Ninfa plebea
Letteratura italiana
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Bella come una fata dalla faccia negroide
Ninfa plebea di Domenico Rea si apre con una sagra popolana che è compendio di poco sacro e tanto profano (“È qualche coppia che si sta sbranando. Non sapete che questa è la festa del diavolo?”) nella cultura contadina grezza, rude, istintiva del trentennio in un paese campano.
Miluzza cresce in un ambiente familiare graveolente (“Ogni maccherone imbottito aveva il sapore di un dattero, ogni boccone di braciola quello della manna, l’anguria, una primizia a maggio, il gusto dell’aria profumata bevuta a sorsi”) e dominato dalla sensualità peccaminosa di una madre che sfida le maldicenze del paese.
La Ninfa plebea rimane presto orfana e, quando anche il nonno muore (“Fefele era celebre nel circondario, non soltanto perché faceva la pizza più buona al formaggio, ma anche perché mostrava alle contadine curiose sotto le frasche il più grosso arnese d’uomo del mondo”), diviene facile preda delle voglie dell’industriale del luogo, che – mostrandole il lusso - approfitta di lei nelle trasferte a Cava dei Tirreni e Napoli (“Per la prima volta il basso le sembrò una grotta umida e fetida”).
Combattuta tra la ripugnanza e il desiderio di riconquistare la propria purezza (“Ma soprattutto anelava abbracciare Marietta, la bambola, Annuzza e Nannina”, una cantante fallita), attratta dal nuovo rappresentato dalla disinibita Titina l’Americana, ma condannata dal paese (“Gli occhi dei paesani erano penetrati come quelli di Dio: perforavano le serrature delle porte, scendevano dai tetti, stavano sotto i letti”), che esige un rito di espiazione collettiva per perdonarla (“Ti ricordi la flagellante di quando andammo con Nunziata a Mater Domini? Solo così a Nofi ci si può salvare”), Miluzza verrà restituita alla vita dalla distruzione della guerra e grazie a uno stratagemma d’amore.
Giudizio finale: brutale, minorile, rionale, boccaccesco ed esplicito (“E quelle manine… erano fatte proprio per raccogliere o rose o c@zzi”), il romanzo è un affresco icastico che può anche commuovere il lettore empatico.
Bruno Elpis
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Miluzza
Il basso di Nofi è un luogo dove si mescolano istinti primordiali e fede religiosa, lezzo di escrementi e profumo di fiori e di cibo.
Miluzza, la giovane protagonista, è un prodotto di questa terra sacra e profana: gli occhi cerchiati e la voce profonda denunciano una natura viziosa e alcuni tratti delicati della sua bellezza selvatica ricordano uno dei tanti amanti della madre, un principe siciliano decaduto.
Questo romanzo è un quadro dalle tinte forti dove Eros e Thanatos danzano avvinghiati, offendendo, di primo acchito, vista e olfatto; ma sono pagine che trasudano ispirazione e schiettezza, ed esprimere un giudizio morale al riguardo diventa persino superfluo.
D'obbligo, invece, è apprezzarne la fattura, il ritmo che non accusa mai cali di tensione, la grazia di uno stile popolano, la forza magnetica di una terra a volte brutta, spesso bella, autentica sempre.
Come Miluzza, che candidamente “a certe cose del piacere dava il valore di sfizi” e che avrebbe fatto una brutta fine se lo stesso autore non ne fosse rimasto impietosito, o forse, come tutti, semplicemente ammaliato.
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Un’innocente puttanella
Leggo, riguardo a quest’opera, che si è aggiudicata il premio Strega edizione 1993 e immediatamente penso che probabilmente gli altri romanzi in concorso dovevano essere assai modesti, perché Ninfa plebea non è quello che comunemente, a proposito di grandi libri, viene definito un capolavoro, anzi ritengo personalmente che si tratti un qualcosa che si elevi assai di poco sulla mediocrità. Posso capire che l’autore abbia voluto descrivere un certo tipo di vita presente in passato nel nostro paese, soprattutto in meridione, ma nella vicenda di Miluzza che si dona con spontanea innocenza ravviso degli eccessi che rasentano, più che l’erotismo, l’oscenità, con quell’insistere sulle caratteristiche degli organi sessuali maschili e femminili con una costanza quasi maniacale. Se la descrizione della mitica città di Fofi è la parte migliore del romanzo, la vicenda in se stessa pare quasi una sceneggiata napoletana, con questa adolescente che coltiva le sue pulsioni sessuali con spensieratezza, in un’esistenza segnata dalle morti della madre a seguito di un amplesso quasi feroce, del padre che, in un vespaio di maschi libidinosi è un pesce fuor d’acqua e forse un impotente, del nonno dal passato di grande amatore e a seguire con il contorno della seconda guerra mondiale grazie alla quale troverà il vero amore che la porterà all’altare. Miluzza, che senza farsi troppi problemi s’accompagna anche con donne, che si dona a chiunque come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, che piano piano, quando di lei si incapriccerà un ricco e anziano imprenditore, viene considerata dalla gente una disprezzabile puttana, è in effetti una creatura incapace di comprendere il significato della parola trasgressione, è quel si potrebbe dire, insomma, un’innocente puttanella. Se la trama è debole, mi sarei atteso almeno una ragazza battagliera, e non remissiva, ma quel che stona più che altro è purtroppo un continuo ricorso a descrizioni di atti sessuali che francamente costituiscono un’esagerazione e che fanno di un romanzo che, altrimenti strutturato avrebbe costituito un pregevole affresco di un’epoca e di una certa mentalità, un irritante tentativo di rappresentare una ninfomane, tipo la Lolita di Nabokov, in salsa nostrana, ma senza la comicità e l’ironia della commedia all’italiana, bensì in un un continuo ravvivarsi di una libidine che sfocia talora nella pornografia.
Da non far leggere ai minori, lasciando ai maggiorenni la possibilità di decidere, ma con l’avvertenza che Ninfa plebea da romanzo che vorrebbe essere sull’amore è invece senza amore.