Materada
Letteratura italiana
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Terra rossa
“Dal mare veniva su un po’ di tramontana e portava con sé il profumo della terra appena arata: profumo di terra rossa, che non se ne trova un altro eguale”
Oggetto di desiderio e di privazione, la terra è la grande protagonista di Materada, un romanzo di frontiera ambientato nell’Istria del dopoguerra, da poco assegnata alla Jugoslavia. Qui, in un paesino di campagna (Materada), si consuma l’amara storia dei fratelli Coslovich, Francesco e Berto, due contadini che pur avendo trascorso l’intera vita al servizio dello zio non ricevono nulla in eredità, se non una terra appena confiscata dal nuovo regime comunista. Caduti nell’imbroglio, i due faranno il possibile per ottenere quanto gli spetta, ma dovranno chiedersi fino a quale punto sono disposti a spingersi per avere giustizia.
Sullo sfondo di questa intricata trama familiare si staglia lo sconsolato quadro di un’Istria che giorno per giorno va svuotandosi, con le strade piene di camion traballanti di povere masserizie diretti verso Trieste. Pochi, infatti, scorgono un futuro roseo in quella terra martoriata e dimenticata dal mondo, in cui usurpazioni pubbliche e private si intrecciano e dove i torti arrivano come fendenti non solo dai nuovi dominatori, ma da tanti compaesani che in una situazione precaria e bizzarra rispetto al passato preferiscono guardare unicamente al proprio particolare. La rassegnazione raggiunge quasi tutti, compresi gli spiriti più forti, e l’Italia, anche se non tornerà mai più, è troppo vicina per non rappresentare una tentazione agli occhi di chiunque desideri trascorrere una vita diversa.
Inserita in questo contesto, la vicenda della famiglia Coslovich, con il suo carico di ingiustizie ed egoismi, è a ben vedere una parabola del più ampio dramma che attanaglia la povera gente di Materada e delle altre città dell’Istria, dove l’unico modo per non rimanere schiacciati dalle iniquità della storia è partire, lasciare alle spalle i luoghi di una vita (e con essi la terra, la casa, la giovinezza), nella speranza di trovare fortuna altrove, come traspare chiaramente nell’ultimo, intenso dialogo tra Francesco Coslovich e Barba Nin, il vecchio del paese: “Va” mi disse “a cercare la tua fortuna. Qua essa ti ha lasciato; e tu corrile dietro”.
Il libro contiene pagine di commovente poesia, come quando il protagonista Francesco, in fila al municipio per consegnare la domanda di espatrio, immagina come avrebbe potuto essere la vita sua e dei suoi figli a Materada, o come in uno degli episodi finali in cui gli esuli, impastata la voce di vino, esorcizzano il dolore per la partenza in canti alla città e alla gioventù ormai passata.
Se alcuni passaggi di Materada fanno brillare gli occhi, tuttavia, non è certo per una retorica più o meno alta (di cui il romanzo appare in realtà privo), ma piuttosto per l’abilità narrativa di Tomizza nel trasmettere con realismo la tragedia dell’esule, stretto tra affetti ancestrali e necessità di vivere, e chiamato infine alla dolorosa e ineludibile scelta.
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Cara terra mia
“Da quando mi ricordo, qui da noi sono venuti dapprima gli austriaci, poi gli italiani, dopo i tedeschi; infine siete venuti voialtri. Tutti se ne sono andati, ed erano più forti di voi. Io stesso ho visto cadere prima l’aquila, poi il fascio e la croce uncinata. Perché un giorno non dovrebbe cadere anche la falce e il martello?”
Con questo interrogativo Francesco Kozlovic’ sfida il potere, la prepotenza, l’ingiustizia, semplicemente presentando la verità storica che anche un umile colono è in grado di constatare: Materada è terra di confine, terra schiava, terra bella e meravigliosa ma destinata ad essere posseduta. Qui il secondo dopoguerra sancisce l’ennesima beffa dei territori spartiti e condanna gli uomini ad una scelta improbabile, innaturale, una seconda vita e una seconda anagrafe. Il contadino di Materada, pur povero e vessato da uno zio imbroglione che lo ha reso nullatenente, dovrà fare anch’egli quella dolorosa scelta, dovrà ponderare bene il destino dei figli, dovrà decidere se mantenere saldo l’atavico legame con la terra, patria e suolo da coltivare, o salutare gli avi sepolti nel cimitero.
Non una riga di questo romanzo si abbandona al lirismo, non una pagina porta alla commozione dell’animo, né un intero capitolo si veste di pianto, eppure con una prosa asciutta, secca, viva e sincera ci si ritrova a patire per il destino di quelle genti, a comprenderne le ragioni, a sperare per loro. Vi sono delle pagine, soprattutto da metà opera in poi, che è difficile abbandonare e, a lettura ultimata, rimane forte nel cuore il sentimento della vita: sincero e pulito, senza fronzoli come la prosa di Tomizza.
Vivamente consigliato.
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La messa senza prete
Un requiem funereo serpeggia tra le pagine di Materada, aggredendo il lettore ora nell'istintualità della folla , fagocitata dal liquido amniotico di una ristretta realtà contadina, incapace di opporsi in virtù di un'ideologia, ma soltanto merce da bistrattare e sfruttare per scopi propagandistici, ora nelle processioni compiante d esuli forzati, abbagliati dal sogno di un'Italia culla di possibilità e di ricchezza, ora nel malinconico abbandono al ricordo, al passato, non più riottenibile, ma non per questo meno tormentoso. Un requiem che è pure musica, melodia, scarnificato nello stile diretto, brutale, crudo e doloroso, o che si evolve nell'estatica celebrazione della terra, della proprietà che è in definitiva possibilità per i figli. Perchè, e Tomizza sembra suggerirlo, il desiderio di possedere è connaturato all'uomo, ma la vera questione è: fino a che punto è in grado di subordinare a sé la dignità umana, il rispetto per l'uomo, fino a che punto l'attaccamento morboso alla terra è capace di ancorare i contadini nella dimensione dell'ignoranza vigilata, custodita con gelosia dalle autorità?
Eppure Materada non è solo questo, non è il campo di battaglia della rassegnazione, contro l'accettazione o contro la ribellione, come invece accade in Silone: è il racconto epico, e nello stesso tempo straordinariamente umile, della povera gente, in grado di analizzare con impressionante acutezza i motori eterni di una mondo contadino che balena fragile tra rancori, odi e vendette, a cui sottende quella malignità genuinamente paesana che è mostro silenzioso, fatto di sussurri, eppure palese, immobile nel ricordo ossessivo di offese ataviche, che come una maledizione ineluttabile si scagliano sui figli, e sui figli dei figli. Sullo sfondo i contrasti tra Jugoslavia e Istria, ancora qui per la terra, scontro di autorità che pure ricorrendo alla violenza, incatenato nell'interesse delle alte gerarchie del potere, si ripercuote nel villaggio di Materada, e nel contrasto esemplare della famiglia Kozlovich in balia dell'arroganza e dell'ostinata tenacia di un vecchio zio, che è il simbolo di una mentalità contadina basata, in ultima istanza, sul profitto personale, e inevitabilmente, sul disinteresse verso gli altri. Ed ecco che la terra non è più la "roba" di Verga, quanto invece il ricordo romantico, quasi foscoliano, della patria, del luogo natio, smembrata eppure anelata, graffiante eppure fertile. E proprio questa tensione, che è in definitiva ricordo autobiografico, si scoglie in un amore che è ultimo disperato tentativo di sconfiggere la dissoluzione delle norme sociali, e il cambiamento, visto con sospetto; un amore che è fiamma debole, e si spegne nella passione divoratrice di un passato a cu non si vuole rinunciare.
Con una messa senza prete si chiude il libro, esito di un requiem funebre che ha ormai consumato se stesso. E l'uomo è un fedele in balia del destino, capriccioso eppure insostituibile, incapace di opporsi ad esso né affidandosi a se stesso, né ad un'autorità superiore (il prete, forse lo stato, forse addirittura Dio). E forse l'uomo si compiace anche del dominio della sorte, a volte ti colpisce e "prendere una sberla non fa male in certi casi: a volte si sente di non dovere più niente a nessuno".
E al termine del cambiamento, quando la decisione definitiva è presa, quando il dover abbandonare la propria terra è quasi imposizione del caso, rimane soltanto da seppellire i ricordi. "Addio ai morti".
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L’epica della povera gente
Dice bene Claudio Magris quando scrive, a proposito di Materada (il primo romanzo di Fulvio Tomizza),: “Quando uscì nel 1960 “Materada” – il primo e ancor oggi miglior romanzo dell’allora giovanissimo e sconosciuto Fulvio Tomizza – arricchì di una nuova e forte pagina la poesia della frontiera, delle sue lacerazioni e della sua unità;….Il mondo da cui nasceva “Materada” - l’Istria nel momento dell’ultimo esodo, nel 1954 – era un mondo realmente straziato dai rancori, torti e vendette sanguinose fra italiani e slavi e Tomizza l’aveva vissuto e patito.”.
Materada è un piccolo borgo vicino alla più grande Umago, in una terra di frontiera, questa dell’Istria, punto d’incontro di tante etnie (Italiani, Slavi e Croati), nei secoli assoggettati alla Repubblica Veneta, all’Impero Austro-Ungarico, all’Italia e infine inglobati nell’allora nascente Jugoslavia.
E’ una terra aspra, ricca di contrasti, che si riflettono anche nei suoi abitanti, perennemente diffidenti, e non solo a livello di etnie, ma anche all’interno di ciascuna di esse, in forza di quella precarietà del proprio luogo di vita che tutto condiziona e tutto contrappone.
Al termine dell’ultima guerra mondiale, dopo lunghe trattative diplomatiche, a seguito del Memorandum di Londra si definì un nuovo assetto territoriale che assegnò alla Jugoslavia gran parte della Venezia Giulia (in pratica quasi tutta l’Istria e le terre ad Est di Gorizia) dando luogo a un massiccio flusso migratorio dell’etnia italiana verso il nostro paese.
Tomizza, che visse quei periodi, di questo parla in Materada, un romanzo corale, per quanto incentrato sulla famiglia Kozlovich, in cui si riflette l’esperienza personale dell’autore. E’ un’opera in cui speranze, delusioni e rassegnazioni si avvicendano, emergono, si assopiscono, ritornano. E’ palpabile lo stato d’animo degli italiani, l’emarginazione nei loro confronti del regime comunista di Tito, un intreccio di storie di tanta povera gente la cui unica e ultima scelta è di restare, perdendo la propria identità nazionale, o andarsene verso l’ignoto, un’epopea di un esercito di straccioni alla ricerca di una patria definitiva. E in questa storia se ne insedia un’altra, quella della rivendicazione della famiglia Kozlovich della terra dello zio, sulla quale hanno lavorato e dato il sangue, perché la terra deve essere di chi la lavora. La figura del vecchio parente, attaccato alle sue proprietà, gaglioffo, sfruttatore per istinto sembra rappresentare l’onnipotenza di chi ha la forza, è la stessa protervia che ha diviso, smembrato, sradicato la popolazione italiana dell’Istria. Si parla di confini come espressione geografica, ma i politici e i diplomatici nulla sanno, oppure vogliono ignorare, i diritti delle genti che là nascono, vivono e muoiono.
Il romanzo è spesso crudo, la narrazione è pure sofferta, ma il ricordo della propria terra, quando riemerge, è autentica poesia, che raggiunge anche vertici sublimi, come nelle ultime pagine, con quella messa senza prete in cui tutti si ritrovano prima della partenza.
Materada è semplicemente stupendo.