Orfani bianchi
Letteratura italiana
Editore
“Voglio misurarmi con una storia nuova e un personaggio femminile. Una donna. Una donna unica che sconvolge i vecchi equilibri di una buona famiglia borghese romana. E che ha alle spalle un’altra vita.” Antonio Manzini. Dopo i romanzi di grande successo con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone, questa volta Manzini racconta un personaggio femminile indimenticabile, che combatte contro un duro destino e che commuove per la sua umanità. Dagli occhi di una donna straniera, costretta a vivere lontana da suo figlio, il ritratto toccante e sincero di come siamo fatti, il sentimento della nostra epoca.
Recensione della Redazione QLibri
Lacrime amare
“Caro Ilie, ora mamma ti racconta un fatto”. Iniziano così le email piene di vita che Mirta invia al figlio dodicenne rimasto a migliaia di chilometri di distanza, a quell’adolescente che quando ha lasciato era poco più di un bambino e che non ha potuto vedere crescere, a quegli occhi neri che l’hanno fissata inespressivi mentre lei si allontanava, alla persona che rende possibile ogni sforzo, ogni sofferenza, ogni umiliazione quotidiana. Sono lettere che rimangono senza risposta, eppure provare a raccontare è l’unico modo che rimane per cercare di fargli capire che, anche se è solo e vive in un orfanatrofio, lui una mamma ce l’ha. Una mamma che l’ha lasciato per potergli dare un futuro diverso, una mamma che sopravvive solo grazie al suo ricordo e alla speranza un giorno di ricucire la famiglia.
E allora prova a parlargli di questo strano paese in cui lavora, un paese in cui la gente sembra avere tutto tranne il sorriso, in cui la ricchezza sembra aver alzato muri tra le persone e all’interno delle stesse famiglie, in cui si paga qualcuno per prendersi cura dei propri vecchi senza rubare tempo alla propria quotidianità. Prova a raccontargli delle anziane signore che si trova ad accudire, dei loro scortesi capricci, delle loro malattie, delle loro desolate solitudini. Prova a spiegargli cosa significhi vivere pigiati in venti in un appartamento troppo piccolo, disposti ad accettare qualsiasi lavoro perché la fame non ammette orgoglio e nemmeno dignità, costretti a sentire i piedi della gente sulla faccia senza poterseli togliere di dosso.
La realtà trattata in queste pagine è una verità lacerante e straziante che si consuma a due passi da noi, la vita di tante donne costrette a partire dalla disoccupazione dilagante e dalla mancanza di possibilità, ragazze madri costrette ad abbandonare i figli a parenti o istituti, donne che si prendono cura delle nostre famiglie e delle nostre case, sapendo di avere nel cuore il dolore e il senso di colpa. Perché i pacchi pieni di vestiti, giochi e denaro non potranno mai sostituire un abbraccio, una voce, una carezza.
Le parole di Antonio Manzini fanno più di qualunque articolo di denuncia sociale perché, con una straordinaria forza empatica ed emotiva, sono capaci di farci vestire i panni di una giovane donna su cui la vita si è accanita, una giovane donna seria e buona che sa davvero cosa significhi la disperazione. E allora i piccoli problemi e le lamentele quotidiane sbiadiscono perché non possiamo più fare finta di non sapere cosa accade dietro la porta accanto. Perché questa non è finzione, purtroppo.
Complimenti a Manzini, che con questa lettura ha saputo portare all’attenzione un tema sociale così attuale e scabroso con una capacità di immedesimazione e con un’emozione che non possono lasciare indifferenti. E alla fine non si può fare altro che piangere.
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Un amore impossibile: Mirta ed Ilie
Mirta è una donna di circa 30 anni, originaria della Moldavia, vive a Roma e lavora come badante. La vita della protagonista scorre tra fatica e solitudine ma Mirta ha una grande ferita nel cuore: ha lasciato al suo Paese il figlio di 11 anni, Ilie, che sua madre, ormai anziana, sta crescendo da sola.
Mirta trascorre quindi un'esistenza desolata, prendendosi cura di persone estranee ed avendo invece in qualche modo abbandonato quelle a lei care.
Il romanzo di Manzini arriva come acqua gelata sulla faccia, non possiamo fare a meno di chiederci il perché, il senso di situazioni di questo tipo, che la nostra società ormai dà per scontate. Come se attraverso i soldi potessimo comprare l'affetto, come se gli oggetti materiali e l'attitudine a consumare potessero veramente riempire di significato la nostra esistenza.
“Un'intimità strana, curiosa, che la nonna di turno sicuramente non gradiva. Lei non era una figlia generata da quelle carni, cresciuta con quella donna e di cui ora, come nell'ordine naturale delle cose, avrebbe dovuto prendersi cura cambiandola, spogliandola, rivestendola. Insomma era un'estranea. Poi piano piano ci aveva fatto l'abitudine e non le faceva più effetto.”
Si tratta di una lettura piuttosto triste, che non può essere ignorata, non passa inoffensiva ma lascia il segno. Avevo letto alcuni romanzi di questo autore con il protagonista Rocco Schiavone e sinceramente non li avevo trovati dei capolavori o delle letture imprescindibili. Invece con questo romanzo Manzini mi ha sorpresa e impressionata favorevolmente.
Era veramente difficile costruire una storia di questo genere, che affrontasse un tale tema e renderla così avvincente, mai noiosa o banale. Tiene incollati dalla prima all'ultima pagina, ci fa inorridire, piangere, pensare.
E' una lettura abbastanza angosciante ma di cui abbiamo sicuramente bisogno.
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E' meglio il Manzini di Rocco Schiavone
Manzini abbandona (spero temporaneamente) le avventure di Rocco Schiavone per regalarci uno spaccato di vita molto sofferta di una donna moldava che pone nel proprio progetto migratorio elevate aspettative per un futuro migliore per sé e soprattutto per il figlio, rimasto ad aspettare la madre nel paese di origine. Finale a sorpresa, che pone qualche riflessione sulla condizione dell'essere umano, sulla vecchiaia, sulla morte, sul senso della vita, sul denaro che non necessariamente significa felicità ... Una decina di pagine trattano il tema del maltrattamento agli anziani e mi hanno un po' turbata.... La prosa è molto scorrevole, lettura leggera e accattivante, invoglia a leggere ovunque a ogni ora per sapere il seguito.
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Sì, siamo ladri
Gli orfani bianchi sono un mistero ovvio, una vergogna nascosta e risaputa, una delle tante miserie tanto macroscopiche quando invisibili che ci circondano. Gli orfani sono vicinissimi a noi, non nello spazio e nel tempo ma negli affetti, nella quotidianità. Gli orfani bianchi sono i figli delle donne che li lasciano nelle loro case e nei loro paesi per venire qui in Italia, ad accudire i nostri cari al posto nostro.
In questo caso non ci viene in mente che forse sarebbe meglio aiutarli in casa loro, e magari accudire in casa nostre: sembrerebbe la soluzione più semplice, la migliore per tutti, e proprio per questo, forse non è possibile.
La storia di Mirta, badante moldava che da sola deve mantenere se stessa, suo figlio e la sua anziana madre, può fare l’effetto di un thriller mozzafiato, uno di quei film in cui il protagonista lotta contro il tempo, contro i cattivi, contro l’ignoranza e contro tutti per salvare una persona cara.
Mirta è armata di pazienza, determinazione, amore. Sa fare i lavori che in Italia sono più odiati e più richiesti: sa pulire, sa assistere, sa curare. Mirta sa faticare. Mirta subisce e sopporta a denti stretti, senza lamentarsi: lo fa per amore, quindi per scelta e senza avere scelta. Mirta non può stare vicino a suo figlio, per consentirgli di sopravvivere deve allontanarsi e prendersi cura di estranei, dimenticare le tragedie personali per immergersi nelle tragedie altrui. Mirta non si prende cura di se stessa, ma di tutti gli altri.
Il romanzo scoperchia le derive della nostra civiltà, svela la nostra incomprensione, ci pone di fronte alle crudeltà quotidiane, apre interrogativi scomodi. Quanti sono gli eroi invisibili che lottano per la vita? Dove si nascondono? Da dove nasce il fenomeno dell’immigrazione? Chi ne soffre di più? Chi ne trae profitto? Perché questi spostamenti, queste lacerazioni, questi disastri umanitari? E perché la vecchiaia costituisce un problema, invece di essere soltanto una tappa della vita?
Il ritmo della narrazione incalza e non lascia tregua, l’identificazione con i personaggi inquieta senza lasciare scampo, la storia coinvolge e sconvolge fin dalle prime pagine, se soltanto permettiamo alle nostre difese di nascondersi dietro il cinismo. Una piccola storia tragica, un grande romanzo.
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Orfani della Parola
"Perché non mi scrivi Ilie?" L'incipit del libro ci introduce in quella dimensione non del tutto evidente nella trama, quella della difficoltá nel comunicare che rappresenta secondo me il tema centrale del romanzo. D'accordo, l'autore affronta importanti temi sociali del nostro tempo con delicatezza avvincente: l'emigrazione, la cura degli anziani, l'inserimento degli immigrati, la maternitá, il lavoro, la disperazione. Ma su tutto domina lincapacitá degli esseri umani del nostro tempo di comunicare tra loro, di dialogare in modo efficace, perché solo la Parola, infine, salva. Una Parola che Mirta non ha trovato. Nonostante gli sforzi con gli svariati mezzi a disposizione, internet con le mail, un telefonino, i pacchi pieni di doni spediti con un furgone, la protagonista chiede invano alle persone che ama un cenno, una risposta...e costoro non sono in grado di offrirgliela. Non la madre, malata ma ormai assente a se stessa, non il figlio muto dall'inizio alla fine perché prigioniero di un abbandono per lui incomprensibile, non la vecchia Eleonora, verso la quale Mirta sublima il suo sacrificio, ma incapace di esprimersi, dura ed enigmatica con quei suoi occhi azzurri sbarrati, tanto da scavarle l'anima in un dialogo immaginario fatto di disperazione e di morte...Le risposte in questo silenzio devastante da parte delle persone che ama Mirta é costretta a riceverle solo da terzi, padre Boris, un sacerdote vicino ai suoi cari ma distante nei bisogni, la sua grande amica Nina, convinta che basta "sistemarsi" anche senza amore, la direttrice dell'intranat, dove é costretta a lasciare suo figlio, incapace di interagire con gli affetti più profondi, Pavel suo caro amico, innamorato di un sogno. Costoro sono intermediari di emozioni e sentimenti, ma in definitiva non bastano a Mirta perché non possono sostituirsi in quel dialogo vitale basato sulla Parola di cui lei ha bisogno, la Parola che nella disperazione porta la speranza, nel dolore il conforto, nella solitudine la condivisione. A Mirta la vita riserva il silenzio, che é l'anticamera del nulla, è messaggero di morte. Eppure sarebbe stata sufficiente una risposta semplice, a quella madre che chiedeva al figlio di elencare tre desideri, tre cose da portare nella nuova casa, e di fronte al silenzio del figlio costretta invece a rispondersi da sola, una risposta per salvare quelle vite. Invece silenzio. Sarebbe stato sufficiente che l'amico Pavel avesse parlato con franchezza a Mirta e le avesse detto di aver visto il figlio Ilie disperato e in lacrime in quell'orfanotrofio, e quelle parole forse avrebbero salvato quelle vite. Invece Pavel sceglie un'altra strada, sceglie il silenzio. Il silenzio, anticamera del nulla, messaggero di morte. Dal romanzo allora emerge un monito per l'uomo moderno che si muove nell'epoca della globalizzazione, che ha le mail, internet, un telefonino mezzi di trasporto veloci, ma non sa più comunicare, non sa relazionarsi negli affetti piû profondi e non riesce a far comprendere fino in fondo alle persone che ama proprio quell'amore immenso che giustifica il sacrificio, l'annientamento di sè. Abbiamo bisogno della Parola. La storia della creazione e della salvezza passano per la Parola: con la Parola Dio ha creato il mondo, con la Parola lo ha salvato. Avere tempo e coraggio per una risposta a chi ci pone domande e si interessa di noi al di lá dei mezzi a disposizione, é l'unica strada per superare la disperazione, e ridare vita alla speranza, per recuperare quella libertà e quella dignitá, costrette, nel silenzio, inesorabilmente a dissolversi e a precipitare nel nulla.
Complimenti a Manzini, davvero un bel libro.
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quando il destino si accanisce
Attirata dal titolo, dalla fama dell'autore e dalle positive recensioni, mi sono immersa nella lettura di questo romanzo piena di aspettative. Troppe o forse troppo elevate, il risultato è che il testo mi ha un po' delusa e non sono riuscita a scorgervi la profondità e la bellezza riscontrate da molti lettori.
Mirta è una giovane moldava giunta a Roma a lavorare per dare a se stessa e ai suoi cari rimasti in patria l'opportunità di una vita migliore. La morte improvvisa di sua madre la costringe a collocare suo figlio dodicenne, Ilie, in un orfanotrofio nel quale trovano ospitalità sia i bambini senza genitori, sia i casi come Ilie, definiti 'orfani bianchi'. Nella speranza di poter guadagnare abbastanza per consentire al figlio di raggiungerla in Italia, Mirta, con qualche sotterfugio riesce ad aggiudicarsi un impiego come badante presso la ricca famiglia di un'anziana colpita da ictus, ormai ridotta a “corpo in decomposizione” e stanca di vivere. Superate le prime difficoltà relazionali con l'inferma, la fortuna sembra arridere a Mirta: oltre ad un lavoro ben pagato, riceve infatti anche una seria proposta di convivenza da parte di un caro amico e si prospetta per lei e per il figlio l'opportunità di avere finalmente una casa e una famiglia. Ma quando tutto pare volgere al lieto fine, irrompe nella storia un duplice tragico evento che chiude improvvisamente e in modo drammatico l'intera vicenda.
L'intreccio è coinvolgente e le tematiche affrontate in questo romanzo sono attuali e complesse, inoltre non si può dire che a Manzini manchi la capacità di tenere il lettore incollato alle pagine dalla prima all'ultima riga; eppure, a mio avviso, qualcosa non va, ci sono diversi elementi che non mi hanno convinta.
Innanzitutto la caratterizzazione dei personaggi: fatta eccezione per Mirta, tutto sommato ben delineata, le altre figure risultano stereotipate, spesso costruite su discutibili luoghi comuni e poco approfondite dal punto di vista psicologico tanto da risultare scarsamente credibili. Cito, a titolo di esempio, l'anziana signora Eleonora, la donna di cui Mirta si occupa. Descritta come molto malata, incapace di muoversi e perfino di parlare (viene definita “mummia”) fa alla badante una serie di dispetti espletando ripetutamente le proprie funzioni fisiologiche, gettando a terra stoviglie, mordendole la mano con la dentiera. A questi fatti, discutibili, ma ancora plausibili, se ne aggiungono altri che rendono il personaggio incoerente: misteriosamente, di notte, Eleonora si muove e parla esprimendo non solo le proprie volontà, ma dando anche prova di acute riflessioni su ciò la circonda. La signora Eleonora, che avrebbe potuto svolgere un ruolo chiave nella vicenda, ne esce invece come una “macchietta” artefice di gag tragicomiche le quali, pur strappando un sorriso, fanno a mio avviso scadere il romanzo, soprattutto alla luce del tragico finale.
La conclusione del libro è poi un altro elemento che mi ha lasciata perplessa: presentati i personaggi, costruito l'intreccio e intavolate scottanti tematiche (l'inconsolabile disagio dei bambini lasciati dalle madri migranti nelle terre d'origine, la difficile convivenza tra culture ed etnie diverse, la drammatica solitudine degli anziani, il desiderio di poter porre fine alla propria vita quando non è più considerata dignitosa) Manzini tronca il tutto bruscamente con un colpo di scena in netto contrasto con l'atmosfera che stava delineando nel testo.
Pertanto pur avendo apprezzato di “Orfani bianchi” l'idea e le tematiche, sono rimasta delusa dal modo superficiale con cui l'autore le ha affrontate; avrei inoltre preferito maggiore coerenza stilistica e una conclusione meno precipitosa. Proverò a dare a Manzini un'altra possibilità leggendo uno dei suoi gialli, magari partendo con aspettative diverse.
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Dalla parte di lei
Un libro che racconta gli anziani da un punto di vista originale, quello di una badante, con i suoi sacrifici ed i suoi affetti, le sue umiliazioni e la sua umanità, la sua umiltà ed i suoi sogni. All’inizio io pensavo che gli orfani bianchi fossero i vecchietti che lei assiste. Invece leggendo la vita della donna scopri che gli orfani bianchi sono, come suo figlio, i bambini che, pur avendo almeno un genitore, vivono in strutture che sono delle specie di orfanotrofi, perché i genitori non possono comunque occuparsi di loro. E’ bello conoscere Mirta anche attraverso gli occhi delle persone che le ruotano attorno, amici che la aiutano, donne che vivono condizioni analoghe alla sua, personaggi minori che lei incontra per caso: sono tutti piccoli attori che aiutano a tratteggiare lei, a volte con la loro ironia, tratto distintivo della scrittura di questo autore, a volte con la loro umanità, a volte semplicemente con il loro modo di starle vicino. Attraverso la storia di questa donna, che è davvero toccante e commovente, scopri che nella disperazione si è davvero tutti uguali. Ognuno a modo suo. Ma tutti uguali.
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Vita, speranza, nessuna certezza....
Il lascito della lettura di " Orfani bianchi " è un romanzo della contemporaneità con tematiche vaste ed una trama dalla costruzione lineare, piuttosto scarna, che si serve di un linguaggio semplice e colloquiale.
Vi si narra la storia di Mirta, giovane moldava, costretta ad emigrare in Italia ( a Roma ) lasciando in patria l' amato figlio Ilie che non riesce a mantenere, per affrontare una quotidianità difficile, esasperante, anche ripugnante, con l' improvvisa mancanza di una occupazione e l' obbligo, per sopravvivere, di cercarsi un lavoro qualsiasi, spesso sottopagato, con orari impossibili ed ai limiti della sopportazione fisica.
Poi la svolta, un' assistenza privata ad Eleonora, novantenne colpita da ictus, immobilizzata su una carrozzina, afasica, ricca, figlia di un mondo altolocato e spocchioso che non vuole e non può occuparsi di lei. Finalmente un buono stipendio, la possibilità di una rinascita, anche se il futuro le riserverà una relazione difficile, un mondo lontano da se', l' altrui diffidenza, l' ineguaglianza socioeconomica ed una vita privata scossa ed imprevedibile.
La trama intessuta da Manzini attraversa un mondo che è sotto gli occhi di tutti. Temi sociali, migrazione, fame, miseria, impossibilità di mantenersi in patria, abbandono dei propri affetti, inospitalità, disuguaglianza, razzismo, temi umanitari, crudeltà , diffidenza, avarizia, insensibilità, solitudine, disprezzo, senso della famiglia, amore, amicizia, temi etici, il disagio della malattia, la dignità del vivere e del morire, oltre che filosofici, la coscienza di se', il contrasto ideale-reale, arte-vita.
Tracce sconfinate, facilmente riconducibili e riconoscibili nella nostra quotidianita', basterebbe una passeggiata in un qualsiasi nucleo urbano, percorrendo quartieri più o meno abbienti, sostando su una panchina, in un parco, addentrandosi in un bar del centro ed in un locale della periferia, incrociando volti affamati ed infreddoliti, imbattendosi in individui macerati in fila in attesa di un pasto caldo, zigzagando tra corpi indistinti riversi sui marciapiedi, incrociando braccia questuanti ai semafori e, per contro, rischiando di essere investiti dalle potenti macchine di guidatori distratti, scontrandosi con giovani microfonati e monologanti, avvolti in capi firmati, o donne impellicciate che discorrono al cellulare di borse e gioielli. Basterebbe solo osservare e riflettere, nulla di più.
Ritroveremmo inevitabilmente temi e realtà del romanzo, donne dalle vite dimenticate, uomini con storie altrettanto complesse, ed una elite privilegiata e snobistica, così intrisa di ricchezza esibita ed indifferenza manifesta.
Poi, potremmo visitare una casa di cura, ed incontrare altre Eleonora, sradicate dalla propria quotidianita', abbandonate dagli affetti piu' cari, costrette a vivere una esistenza che non sentono propria, in un corpo disfatto, con una mente corrosa dagli anni e mutilata dalla malattia, affidati alle cure ( spesso amorevoli ) di estranei che divengono la propria " famiglia ", ma questo ci introdurrebbe in un altro complesso mondo ed idea di mondo ( perché non sempre è così ed una realtà ogni volta diversa si cela oltre l' apparenza ).
Ecco, le vite di Mirta ed Eleonora sono unite da un comune senso di disperazione e di abbandono, da una migrazione coatta, chi dalla propria patria, chi dal proprio corpo straziato in un senso non senso, in una vita non vita.
Nel frattempo si è conclusa la nostra passeggiata urbana ed è come avere riletto la trama, respirato le stesse emozioni, che peraltro ci sono ogni giorno, quando si varca la porta di casa e ci si confonde nel mondo. Rimane un senso di indignazione, rabbia, sconforto, pena, dolore, rassegnazione, ed una certa autocritica, laddove si ritorna al proprio vissuto rischiando di dimenticare o di scansare cio' che, chiusa quella porta, forse non sentiamo appartenerci così in profondità.
Manzini affronta l' oggi attraverso la storia di Mirta, ma non credo ciò possa bastare.
I temi trattati necessitavano di un approccio diverso, più specifico ed interiorizzato, evitando uno sguardo sociale così ampio con inevitabile superficialità e banalizzazione, approfondendo i sentimenti ed i rapporti interpersonali, ( Mirta-Eleonora ) solo in parte trattati, distillando, nella narrazione, l' attualità, separando situazioni e contesti.
Allontaniamoci dai soliti cliché, non sempre ricchezza equivale ad egoismo ed indifferenza, povertà a sensibilità ed amorevolezza ne' l' essere anziani e malati è sinonimo di inutilità, abbandono, solitudine, desiderio di morte, occorrerebbero opportuni distinguo.
In sostanza meno temi indistinti e più indagine psico-sociale, analisi del particolare, scavando nelle situazioni e nei sentimenti che nascondono mondi all' apparenza insondabili.
Questo romanzo, infatti, è trasposizione personale del reale, ma ad esso comunque si ispira, al dì la' di facili tematiche strappalacrime ed ovvietà in cui facilmente riconoscersi e specchiarsi.
In altro modo si rischia di cadere nella banalità e superficialità emozionale, quel mal di pancia che, senza una attenta riflessione ed introiezione, inevitabilmente è destinato a passare.
Ma qui, ovviamente, sta al talento ed alla profondità dell ' autore intervenire, indicando al lettore sentieri letterari apparentemente ovattati e silenti, in realtà pulsanti e definenti carattere e unicità di una storia altrimenti impalpabile e generalista.
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Fino a quando? Quanto ancora?
Mirta Mitea, anni trentaquattro, di origine Moldava, è una donna che come troppe altre, ha dovuto abbandonare la propria famiglia e la propria terra natia, per dare un futuro a Ilie, figlio adorato. Le circostanze della vita non solo le hanno prematuramente sottratto la madre, venuta a mancare a causa di un incendio determinato da una vecchia e malridotta stufa, ma l’hanno anche obbligata a chiudere il bambino in un “internat”, un istituto che corrisponde ai nostri orfanotrofi. Ed è così che il dodicenne si ritrova ad arricchire le file degli “orfani bianchi”, ovvero di quei ragazzi che seppur ancora con i genitori in vita sono costretti a crescere da loro distanti perché il dio denaro non perdona, le spese sono tante ma il desiderio di donare un futuro migliore a quella prole apparentemente condannata alla disgrazia e alla fame, non muore mai. Perché, come sempre Tatiana ricordava a Mirta, tu padre, tu madre, “sei il presente” mentre Ilie/figlio “è il futuro”.
Roma. La donna giorno dopo giorno è costretta a rimettersi in gioco passando da lavori quali badante alla signora Olivia, a operaia in una specie di impresa di pulizie per 4,50 Euro l’ora, a nuovamente badante/infermiera della ricchissima signora Eleonora. Il tempo passa e non perdona. Il distacco da quegli occhi neri che ha lasciato in Moldavia non l’abbandonano mai, sente che qualcosa non va, cerca di stare vicino a quell’adolescente abbandonato a sé stesso, tenta ininterrottamente di far sentire la sua presenza nella quotidianità del piccolo uomo ma sa benissimo di non riuscirvi perché migliaia di chilometri li separano e per di più in un’età critica quale quella dell’adolescenza. Nessun padre, nessun nonno, nessuno zio può lenire alla solitudine di quella madre che lotta per un futuro insieme, nessun padre, nessun nonno, nessuno zio, può lenire alla solitudine di quel bambino rinchiuso in una struttura inospitale tra sconosciuti e regole ferree.
E’ in questo scenario che si apre il nuovo romanzo di Antonio Manzini, un elaborato in cui molteplici sono le tematiche che spiccano. L’autore ci pone infatti di fronte a due dilemmi. Da un lato abbiamo quello di queste donne che sono costrette a pagare un prezzo altissimo; quello di lasciare i propri affetti per prendersi cura di quella degli altri. Quanto cosa effettivamente questa scelta? Qual è la vera portata della stessa? Cosa questa realmente comporta? Di convesso il secondo, non meno importante, quesito: gli anziani, quegli uomini e quelle donne che ormai non più autosufficienti finiscono col sentirsi o col diventare un peso per chi hanno accanto, per la società. Sono vissuti come una ingombrante presenza, vivono con la consapevolezza di essere organismi in decadimento, percepiscono il fluire del tempo come una condanna che mai finisce con l’essere espiata. A quando la morte, perché questa sembra non voler sopraggiungere mai? Espressione di detta realtà è Eleonora che, colpita da un ictus, è obbligata alla sedia a rotelle, è tenuta a sopportare sulla sua pelle le mani di estranei, è costretta alla volontà altrui. E’ vita questa? Sembra chiederci.
Due verità drammatiche messe egregiamente a confronto, due vite forse non così tanto agli antipodi.
Non solo, il tutto è trattato nell’atmosfera di un pregiudizio che non muore mai, semplicemente si sposta. E se negli anni settanta/ottanta toccava il popolo italiano del meridione che migrava al nord in cerca di prospettive migliori, negli anni duemila approda allo “straniero” venuto in Italia per “rubare” il lavoro agli italiani, lo straniero che non è visto nella sua singolarità ovvero quale essere umano prima di tutto, ma come insieme: non conta che sia una persona magari buona e perché no, anche di sani principi; esso/essa verrà sempre e comunque etichettato quale colpevole dei più svariati misfatti perché la sua “razza” di appartenenza quella è e quella resta.
Manzini si supera e crea – con una penna nettamente più poetica di quella che abbiamo conosciuto nella serie di Rocco Schiavone – in questo romanzo, un personaggio concreto, tangibile con mano, che suscita empatia in chi legge. E’ uno scritto, infatti, che tocca le corde del conoscitore, che arriva nel profondo e nulla risparmia, tantomeno nel suo epilogo.
«La fame te lo toglie l’orgoglio. E ti toglie l’amor proprio e la dignità. Come si fa a sopportare di essere colpevole di cose che non hai mai pensato? Solo perché altri quelle cose le fanno. Tutti i giorni. E quindi per riflesso le fai anche tu? Sarebbe mai arrivato il giorno in cui sarebbe stata considerata né più né meno che una donna e giudicata per le sue azioni? Fino a quando ce l’avrebbe fatta? [..] Odiava Ciasullo, la signora, i poliziotti e gli occhi degli italiani. Ma non perché la trattavano così, loro erano i vincitori e si sa che i vincitori non provano pietà per i vinti, ma perché con gli sguardi e le parole le riportavano alla mentre sempre quella domanda: fino a quando?» p. 143/144
«Quanto costa questo lavoro, Nina? Il prezzo qual è? E’ alto, te lo dico io. Quello che lasciamo pesa cento volte di più di quello che otteniamo.» p. 171
« Non erano più le sue mani. Dov’erano finite le sue mani? In quale angolo di strada si erano perdute? E se loro avevano dimenticato tutto, perché la sua testa no? Quella era come se fosse passato un solo pomeriggio dall’ultima volta che aveva suonato. La testa non si arrende mai. E’ il corpo che si ferma e ti saluta. E la cosa peggiore era avere la coscienza del proprio decadimento. Della propria disgrazia. Un rumore la fece voltare verso la porta del salone. Ferma e silenziosa, impenetrabile sulla sua sedia a rotelle, c’era la vecchia. Che la guardava. Ma lo sguardo era cambiato, parlava. » p. 181
«”Le mie dita? Ah, si… le dita una volta sapevano suonare.. ora sono un po’ incastrate. Non si muovono come dovrebbero. Faccio fatica. E anche un po’ pena”. La signora alzò appena un lato della bocca. Era un sorriso. Si indicò il petto e poi le mani di Mirta. “Non capisco. Lei? Lei e le mani… le servono le mie mani?” Eleonora ripetè i gesto. Allora Mirta capì. “Lei è… le mie mani?”. La signora Ferlaini Strozzi chiuse gli occhi soddisfatta.»
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Due scomode realtà.
La fortuna e il destino dell’uomo dipendono in gran parte dal luogo in cui nasce, dal periodo storico, dall’etnia alla quale appartiene. Si ha un bel dire che tutti gli uomini sono uguali, la realtà con la quale ogni giorno ci dobbiamo confrontare ci insegna che l’umanità è sempre tristemente divisa tra forti e deboli, ricchi e poveri. Lungi dal diminuire con il progresso e l’emancipazione dei popoli, il divario va sempre accentuandosi, per molte ragioni, che siano politiche, economiche o religiose. Il fenomeno della migrazione delle genti, antico quanto il mondo e in questo periodo storico ripreso in maniera massiccia sta mutando il nostro modo di vivere, le nostre abitudini, il nostro atteggiamento, non sempre disponibile alla tolleranza e all’ospitalità.
Nel suo ultimo romanzo “Orfani bianchi”, Manzini ci racconta la storia di una donna moldava, giunta in Italia per trovare lavoro e inviare soldi alla madre rimasta nel paese di origine, per il mantenimento del figlio, avuto con uno sciagurato presto scomparso dalla sua vita. L’esistenza di Mirta è dura, come quella di tutte le persone nelle sue condizioni, costretta a cambiare spesso lavoro, mal pagata e rassegnata a essere trattata come una serva, se non come una schiava. Alla morte improvvisa della madre consegna il figlio dodicenne ad un internat, un orfanotrofio, con la speranza di poter racimolare tanto denaro col lavoro in Italia, da avere poi la possibilità di portarlo via con sé. Così suo figlio va ad ingrossare le fila dei cosiddetti “orfani bianchi”, bambini e ragazzi abbandonati da genitori che non sono in grado di mantenerli. Mirta dunque, con qualche stratagemma discutibile, riesce finalmente, dopo lavori faticosi e sottopagati, a trovare una sistemazione come badante di una vecchia signora inabile, molto benestante, della cui cura il figlio e la nuora non hanno alcuna intenzione di occuparsi. Ed è qui il quesito principale che Manzini pone a se stesso e al lettore, come è evidente nella quarta di copertina del libro: “quanto costa rinunciare alla propria famiglia per badare a quella degli altri?” Troppo spesso infatti non ci si pone questo problema, non ci si rende conto che il prezzo è altissimo, che chi viene in cerca di speranza e sopravvivenza spesso assiste al disfacimento della propria famiglia, con la conseguente perdita di ogni affetto e di ogni equilibrio psicofisico.
L’altro tema, non meno importante, di questo romanzo si concentra sulla difficile situazione di quegli anziani non più in grado di essere sostegno per la famiglia e a volte per la società. Essi sono un peso, come la ricca Eleonora del romanzo di Manzini, che, consapevole della sua inutile e ingombrante presenza, vorrebbe morire. La malattia la incattivisce e agisce con disprezzo e malversazione nei confronti di chi la accudisce. Dunque due esistenze drammatiche si trovano a confronto, si sfidano, si misurano ognuna con le sue debolezze e con la volontà di sopraffare l’altra. Ecco dunque come ormai è cambiata la nostra società. Le famiglie sono sempre meno il luogo di rifugio per gli anziani inabili, per ragioni che a volte sono anche comprensibili, visti gli impegni di lavoro e i ritmi frenetici della vita, ma che ci riportano a un concetto di progresso disumanizzato, tipico di questa “società liquida”, per citare Umberto Eco (Papè Satan Aleppe).