Mia madre è un fiume
Letteratura italiana
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Madre dolorosa
Storia di un rapporto madre-figlia conflittuale e freddo, che mi ha fatto male leggere. Soprattutto perché è raccontato in una fase della vita della madre dove la madre è in difficoltà e la figlia sembra avvicinarsi a lei per dovere, senza calore, senza amore. La madre ha perso il controllo di sé. Colpisce molto il punto in cui si racconta che, con altre malattie, la famiglia sarebbe stata più dolce con lei, quasi che, se si ammala la testa, fosse una colpa più grave della persona. La memoria della madre è diventata un manoscritto ad inchiostro simpatico ed anche questa è una condizione di fragilità verso cui non ho trovato, nella figlia, il calore e l’empatia che una figlia avrebbe dovuto avere. Lo stile è anch’esso freddo, quasi a voler dare anche stilisticamente l’effetto del distacco. E’ anche vero però che nel raccontare ricordi, si ricostruisce un rapporto. Dobbiamo solo prestare attenzione a non farlo troppo tardi.
Indicazioni utili
Madre & Figlia
«Certi giorni la malattia si mangia anche i sentimenti. È un corpo apatico, emana l’assenza che lo svuota. Ha perso la capacità di provare. Allora non soffre, non vive.» p. 9
Ha inizio con questo breve incipit “Mia madre è un fiume” romanzo d’esordio di Donatella Di Pietrantonio ormai conosciuta al grande pubblico grazie al suo “L’Arminuta”. Sin dalle prime battute emerge un profondo tratto autobiografico dell’opera. Due le protagoniste: Esperia Viola, detta Esperina, nata il venticinque marzo del millenovecentoquarantadue in una casa al confine tra i comuni di Colledara e Tossicia e sua figlia di cui il lettore apprende poco o nulla. Sappiamo che è madre di Giovanni, sappiamo che svolge una professione, sappiamo che con colei che l’ha cresciuta il rapporto è “andato storto sin da subito” ma non sappiamo altro. La figlia è e resta una figura sospesa che si apprende pagina dopo pagina ma che resta confusa, sulle retrovie e questo probabilmente perché il suo scopo è quello di dar voce a una donna che sta scomparendo; essendo il suo fine, per quanto possibile, ricostruire quello che è stato, ciò che sono state. Perché Esperina è affetta atrofia cerebrale una patologia che porta l’organo a seccarsi e a ritirarsi. Da ciò il venir meno delle svariate funzioni vitali, primarie e non, tra cui anche la memoria.
È un puzzle quello che la protagonista mira a ricostruire, un puzzle che da un lato è finalizzato a schiarire il passato sempre più ovattato e oscuro di quella costante figura che offre la vita, dall’altro è finalizzato ad esorcizzare il dolore, a convivere con la stessa mancanza di coraggio, la propria vigliaccheria. Per quel che c’è da rinfacciare, per quel che c’è da perdonare, per quel che c’è da farsi perdonare, per quelle scelte al tempo così oscure e ora così chiare.
«Ora posso dirle tutto di noi, senza pietà. Poi dimenticherebbe. Le infliggerei una ferita effimera. Ci fantastico intorno e non me lo invento il coraggio di essere così vigliacca.» p. 170
Ed è da qui che il viaggio diventa introspettivo. La madre diventa specchio per la propria anima di figlia, specchio dei propri demoni.
«Ho chiamato ogni limite mia madre. Le ho imputato il mio volo zoppo. Lei è il mio pretesto. È causa, e motivo. Mia madre è un albero. Alla sua ombra mi sono giustificata. Si secca, anche l’ombra si riduce. Presto sarò allo scoperto» p. 173
Quello di Donatella Di Pietrantonio è un lemitov profondo che si manifesta con una voce forte, asciutta, rude, aspra e che si sostanzia nella deprivazione affettiva e nel contrastato auto-risarcimento attraverso la parola. Un lemitov che riesce totalmente nel suo intento. Il conoscitore non resta indifferente al rapporto madre-figlia, ne è al contrario colpito e turbato tanto che non mancano auto-interrogazioni volte a comprendere nel proprio io il vero significato del medesimo. Il lettore non esula dal meditare sul rapporto genitoriale e sulla sua portata, ne è invogliato e spronato cartella dopo cartella. Al tutto, immancabile è lo stile narrativo della scrittrice simbiotico con quello conosciuto (apprezzato o non apprezzato) ne “L’Arminuta”.