che li riabbraccerai, che tutto tornerà come prima, sai benissimo che quel giorno diventa ogni giorno sempre più lontano sino ad assomigliare a un miraggio, a una utopia, a un sogno irrealizzabile. Perché se torni a casa tutto ricomincerà dal punto in cui lo hai lasciato, perché il bisogno economico non finisce mai ma gli affetti ne escono completamente lesi.
E come dice Balzano a conclusione del suo scritto, “una storia prima di raccontarla bisogna saperla ascoltare: le parole di quelle donne, di quei bambini e di quei ragazzi sono il seme da cui è nato questo libro. Scriverlo è stato per me un tentativo di risarcimento”. Ed è per il lettore altrettanto.
«[…] Ho sentito che forse non eravamo solo dei sopravvissuti. Forse qualcos’altro ancora c’era. Forse un modo per stare ancora bene assieme esisteva, bisognava solo capire quale.»