Pane e tempesta
Letteratura italiana
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Quanti nomi!
La vicenda narrata si liquida in due parole: un paesino (“Continuavano a chiamarlo Montelfo, o il Paese del Buon vento, ma non assomigliava più al suo nome”) viene preso d’assalto dalla speculazione edilizia (“… hai sentito i rumori nel bosco? Una ruspa gigante sta aprendo la strada, poi arriveranno le seghe meccaniche. Faranno una strada. E qua, nel belvedere del bar faranno degli appartamenti, un ristorante di lusso e un supermarket e un circolo tennis …”), che si avvale di autentici mostri (“Un meccano sauro Rex taglia-sega-strona e una ruspa Triceratops, che procedevano insieme facendo scempio di castani e faggi”) per sferrare il proprio attacco all’ecosistema.
Intorno a questo elementare filo conduttore Stefano Benni costruisce una girandola di situazioni comico-paradossali e una giostra di personaggi: per citarne una microscopica parte “… il vigile Timoteo, detto Cardellino, da quando aveva ingoiato un fischietto … Bellosguardo, sarta dotata di vista acutissima. Era capace di infilare un ago anche durante una cavalcata amorosa … Carmela Culobia, esperta e fortunatissima giocatrice … Maria Sandokan … donna di leggendario vigore fisico … Frida Fon, la parrucchiera, inventrice del capello supercotonato …”
Tra riflessioni semiserie (“Il passaggio dalle tre azioni fondamentali del pitecantropo alle ventisette dell’umano medio si chiamava civiltà”) e battute umoristiche di varia gradazione (“Tutti devono morire, anche le cose, anche i luoghi, e così le persone – disse solennemente Vitale il becchino”) Benni gioca con le parole, la fantasia e la ricchezza delle immagini. Ne esce un romanzo che è un po’ Gianni Rodari, un po’ farsa, un po’ avanspettacolo.
Personalmente ho avvertito un eccesso nel numero dei personaggi e delle situazioni, che talvolta mi sono sembrate un po’ forzate, e ho percepito un senso di sazietà da abbuffata.
Forse l’autore si è lasciato prendere un po’ troppo la mano, ma come non capire uno scrittore che non si arresta mentre si diverte con pensieri e parole e non resiste al richiamo ancestrale del gioco?
Bruno Elpis
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Davvero apprezzabile
Dopo aver letto "La Grammatica di Dio", libro dal sapore più amaro che dolce, non mi aspettavo che Benni tornasse a pubblicare libri più umoristici. Mi ha ricordato molto Saltatempo, soprattutto per la storia divertente ma che nel contempo fa riflettere e per l'ambientazione paesana. Qui però la trama non si sviluppa "linearmente", ma diventa poi il via per far raccontare ai vari personaggi storielle riguardanti il passato del paese. Non raggiunge gli apici di Benni (rappresentati da Saltatempo per quanto mi riguarda), ma ci va molto vicino.
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Benni ha fatto di meglio (e molto)
Dopo il capolavoro “La grammatica di Dio”, Benni torna con un'altra raccolta di storie, che questa volta hanno come filo il paese di Montelfo, sulle colline bolognesi. Qui si intrecciano le vicende del bar Sport, del nonno, degli gnomi, della piazza, dei ragazzi che giocano a biglie, del cane più intelligente del mondo eccetera, e mentre i protagonisti raccontano con malinconia i tempi andati, sullo sfondo le ruspe del progresso scavano e abbattono alberi del bosco per far posto a strade e centri commerciali (come già in “Saltatempo”). Per me è la conferma che, con la vecchiaia, a Stefano Benni piaccia sempre meno parlare di cose fantastiche e sempre più di morte, distruzione e di “bei vecchi tempi”, con amarissima ironia. Molto meglio il libro precedente.
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Pane e tempesta
Parlare di un libro di un autore conosciuto ed amato come Stefano Benni non è facile non fosse altro perchè si corre il rischio di eccedere nel ricordo nostalgico dei suoi primi libri che fanno parte della nostra vita come fossero vecchi amici e passare in second' ordine la pubblicazione attuale. D' altra parte con Benni questo rischio si corre perchè spesso, almeno per i lettori come me che lo seguono da più di un trentennio, è forse difficile ammettere che tanto tempo sia passato e che ci troviamo di fronte ad un uomo che, superati i sessant'anni, nelle sue opere cominci sempre più spesso a fare un bilancio della sua vita, di quello in cui ha creduto, che spessissimo è ciò che abbiamo creduto anche noi, e di come il trascorrere degli anni si sia divertito, spesso malignamente, a smentire molti dei suoi e dei nostri sogni e delle sue e delle nostre aspettative. Invece voglio soffermarmi sul libro e basta, una paradossale storia nel suo consueto spirito tra la favola e l' allegoria che spesso ci ricorda Calvino, di un paesino di una qualsiasi provincia italiana aggrappato ai margini di un bosco minacciato dai continui tentativi di inglobamento nell' usuale mare di cemento e massificazione che contrraddistingue la nostra epoca. Tutto questo al servizio di una padronanza linguistica e una fantasia straripante che ci trasporta in un mare di neologismi o giochi di parole che possono andare dal gatto tripode sfuggito alla tagliola all' anemia saccarifera che affligge le paste moderne, al coniare fantastiche associazioni come il LPIG (Lega protezione iguana)per continuare con le mirabolanti ricette con cui la cuoca Sofronia sfida lo chef Rasputin che vanno dall' Erbazzone alla Baudelaire al Polpettone alla Carnera, dai gentili Formaggi di montagna al miele di gelsomino contrapposti ai letali, ma gustosissimi, Formaggi puzzoni con miele d' acacia e dalla misteriosa Crema arcana ai quindici funghi al portentoso e sadico Risotto di rane zoppe!
Va da se che questo stile comporta nei lettori a volte un certo smarrimento, e il destino degli scrittori amanti della semantica che, Gadda e Svevo primi fra tutti, vengono unanimamente riconosciuti geniali, ma spesso un po' ostici, è proprio quello di avere estimatori assolutamente di parte come posso essere io, e detrattori convinti di leggere un muro di parole senza venire al dunque. Pane e tempesta non sfugge a questa regola, ma aldilà dello stile la reputo un' opera di uno scrittore maturo che non può più riproporci il fantastico Bar sport o Baol come molti vorrebbero, ma che nelle pieghe del racconto può rammentarci quello che eravamo per contrapporlo alla realtà presente, lasciando a noi la facoltà di giudicare il meglio e il peggio. Il tutto forse compendiato nella bellissima scena finale con il Nonno Stregone (personaggio cardine del racconto) che si siede appoggiato ad un vetusto fusto sopravvissuto all' assalto edilizio e mescola le voci dei giovani del paese alla struggente melodia del bosco. Un anelito di nostalgia e speranza di chi non vuole comunque arrendersi all' appiattimento e alla prepotenza del consumismo.
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Pane e Tempesta
Tante figure, tra l'onirico e il faceto, che solitamente si riuniscono nell'unico bar del paese per parlare, incontrarsi, stare insieme, dimenticare le prorpie solitudini ed amarezze. L'unico Bar rischia di essere spazzato via dal " nuovo che avanza" ma nuovo non è perchè rientra nella logica della corruzione e del profitto a qualunque costo. Gli allegri ( ma non troppo ) compaesani supereranno anche questa; loro che sono abituati a mangiare pane e tempesta. Istruttivo e mai noioso,da far leggere a scuola.