Nannina
Letteratura italiana
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Il libro parlato
Avete presente “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo?
Ecco, “Nannina” è un romanzo che, a grandi linee, riporta lo stesso sottinteso, cioè:
“…La morale di questa storia è che a certe femmine sfortunate come Filumena serve tutta la vita per riuscire a piangere. Ma poi, quando hanno imparato, possono fare un bel respiro e permettersi pure di sorridere un poco.”
Vale a dire, queste donne hanno appreso compiutamente, spesso a caro prezzo, sempre a proprie spese e sulla propria pelle, tutto quanto di essenziale e significativo è possibile assorbire dall’esistenza, e che può bastare per tutta una vita, e anche per più di una.
Come tutte le buone esperienze però, queste per mantenersi valide, efficaci, sempreverdi, vanno diffuse, fatte girare, raccontate.
Le storie di vita sono come acqua fresca, salubre, sorgiva, perché disseti e adempia la sua funzione ristoratrice, va fatta girare, irradiata, estesa per irrigare i campi, rinfrescare le teste sotto il sole, portare pausa e ristoro, se la si incanala e la si rinchiude in vasche circoscritte, a uso di singoli, di pochissimi privilegiati, le acque ristagnano fino a imputridirsi, e basta.
Anna Grimaldi detta Nannina, la protagonista di questa storia, tanto insolita quanto affascinante, con un sapore antico, d’altri tempi, e però intrigante e coinvolgente, questo fa, la vita la racconta, la descrive, la ripete in giro, la condivide, la declama in pubblico, dapprima per pochi intimi, poi in spazi più grandi, nei cortili dei caseggiati popolari, poi nelle fiere, nelle feste di piazza, finanche ai funerali, ampliando via via sempre più pubblico e platea, fino a divenire nel suo ambito una celebrità, rinomata e richiesta a gran voce, retribuita al meglio data la sua abilità.
Letteralmente Nannina racconta il fluire dell’esistenze, sua e degli altri, la mima, la recita, la rappresenta, ne fa ironia e parodia, è una cantastorie del suo tempo, l’immediato secondo dopoguerra.
Anni difficili, di fame, di stenti, di miserie, in particolare in certi contesti di degrado, e però magari proprio per questo vivi, vitali, rigogliosi, assetati di ascolto, smaniosi di sapere e di immedesimazione.
Anni in cui la televisione è agli albori e quindi non per tutti, la radio non è esaustiva per gli animi semplici bisognosi, più delle parole ascoltate, di “vedere” in dialetto per capire al meglio quanto rappresentato, cinema e teatri hanno ancora prezzi proibitivi per certi ceti, la carta stampata non è accessibile a gran parte del popolino poco avvezzo alla lettura e scrittura.
Tuttavia, la gente vuole sapere, anche e soprattutto di fatti usuali e comuni alla propria esperienza, storie insomma magari deteriorate, “sgarrupate” in termini dialettali, serve quindi chi racconti, e possibilmente bene, le “struppole”, le storie lacerate e strampalate in ogni senso, una “cuntastruppole”. Nannina è l’equivalente dell’epoca di un libro parlato, un podcast, un audiolibro una storia a voce. Un novellare attorno al fuoco di un bivacco, sotto le stelle, o al chiuso in un fienile o vicino al camino, un incantare l’uditorio come fa Ulisse alla corte di Alcinoo: rigorosamente a voce sola. “Nannina” è il bel romanzo, originale e incisivo, l’esordio di Stefania Spanò, scrittrice esordiente, certamente, però non nuova al raccontare storie, che in estrema sintesi è quello che deve saper fare ogni buon scrittore. Se è vero come è vero, infatti, che ogni autore riversa parte di sé stesso nella sua opera, Stefania Spanò è lei per prima una cantastorie, prima ancora di scrivere una storia tutta sua, che appartiene al suo vissuto e a quello della sua famiglia, racconta e sa raccontare bene.
A voce, ma non solo; su carta, certamente; ma finanche a segni, ben delineati con metodo, regole, struttura, espressività, in definitiva con immagini segnate, il che è un idioma, una lingua a sé stante.
Per indole, per scelta, per vocazione, la Spanò è esaustiva nel suo narrare, non solo nel suo romanzo, fuori dalla pagina scritta l’autrice infatti insegna nelle scuole.
Per essere precisi, fa oltre, sostiene nell’insegnare, e fuori scuola comunica nelle periferie urbane tramite laboratori di teatro, di poesia, di scrittura creativa, dove non arriva con il parlato, a voce, oralmente, fa ancora di più e forse, chissà, per qualcuno anche meglio, si esprime alla grande con i soli segni, con una lingua a se stante che fa leva più sul canale visivo segnante che su quello audio verbale, la giovane autrice è infatti anche una interprete LIS, la lingua italiana dei segni, la lingua della comunità sorda del nostro Paese.
Volete che una persona così non racconti alla grande, e riporti ancora meglio le sue storie?
Le sue pagine sono accese, trascinanti, sprigionano vita, finanche odori, come quello intenso del baccalà, pietanza simbolo della festa in onore della Madonna del Cavone!
I fatti che racconta, i “cunti” riportati, sono ameni, bizzarri, atipici, geniali, scongiurano e liberano perfino dai timori della morte:
“…Siccome poi pochi sapevano leggere e scrivere, il messaggio era quasi sempre un “cunto”, ché quelli tutti li ricordavano a memoria, e ognuno ne aveva uno a cui era particolarmente affezionato e che gli sembrava esprimere bene il segreto della vita…”
Stefania Spanò racconta, e si racconta, fa catarsi di sé stessa, rievoca le sue origini, gli inizi che sono di lettrice, come è tipico di chi poi si dedica a scrivere, ma di lettrice attenta al contesto linguistico in cui vive:
“I libri sono tutti in italiano. L’italiano mi affascina, ma non è la mia madrelingua, e mi ci misuro ancora con qualche fatica. Più la imparo e più sento di allontanarmi dalla mia famiglia. Esiste solo nei libri e in bocca ai professori l’italiano… “
Cerca ben altro per esprimere al meglio la realtà eletta del suo humus ordinario:
“Cerco un libro bello come il “Canto di Natale” di Dickens ma ambientato a Secondigliano, ce ne sono?”
Certo che esistono, ci mancherebbe che una tale eccelsa autenticità non sia già stata descritta, come per esempio ne “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortense:
“ …Non è Secondigliano, è Napoli, ma sono racconti belli di gente vissuta al tempo dei tuoi nonni…”
In quel tempo, ma non solo: perché il raccontare a voce è una malia, un ascoltarsi l’un con l’altro, incanta ora come ieri, domani, sempre.
Raccontare è donare gentilmente, offrirsi, è un favore, un servizio, un omaggio, un presente sempre gradito, ancora oggi:
“…I bambini trattengono il fiato per alcuni secondi, poi battono forte le mani, palmo contro palmo, come a voler acchiappare la magia nell’aria e farsela entrare nelle impronte digitali…”
“Nannina” di Stefania Spanò allora non è solo un romanzo, è molto di più, è una benemerenza sociale, è un riconoscimento civile, un lavoro virtuoso, una grazia letteraria, va oltre la lingua o lo scrivere in sé, è un elogio del raccontare in maniera quanto più possibile diretta e multi modale l’esistenza, nelle varie forme in cui si presenta nel suo evolversi, serbarne la memoria, custodirla, divulgarla, anche in quelle più tristi e drammatiche, come certi quartieri oggi tristemente noti alle cronache:
“ Caivano, Parco Verde. Verde, non per le siepi e le aiuole, ma per il colore dei palazzoni, in fila uno dietro l’altro…brutti perché la bellezza è un privilegio dei ricchi…e poi a furia di guardare il palazzone brutto e quadrato ti senti brutto e quadrato pure tu e con il passare degli anni te ne cadi a pezzi come il palazzo…”
Tutto questo va a esclusivo merito del talento innato, certo, ma indissolubilmente unito all’impegno, alla fatica, alla ricerca rigorosa dell’autrice, alle sue molteplici esperienze di vita.
Davvero una bella storia, un racconto incantevole, una novella deliziosa, a farla breve: un cunto.