Narrativa italiana Romanzi Notti sull'altura
 

Notti sull'altura Notti sull'altura

Notti sull'altura

Letteratura italiana

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Alla morte del padre - il sarto Don Nanè che abbiamo incontrato nel Sarto della stradalunga - il protagonista-scrittore ritorna al paese natale. Atterrato all’aeroporto di Catania, prende la strada per raggiungere Mineo. E se il territorio attraversato dal narratore quello reale, pure è trasfigurato in un alternarsi di boschi e valli animati da una moltitudine di uccelli e da una vegetazione fitta di erbe e alberi rari. Ecco che allora il viaggio si trasfigura in un pellegrinaggio fantastico: radunatisi sull’altura del castello che sovrasta il paese, amici, parenti, maghi al chiarore della luna si mettono alla ricerca del "tanatouccello" l’umano-animale in cui sono trasmigrati i simulacri del padre. Diviso il territorio in cinque settori, le squadre si mettono al lavoro e su consiglio di alcuni dotti del paese si tenta l’esperimento di innestare un corpo umano, quello del piccolo Diofar, nella corteccia di un albero per stabilire una corrispondenza con l’uccello. Ma l’impresa fallisce mentre la madre del piccolo, Aramea, disperata corre nel bosco sino a dissolversi ai piedi un carrubo.



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Notti sull'altura 2014-03-14 05:21:41 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    14 Marzo, 2014
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Un viaggio fantastico

Il trasferimento a Frosinone per motivi di lavoro e così di fatto l’allontanamento non certo temporaneo dalla sua natia Mineo devono aver costituito per Giuseppe Bonaviri una sorta di trauma, giacché la sua arte creativa è come stimolata dal sogno di un impossibile definitivo ritorno. Si aggrappa così alla memoria che con il trascorrere del tempo si sfoca inevitabilmente, creando dei vuoti, degli scompensi, in cui tuttavia, per la necessità di un riflesso continuo, inserisce, partendo da un’oggettiva realtà, parti di fantasia. La sua Sicilia, così, diventa mitica, a metà via fra storia e fiaba, e il paese che lo vide nascere si trasfigura in una mistica Shangri-La, un paradiso perduto, un angolo ben protetto nella sua mente in cui rifugiarsi ogni volta che se ne abbia necessità. È questo il vero sogno, l’oasi ricostruita in sé, ambientazione di tanti suoi romanzi fatti di un caleidoscopio di immagini di una sorta di mondo primordiale in cui si sfoga e si amplia la sua naturale e accentuata predisposizione per la metafisica. In questi lavori rientra questo Notti sull’altura, pubblicato nel 1971, cioè dopo La divina foresta, che è un vero e proprio poema biologico, come ebbe a suo tempo a definirlo Italo Calvino. Di certo l’autore sanremese fu un notevole estimatore di Bonaviri, anche per una certa comunanza di ispirazione, pur se con realizzazioni e approfondimenti diversi. Tuttavia, se La divina foresta aveva entusiasmato Calvino, questo Notti sull’altura, pur frutto di un suo largo apprezzamento, fu oggetto anche di qualche critica, come per esempio per una certa complessità, non disgiunta da una struttura disomogenea, appunti che in parte condivido e che rendono non facile la lettura dell’opera, facendo perdere soprattutto il filo della storia e di fatto costringendo spesso a ritornare su punti precedenti. Quella plasticità armonica che è propria della Divina foresta è solo presente a tratti, forse anche perché Bonaviri ha voluto costruire un grande mosaico di sogni, in cui confluiscono elementi naturali e primordiali, in un continuo scorrere di sensazioni che riverberano come i risultati del certosino lavoro di un grande alchimista. C’è tanto e tanto, per non dire troppo, ed è un peccato perché questo immaginario ritorno a Mineo dell’autore sotto le spoglie di Zephir avrebbe tutte le carte in regola per stupire ed avvincere già da subito. Il ripercorrere la propria infanzia in un mondo incantato, fatto di valli e di boschi, abitatiti da una miriade di uccelli e da alberi rari, il viaggio che si concretizza in un’esperienza fantastica, il paese natio visto come riparo sicuro dai mali del mondo sono temi costanti della poetica di Bonaviri, e dico poetica non a caso, perché la sua prosa, per stile e invenzioni, è una prosa poetica, di grande ed appagante effetto. La vicenda, in sé e per sé, può sembrare poca cosa, ma è il suo svolgimento che delinea la qualità dell’opera, ciò che sottende e che conduce piano piano in una realtà parallela che non può non turbare prima, e avvincere poi.
Tuttavia, Bonaviri è talmente unico e irripetibile che gli si può perdonare una certa verbosità, magari un accavallarsi non sempre omogeneo di fatti rivenienti dalla sua profonda cultura, e se proprio si fatica nel cercare di tenersi stretti al filo logico dell’opera, si può proseguire, al fine di pervenire, in emozionante esperienza, al termine, riproponendosi di comprendere meglio con successiva rilettura. E con questa ciò che era buio diverrà chiaro, e solo allora anche noi potremo viaggiare in un mondo fantastico in cui si respira lo spirito dell’esistenza, in cui ogni essere vivente ci apparirà in una nuova luce.
Da leggere, ovviamente.

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La divina foresta, di Giuseppe Bonaviri
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