Pao Pao Pao Pao

Pao Pao

Letteratura italiana

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La sigla PAO, che sta per Picchetto Armato Ordinario, evoca l'esperienza della caserma, punto di partenza di un romanzo in cui Tondelli intreccia sapientemente i fili di una trama ora sentimentale ora comica, e sempre sorretta da una vivacissima invenzione linguistica. Di fatto Pao Pao narra le storie amorose e poco marziali che travolgono una compagnia di giovani durante l'anno di servizio militare. Al grigiore dell'apparato burocratico e militare questi giovani oppongono una vitalità a volte sfrenata riuscendo ad attraversare indenni le istituzioni nonostante le infrazioni ai codici disciplinari e una più o meno larvata resistenza alla sottomissione: nelle loro tane (docce, sgabuzzini, scantinati...) e durante le ore di libera uscita (in discoteca, negli ozi a Villa Borghese, nelle gite a Ostia...) danno facilmente sfogo alle voglie e ai discorsi, che l'autore segue con sguardo divertito e complice. Pao Pao è un testo polifonico dalle molte sorprese, che da una parte narra i mille sotterfugi e umori coi quali i giovani affrontano il Rito di Passaggio della caserma, e dall'altra riscopre, con freschezza e felice evidenza di immagini e circostanze, quell'antica arte di sopravvivere che il Bel Paese incessantemente tramanda adeguandola a ogni situazione.



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Pao Pao 2022-08-17 14:21:16 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Agosto, 2022
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QUANDO LA PATRIA CHIAMA

“Non avrei mai pensato che il servizio militare si insinuasse nella mia esistenza scrostando piacevolmente immagini ed emozioni del tutto dimenticate e che riviste oggi appaiono così perdute da ricercarle con passione e accanimento, da studiarle, rivederle, riassorbirle. Tutto in me si muove come se questa del soldato e della sua partenza fosse una storia antichissima e remota incisa nel D.N.A., un codice collettivo che quando scatta decifra e informa tutto il tuo self. Non l'avrei creduto. Avevo terrore di tante situazioni e invece anche questi attimi mi appagano. […] Ora so che c'è qualcosa che vibra anche dentro di me e che riannoda il senso mio con quello circostante. Non so dire precisamente di cosa si tratti, ma è qualcosa che non mi separa e soprattutto non mi divide.”

Ricordo che quando, verso la metà degli anni ’80, poco più che ventenne, prestai il servizio militare come artigliere, “Pao Pao” di Pier Vittorio Tondelli, uscito da non più di tre anni, era un libro abbastanza popolare nelle caserme. In effetti, il mondo della naja, pur essendo all’epoca un passaggio obbligato nella vita di ogni giovane maschio italiano, non aveva, per quanto mi risulta, mai avuto prima di allora diritto di cittadinanza nella letteratura nazionale contemporanea. Inoltre, in quei fatidici anni Ottanta in cui in ogni campo artistico (dalla musica al cinema) le giovani generazioni stavano cercando di soppiantare le vecchie, Tondelli si era proposto come l’alfiere di una nuova narrativa che cercava di svecchiare, tanto nelle tematiche quanto nel pubblico di riferimento, le forme letterarie tradizionali (in una tavola rotonda di circa 35 anni fa, contrapposto a scrittori più anziani, aveva detto: “Per me è giovane scrittore chi ha a che fare con l’universo dei comportamenti giovanili, fatto di determinate riviste, di musica rock, di originali esperienze culturali e di vita… Se scrivi di giovani e li rappresenti, sei un giovane scrittore”). Ho fatto questa lunga premessa per dire che, all’epoca, mi pentii non poco di non aver letto il romanzo di Tondelli, in quanto avrei potuto ritrovare nelle sue pagine tutte quelle particolarissime esperienze e sensazioni, non sempre positive, che la naja era in grado di offrire (il vago ma costante senso di assurdità della vita di caserma, la promiscuità, il nonnismo, le notti intere passate a fare la guardia a polveriere letteralmente sperdute in mezzo al nulla, il freddo d’inverno e le zanzare d’estate, la nostalgia di casa, la babele linguistica di commilitoni provenienti da ogni parte d’Italia, gli appelli e i contrappelli, le marce e i picchetti). Ho voluto recuperare questo breve libretto a distanza di tanti anni un po’ per tornare con la memoria ai ricordi lontani della mia giovinezza, ma anche come un atto di tardivo (anzi postumo, dal momento che Tondelli è scomparso, giovanissimo, all’inizio degli anni Novanta) riconoscimento nei confronti di uno scrittore coraggioso e anticonformista. Non vi ho trovato, come avevo pensato, un racconto di formazione vero e proprio (la naja come un rito di passaggio, nel bene e nel male, dall’adolescenza alla maturità) e neppure il ritratto corale di una generazione (anche la descrizione della vita del militare di leva non ha, a dire il vero, una parte preponderante, nonostante il titolo e la sinossi in copertina), ma piuttosto un’elegia molto sui generis di quell’età magica che, pur tra alti e bassi (leggi: droga), è innervata da una sfrenata vitalità che nessuna regola e nessun sistema può imbrigliare. “Pao Pao” è un libro felicemente anarchico che parla di tutte quelle esperienze e di tutti quegli incontri, unici e irripetibili (quelle “occasioni della vita”, per dirla con le parole dello scrittore emiliano, che “si schiudono ogni tanto a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare per sentieri che non conosciamo”), che l’anno di militare, bizzarra e financo grottesca parentesi della vita, incuneata tra la scuola e il lavoro, garantiva ai ragazzi del secolo scorso.
Lo stile di Tondelli merita qualche parola a parte. Egli sa dare alle sue frasi una straordinaria impressione di freschezza, di spontaneità, di vita vissuta, pur senza ricorrere quasi mai alle facili scorciatoie del vernacolo o dello slang giovanilistico. I suoi periodi spesso partono per così dire in minore e progressivamente crescono e si gonfiano in una spassosissima, inarrestabile, logorroica successione di invenzioni linguistiche, in cui la ridondanza non è mai tautologia ma libero e felice estro lessicale. Tondelli ammaestra le parole e, come un domatore con delle belve feroci, le riconduce a una stupefacente docilità. Fatte le debite e ovvie proporzioni, a me ha ricordato alla lontana lo stile di un altro outsider della letteratura del secolo scorso, J. D. Salinger.
Peccato che, al di là di queste invenzioni linguistiche, “Pao Pao” si perda alla lunga in una successione un po’ caotica e dispersiva di serate goliardiche passate, tra un’osteria e l’altra, a ubriacarsi e sballarsi di canne e, soprattutto, di amori (rigorosamente omosessuali) tanto folgoranti e sublimi quanto strazianti e disperati, nonostante che Tondelli cerchi in ogni modo di saldare la frammentarietà delle tante storie e dei tanti personaggi in un unico percorso esistenziale (“e allora, nonostante i dolori e le precarietà dei nostri anni giovanili la vita sembra rivelarsi come una misteriosa e armonica frequenza che schiude il senso e fa capire”). Probabilmente “Pao Pao” non è il lavoro più significativo della produzione, purtroppo esigua (interrotta com’è stata dalla morte prematura di AIDS) di Pier Vittorio Tondelli, probabilmente è da “Altri libertini” e “Camere separate” che bisognerebbe partire per affrontare al meglio il suo universo, ma questo romanzo si fa ugualmente leggere ed apprezzare ancora oggi per le sue doti di esuberanza narrativa e di originalità stilistica.

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Pao Pao 2020-03-09 02:30:00 DanySanny
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    09 Marzo, 2020
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Un anno di vita

È il 1982 quando Tondelli pubblica "Pao Pao", appena due anni dopo l’uscita di “Altri libertini”, pressato dall’editore Feltrinelli e stupito egli stesso dal suo inaspettato successo; dunque Pao Pao è un romanzo scritto in fretta e proprio per questo sconta più di qualche criticità. Innanzitutto si fatica a capire dove Tondelli vuole arrivare: in questo memoriale dell’anno di servizio militare, rito di passaggio ammantato da brividi paurosi ma anche da risa improvvise, il centro della narrazione fluttua in continuazione senza mai mettere a fuoco un problema. Ora è la caserma, con le sue leggi e la sua violenza, le sue raccomandazioni e le sue prevaricazioni, ora è la vita con i compagni, tanti e sfuggenti, tutti alti e slanciati, tra feste proibite, droghe e perenne fumo di canne. La scrittura di Tondelli è quasi eruttiva, nella su smania di dire e contrarre, descrivere e contingentare e allora, specie nella prima parte ambientata a Orvieto, il modulo espressivo è quello della lista, della ripetizione, dell’asindeto esasperato che lega lunghi periodi dilatati su intere pagine, a violare la punteggiatura, a concentrare la potenza semantica sempre esuberante nella sua polifonia e creatività. Eppure proprio per questo andamento vertiginoso e ondivago, il romanzo sembra smarrire la strada: non è né un’autobiografia, né un romanzo alla Kerouac, né un reportage sulla vita nell’esercito né ancora un romanzo sentimentale. "Pao Pao" è tutto questo, ma mai in pieno, con le sue variazioni fulminee e forse la sua indecisione. Tondelli impiega un buon quarto del testo, nelle successive scene romane, a ritrovare il bandolo della matassa e solo alla fine il lettore che raggiunga le ultime trenta o quaranta pagine del romanzo può finalmente trovare pace. E la trova quando Tondelli si costringe a fare quello che gli riesce meglio: aprire squarci d’ombra nell’interiorità dei suoi personaggi e scandagliarne gli struggimenti, l’amara malinconia, il disincanto, ma anche l’accettazione dolorosa di una vita che si rifiuta di essere irregimentata. Certo pure qui la forma, pur più piana, stona nel suo eccesso di giovanilismo, nel babelico subentrare e subitaneo scomparire di troppe comparse, ma lascia già intravedere quel lavoro di introspezione che dominerà le belle pagine di “Camere separate”.

E dunque "Pao Pao", col suo sentore esotico già dal titolo, col suo essere ibrido e scostante, segna un libro di livello un po’ inferiore rispetto agli altri dell’autore, ma nonostante questo si lascia leggere con un certo gusto, ancor più immagino per chi il servizio militare lo ha svolto e che dunque può ritrovarsi nel freddo pungente delle camerate, negli scherzi tra compagni, nella ricerca di mezzi più o meno leciti per un giorno di permesso. Più di tutto, però, di questo romanzo porto con me un riflesso biografico: le campagne di Orvieto che regalano al protagonista qualche momento di serenità e pace nello sconforto della vita militare, mi hanno ricordato i verdi crudi e brillanti e i marroni tenaci delle colline della mia amata e odiata Gubbio, con il labirinto claustrofobico delle sue stradine medievali inerpicate sul ventre della montagna; e ancora più sorprendentemente nel fiorire della vita militare a Roma ho ritrovato una sensazione precisa del mio passato, quando qualche anno fa, nella mia prima notte da solo nella capitale, ho sentito l’infinità libertà di poter essere chiunque nelle strade ampie e indifferenti, sorridenti e misteriose di una città tanto grande. E allora capisco che Pao Pao in fondo è sì la storia dell’anno di leva, ma più a fondo è semplicemente il ricordo di un anno di vita che passa, di una tremante tensione di metamorfosi.

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Consigliato a chi ha letto...
Tondelli, "Altri libertini", "Camere separate"
Autori della Beat Generation che Tondelli omaggia più volte (Kerouac, Ginsberg e Burroughs su tutti)
C. Bukowski
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Pao Pao 2013-10-13 04:24:29 Bruno Elpis
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Ottobre, 2013
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Sentimenti e occasioni

Nel 2005 il regista Ange Lee, con il film “I segreti di Brokeback Mountain”, sdogana un cliché americano e racconta la drammatica passione amorosa tra due cowboy del Wyoming. La storia – tratta da un racconto di Annie Proulx – è ambientata nelle zone rurali e montuose ove imperversa la mentalità più conservatrice degli anni sessanta. Il film ottiene successo di pubblico e numerosi riconoscimenti: dal Leone d’Oro a tre Oscar.
Operazione analoga ha in fondo compiuto Pier Vittorio Tondelli nel 1982 in “Pao Pao”, opera che annienta lo stereotipo del militare integro e virile pur raccontando “una storia di soldati, di gente alta e bella, di eroi da romanzo, impervi, granitici e sublimi”. Una storia di esperienze giovanili ove trova ampio spazio il sentimento: “L’amore è come un dono degli dei che si muove sulle ali del vento sempre inafferrabile e sempre inseguito”.

Il protagonista di Pao Pao attraversa le fasi canoniche che caratterizzavano il periodo della leva, quando questa era obbligatoria: l’incognita più o meno reale per destinazione e incarico (“… Sapevo già non solo la mia destinazione definitiva, ma anche l’incarico e il ruolo che avrei svolto sotto leva … Starsene in un Car è abbastanza un privilegio perché non si fanno campi armati ed esercitazioni in tenda, e insomma non si è reparto operativo …”), in un sistema dominato da meccanismi tutti italiani (“storie di un’Italia policlinica e poliambulatoriale, certificati su certificati, e io raccolgo, schedo, istruisco, compilo …”) ove si consumava il sacrificio variamente vissuto di un anno di vita.

Irrituale e originale è l’atteggiamento del giovane militare: sensibile al fascino dei luoghi (“Mi aprirò dunque e mi distenderò a questo panorama umbro, alla macchia che attacca le colline, ai boschi; mi allargherò in questi sguardi dall’alto che danno pace e senso e finalmente quel lungo e lieve respiro di cervello che conferma la tua presenza al mondo, che suggerisce qui, ora, finalmente ci sei”), ne interpreta stimoli e fascino in chiave personale (“Ho anch’io la mia storia, i miei sedimenti e i miei territori d’affetto. Non avrei mai pensato che il servizio militare … si insinuasse nella mia esistenza …”), affrontando la vastità degli incontri (“nella piazza d’armi che smista verso altre storie tutti i miei amici, io sento in pieno questa precarietà degli affetti e della vita … questo essere in balia di trasferimenti e ordini e comandi …”) che l’esperienza totalizzante e collegiale riserva: “… i vecchi equilibri sono del tutto saltati e … ora sei una persona diversa in cerca di alleati, alla disperata ricerca di ragazzi che abbiano il tuo stesso odore.”

L’anno trascorso prima a Orvieto e poi a Roma è una babele di personaggi (“piccolissimo e storto nella gambe e nel viso, Magico Alvermann somigliantissimo a Marty Feldmann per via degli occhietti tondi … corpo piccolo molto Hobbit della terra di mezzo …”), un’esplosione di vitalità (“nelle libere uscite … noi schiamazzanti e urlanti come quel giorno al lago di Bolsena …”), una varietà di situazioni anche estreme (“Faceva canne meravigliose e imponenti con filtri lunghi dai trenta ai quaranta centimetri tanto che a fumarli sembrava di star lì a suonare le trombe di Gerico perché il fumo arrivava talmente forte e talmente in blocco che rimanevi sotto choc per dieci minuti buoni”) che oscillano tra ritualità (“senza mai per un attimo accorgerci che quello era già un passato e un rito…”), obblighi imposti (“a far continue guardie all’Altare della Patria e tutti quei santini e quelle madonnine lì che han bisogno dei suoi vent’anni per tirare avanti”), eventi di cronaca nera (“…la stazione di Bologna è saltata… Il fatto di Bologna con quelle cento e più storie distrutte ci atterrì…”), impegni civili (“i miei amici, tutti spediti al Sud a spalare macerie e rivoltare i cadaveri del sisma del ventitré novembre”).

Perché questo era l’anno del militare di leva: non un servizio irrigidito da regole e protocolli marziali, ma una convergenza di vite (“Ma le occasioni della vita stupiscono mai abbastanza nella loro frammentarietà che poi un bel giorno si salda in una sottile e delicata vibrazione che ricorda e riannoda e uniforma il tono di diversi percorsi …”), un ventaglio di occasioni (“Ma le occasioni della vita stupiscono mai abbastanza nella loro frammentarietà che poi in un attimo si salda e poi, un attimo dopo, svanisce inghiottita dall’insensato ritmo delle ore e dei giorni”) nell’incertezza esistenziale (“Le occasioni della vita sono infinite e le loro armonie si schiudono ogni tanto a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare per sentieri che non conosciamo”) di stati e prospettive.

Bruno Elpis

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