Marianna Sirca
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Marianna Sirca
Risale al 1915 la pubblicazione di “Marianna Sirca”.
I protagonisti delle opere della Deledda appartengono sempre a classi sociali ben definite e distinte, impermeabili tra loro; padroni e servi costituiscono una costante, ma in questo romanzo appare un'ulteriore “specie”, il bandito.
Argomento funesto quello del banditismo, fenomeno strettamente radicato tra le pieghe dell'aspro territorio sardo, di cui l'autrice fornisce un volto ed un nome.
Il bandito non è solamente un ricercato, un uomo relegato alla clandestinità e al compimento di azioni contro legge, è un uomo che brucia di passioni, che lancia una sfida al destino per liberarsi dal giogo di una vita da esiliato.
Il volto del bandito è quello di Simone Sole, il cui cognome cozza contro le tenebre scese sulla sua vita.
Il volto della giovane donna piegata alla volontà impostale dalla famiglia possidente è Marianna, vittima di un ruolo e di consuetudini sociali che esaltano la smania di ricchezza a scapito della felicità.
Due personaggi nitidi come scatti fotografici, espressione di un realismo narrativo suggestivo e coinvolgente, due vite che cercano il riscatto, che lottano con fermezza per strappare al fato un briciolo di fortuna e di amore.
La solitudine è palpabile e spessa come una cappa, toglie il fiato e ammutolisce il lettore.
Solitari i cuori così come le lande silenziose del nuorese, percosso dai gelidi venti invernali ed imbiancato da candida neve.
Un romanzo in cui l'elemento naturale è parte integrante della narrazione, giungendo a fondersi con gli stati d'animo e gli umori dei personaggi, creando un flusso di immagini ed eventi in stretta simbiosi.
Con “Marianna Sirca” Grazia Deledda conferma le sue doti narrative raccontando una storia che arde di passioni, che anela gioia, che spezza le catene del pregiudizio verso certa umanità, che parla di un territorio ruvido e percorso da forti contrasti.
Capolavori le pennellate di colore, le sensazioni olfattive persistenti, gli struggimenti emotivi e gli immancabili colpi di coda del destino.
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Amore sincero ed orgoglio profondo
Grazia Deledda rimane ancora oggi la prima - e, purtroppo, l’unica - italiana vincitrice del Premio Nobel per la letteratura. Una voce a parte, non solo per la “sarditudine”, ma per la particolarità e l’originalità della sua scrittura e del suo stile, che la rendono refrattaria ad ogni tentativo di inserirla in una qualche corrente letteraria dell’epoca.
Nè verista, nè decadente, ma sarda… sarda e basta. Come scrisse all’editore Trèves di Torino quando era ancora una ventenne piena di ambizioni e sogni, a trent’anni avrebbe desiderato diventare la prima scrittrice di “letteratura interamente sarda”.
Una voce a parte, dunque: Grazia Deledda vinse il Nobel, con grande disappunto di tanti scrittori tra cui Pirandello (Nobel quasi dieci anni dopo), perché non aveva alle spalle studi regolari: la scrittrice aveva frequentato la scuola fino al quarto anno della primaria, aveva avuto un insegnante privato e poi aveva studiato interamente da autodidatta. Non era considerata, dai circoli intellettuali e letterari dell’epoca, una scrittrice colta, meritevole del più prestigioso riconoscimento alla carriera.
La letteratura è vocazione precoce per la scrittrice, un richiamo irresistibile lo testimonia la prolificità della sua produzione, di cui il romanzo “Marianna Sirca”, pubblicato nel 1915, è esempio di motivi e temi che ne sono alla base.
Marianna Sirca è personaggio femminile molto forte, orgoglioso, una vera dominatrice.
Trascorsa la fanciullezza e la giovinezza al servizio del ricco zio sacerdote a Nuoro dove i genitori l’avevano condotta in vista della succosa eredità e dove era trattata peggio che una serva, a trent’anni torna nella “tanca”, nell’ appezzamento di terra del padre, ricca, trentenne, completamente ignorante in questioni amorose.
Lì incontra Simone Sole, un giovane che era stato servo dei genitori di lei, ora divenuto brigante, allo scopo di vivere in libertà: è amore a prima vista. Lui le confesserà che da ragazzino la odiava sapendola più ricca di lui, sapendola destinata a un matrimonio favorevole, laddove le sue bellissime sorelle, perché poverissime, non avrebbero potuto sperare in nessun avvenire che non fosse la reclusione in casa interrotta da qualche messa.
È subito amore adesso, al primo incontro.
“Egli sarebbe tornato. Le aveva messo un anello intorno al polso, di cui non era facile liberarsi. E di nuovo lo rivedeva nell’atto di guardarla tutta con uno sguardo intenso come la carezza di una mano amorosa; e sollevando gli occhi, nel buio, arrossiva sul suo guanciale come se il viso di lui pure intraveduto nel sogno che non ha consistenza, si accostasse al suo e il battito delle loro tempia si confondesse in un battito solo. (…) E il pensiero che il demonio le fosse davvero penetrato nell’anima e nel corpo sotto forma di Simone, le diede un senso di angoscia e di vergogna”.
Mai dimenticare che lei è la padrona e lui è il servo. Lo stesso Simone è combattuto nonostante l’intensità dei sentimenti che prova per lei: lui, un brigante, si innamora? E di chi? Della donna che ha sempre detestato quando era un ragazzino!
Marianna Sirca è una storia di un amore profondo e sincero, ricambiato, ma anche di orgoglio: Marianna sfiderà le convenzioni, gli ostacoli sociali per realizzare quel loro impossibile sogno d’amore, ma non rinuncerà mai all’orgoglio.
La protagonista è un personaggio forte che si erge su tutti gli altri maschi della vicenda, fa valere la sua volontà su quelle del genitore, del cugino Sebastiano e sui consigli della serva Fidelia.
È testarda e terribilmente orgogliosa. E l’orgoglio ha un prezzo altissimo da pagare.
L’altra protagonista della storia, come per tutti i racconti e i romanzi più maturi della scrittrice, è la natura aspra ed arsa della terra sarda.
Una natura umanizzata, descritta non senza picchi di lirismo autentico: gli alberi sembrano sussurrare, le ombre minacciare, angoli di roccia custodiscono segreti ancestrali.
“Dapprima fu il monte d’Oliena, bianco, fatto d’aria, poi i monti di Dorgali a destra e quelli di Nuoro a sinistra, azzurri e neri; e d’un tratto tutto l’orizzonte parve fiorire di nuvole d’oro. Era la luna che spuntava.
E subito al velo d’oro che si stese dai monti alla Serra parve sovrapporsi un altro velo, una rete di perle che tremava sopra tutte le cose e le rendeva più belle, più vive nel sogno. La foresta rideva nella notte, eppure le foglie che cadevano dagli elci parevano lagrime. Erano gli usignoli che cantavano”.
La Deledda ha traghettato la Sardegna, il suo mondo mitico in Europa e nel mondo, facendola diventare l’archetipo di ogni luogo dove si consumano i drammi dell’umanità.
È d’obbligo ricordare che la recente critica delle varianti ha riconosciuto l’indiscutibile apporto della scrittrice alla storia della nostra lingua e della nostra letteratura: confrontando i testi autografi e le correzioni delle edizioni a stampa, è impossibile non riconoscere l’importante lavoro di rielaborazione, di trasposizione del microcosmo sardofono nel codice letterario di riferimento che era la lingua e la letteratura della penisola. È immenso il lavoro della Deledda: nei suoi romanzi migliori - e Marianna Sirca lo è - è riuscita e fondere codici diversi: uno orale, ancestrale, sardofono a quello scritto, di tradizione toscana, che era la letteratura italiana post unitaria.
Un merito che non le viene quasi mai riconosciuto.
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L'amante del bandito
“Ella rabbrividiva. Le sembrava di aver le gambe pesanti, come da ragazzetta quando l’avevano costretta a calzare le scarpe alte nuove, e desiderava andare a piedi nudi, ritornare scalza, ritornare bambina.”
Marianna Sirca e Simone Sole sono due personaggi apparentemente liberi, che hanno conquistato con fatica questo status. Lei, una donna ormai benestante, senza vincoli familiari, forte della sua solitudine e indipendenza. Lui, un bandito, un fuorilegge che non deve rendere conto a nessuno, soltanto, eventualmente, alla propria coscienza.
Entrambi sono arrivati a questo punto delle loro esistenze non senza sofferenza, non senza aver faticato e attraversato un cammino difficile. Marianna è stata mandata, ancora bambina, a vivere con uno zio prete; ha dovuto rinunciare al calore di una famiglia, alla spensieratezza, alla giovinezza. Simone ha deciso di intraprendere la vita del bandito per estrema insofferenza nei confronti della sua condizione di servo, per il senso di ingiustizia e di rivalsa che gli esplodeva dentro con la consapevolezza di essere completamente misero e senza speranze di emancipazione. Entrambi pensano di essere liberi e padroni del proprio destino finché non si innamorano. Sarà questa passione che svelerà loro che invece liberi non lo sono: sono assoggettati alle regole e alle convenzioni sociali. In particolare Simone, che per sfuggire alla propria condizione è deliberatamente uscito dal contesto legale, se vuole ora riappropriarsi dei diritti che spettano a chi sta dentro alla società civile, come sposare una donna, deve per forza scontare una pena, deve perdere la sua libertà e la sua indipendenza ed affrontare il carcere.
Un romanzo molto lineare nella trama, dalle splendide descrizioni, con il quale Deledda si confronta con la figura del brigante. Ne viene fuori una narrazione lontana sia dal verismo sia dai cliché letterari che presentavano la figura del brigante come avvolta in un’aura romantica e mitica. Qui il protagonista maschile non ha niente dell’eroe; diventa un bandito per sottrarsi ad una condizione di miseria, ma non è un fuorilegge particolarmente cattivo, è solo un ragazzo che cerca di tirare avanti in modo illegale ma non facendo troppo male al prossimo. Quando dovrebbe mostrare davvero coraggio e fare una scelta di vita coerente con i suoi valori, non ce la fa, non ci riesce.
Marianna invece è una figura femminile forte, una donna che difende la sua indipendenza ed emancipazione – ricordo che il romanzo è datato 1915- anche se alla fine deve per forza accettare anche lei la realtà di quel tempo e le regole di quella società.
Buona lettura.
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La signora ed il brigante
“Ascolta chi ti vuol bene” le ripetono da sempre.
E lei fin da piccina e’ abituata ad ubbidire, destinata ad una vita da servetta nella casa dello zio possidente, auspicando di beneficiare della cospicua eredita’.
Un giorno tutto questo sarà tuo, le dice quel buon uomo del padre, mentre lei lascia scivolare le palpebre sui suoi grandi occhi placidi e bambina si addormenta nella culla di una morbida conca del pascolo sardo, per svegliarsi ormai trentenne. Adulta e ricca, ma sempre piu’ sola, pronta a sfidare le convenzioni ammaliata dal primo sguardo d’amore.
Signori e servi, briganti e pastori, la vicenda è piacevole ma riscontro un pregio particolare nella descrizione ambientale. E’ una regione arcaica, aspra e selvaggia quella in cui conduce Deledda e lo fa con lo stesso passo che una madre avrebbe nel raccontarci – satolla d’amore- il figlio neonato, vedendo ciò che noi non vedremmo.
Intensi sono i profumi della tanca, il rigido inverno che si accanisce sul bestiame stremato ed affamato, pane bianco pane nero e grandi grappoli di uva dorata, la ruvida e buia roccia delle grotte in cui si rintanano i banditi, cascate isolate e specchi d’acqua cristallina in cui la luna ama ammiccare prima dell’alba.
Sfumato da pennellate poetiche, l’entroterra sardo e’ narrato in un’infusione di grazia ed affezione, immobilità fuori dal tempo che mi ricorda l’approccio di Kawabata alle sue amate immagini giapponesi.