Maria di Isili
Letteratura italiana
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Io sono stata Maria
A Isili il tempo non passa, ma le generazioni sì.
Si avvicendano, mentre il profumo di avena selvatica resta. Come la speranza delle giovani donne di avere un destino migliore.
A Isili gli uomini lavorano e bevono, spesso si ubriacano; possono avere profondi occhi neri e la bellezza perversa dei predatori. A Isili le donne imparano a vivere, a sentire le pulsazioni di un corpo che va incontro alla fertilità.
La terra arde, a Isili, alza polvere, si lascia percorrere da uomini e animali... come da uomini animali. La stessa terra dove trovano casa i papaveri viola, quelli che piacciono a Maria.
Maria si è persa: per Antonio Lorrai, che ai possedimenti terrieri di famiglia ha preferito un carro pieno di pentole di rame con cui girare la Sardegna. Ha “rapito” Maria in una notte maledetta, dopo aver lasciato il suo seme nel grembo della sorella Evelina. Ha provato ad amarla, Maria. Ci ha provato.
Maria di Isili ha una colpa destinata a pesare su donne, uomini, madri e bambini, alcuni ancora non nati...
Esordio notevole quello di Cristian Mannu, vincitore nel 2015 del premio Calvino (il più importante premio italiano per autori esordienti) e pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Giunti.
Un libro fatto di voci in grado di raccontare, ciascuna, un frammento di quel che è accaduto (secondo la lezione dei “punti di vista” che al cinema è stata di Kurosawa): ad ognuna un capitolo. Parla Salvatorica, la nutrice, degli occhi azzurri di Maria appena nata; poi la stessa Maria del suo destino mutato a sedici anni. Rosaria, la madre, confessa d'esser più simile a sua figlia di quanto non sembri; mentre Michele, il padre, da quella figlia si reputa distrutto. La voglia di scegliersi la vita ha determinato la sventura di Antonio, mentre il suo amico Giovannino, l'ha visto disfarsi. Parla Sergio, il secondo marito di Maria, dei suoi desideri d'amore e di rivoluzione, spazzati dagli eventi; mentre Teresina ricorda i sacrifici dell'amica nel reinventarsi fuori da Isili. Infine Evelina, giunta alla fine della sua vita dopo aver diviso la giovinezza con la sorella che un giorno le portò via un marito... Evelina che riesce ugualmente a dispensare tenerezza per una nipote mai conosciuta.
Pura polifonia dei sentimenti.
In un cerchio che si chiude con l'ultima voce, una nuova Maria, una possibilità di riscatto in una storia dolente.
Forse servono gli sbagli di generazioni per far sbocciare una vita migliore, quella di una donna che riappacifichi i Piga di Isili con la loro storia familiare, riportandola su un sentiero di speranza verso quel che sarà. La speranza che, un giorno lontano, fu anche di Maria di Isili.
Resta la Sardegna sullo sfondo, la Sardegna di profumi e silenzi, come undicesima voce che attraversa ogni capitolo, come unico panorama possibile di una storia così fragile e dolorosa. Comunque la storia che Maria scelse per sé.
“Fu lei a portarmi alle vigne. Fui io a non saper resistere quel 6 di settembre. Fummo in due a volerci scambiare l'amore. Fu l'odore dell'uva matura o il profumo leggero delle sue vesti, fu l'alloro o la cenere calda o il sudore e la terra, fu un intreccio di spiriti e carne. Fu l'amore come mai riprovai in vita mia. Fu leggero come carta che rotola lieve sopra il dorso di nuvole. Fu respiro intrecciato e poi unico, che mai è ritornato.”
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Occhi di luna senza cielo
Maria. Sedici anni. Occhi azzurri, che così azzurri in paese non si erano mai visti e non si capiva nemmeno da dove fossero usciti, occhi per sognare un futuro diverso. Mani affusolate, da principessa, capaci di intrecciare al telaio arazzi con fili di lana e rame, mani per tessere illusioni d’amore. Un vento di speranza, coraggio e audacia, ad animarla e sospingerla verso quegli occhi neri, quella voce possente, quell’espressione arrogante. Verso il marito di sua sorella.
L’ingenuità della giovinezza e la forza della passione non impediscono di sbagliare, di scivolare, di cadere. E’ un attimo. Una giornata di settembre. Il viola degli acini d’uva. Il profumo delle foglie di vite. E non si torna più indietro.
Nell’inseguire la libertà si finisce così in una prigione senza sbarre in cui a impedire ogni movimento è solo la miseria e la durezza della vita. Case popolari in squallidi quartieri, figli che non puoi coccolare e nemmeno tenere con te, scale da spazzare con le tue mani delicate e calze da rammendare alla luce giallognola di una lampadina, un amore annegato nella banalità del gioco e dell’alcool, alla ricerca di un riscatto impossibile.
Cristian Mannu affida ogni capitolo a un personaggio, una voce diversa per raccontare un pezzo di questa storia di vita e di morte. Parole sgrammaticate e dialettali, quelle della vecchia levatrice, a ricordare la giovane Marriedda, bella e innamorata. Parole intrise del risentimento feroce e rabbioso di un padre tradito. Parole di dolore, il dolore folle di una madre che si rende conto di non aver fatto nulla per proteggere le proprie figlie dai suoi stessi errori.
Ma questa non è solo la storia di Maria. E’ la storia senza tempo di un’umanità in cui nessuno si salva dalle colpe, dai tradimenti compiuti o subiti, pagati con una dolorosa solitudine che si tramanda di generazione in generazione come un’amara e implacabile eredità. E’ la storia di una Sardegna dura, che non offre scampo, in cui “muori come nasci”. Il vento soffia piano di notte raccontando fiabe profonde e sofferte e le radici di cui hai bisogno, per poter crescere forte, ti tengono ancorato a una terra aspra e brulla. E’ il terreno dell’anima. Perché questa storia è tutta giocata su un piano interiore e le voci di Mannu fanno emergere emozioni forti, malinconie e dolori capaci di entrarti nel cuore. E lacerarlo con la loro forza e la loro poesia.
“Quella notte ho capito come si sente una quercia privata della sua corteccia. Ti vola via l’anima. E non torna più indietro. E se la notte si alza il maestrale, il tuo corpo è solo un brivido di freddo e buio. E tremi. E piangi. Per tutto il resto della vita ho vissuto come corteccia, aggrappandomi ai muri e barcollando. Corteccia malata, la mia, e traballante. Occhi azzurri e piangenti. Occhi di luna senza cielo.”
Indicazioni utili
Maria
Maria di Isili è una donna coraggiosa. La sua colpa è quella di aver amato, di aver provato un sentimento per l’uomo sbagliato, di non aver deciso di rinunciarvi seppur costui fosse il marito della sorella Evelina. Aveva 16 anni Maria quando ha incontrato l’amore della sua vita, quello “zingaro”, Antonio Lorrai di Silìus, in realtà rampollo di buona famiglia che aveva rinunciato alle comodità per girare per la Sardegna con un bagaglio caratterizzato dalle sue pentole, dalla sua libertà e dalla passione per le donne. E quante ne ha avute di donne, quante ne ha conquistate e quante ne ha abbandonate! Costretto ad un matrimonio non desiderato, a sua volta non ha saputo resistere a quegli occhi blu, a quella bellezza unica, a quei seni piccoli e sodi, ai quei fianchi torniti, e come dimenticare quelle vigne e quella data, il 6 settembre….
Vincitore del Premio Calvino 2015, “Maria di Isili” è un’opera che si rivolge direttamente al lettore alternando la voce narrante e raccontando quella che è la realtà di quattro generazioni; quella dei genitori delle due sorelle, quella di queste ultime, quella dei loro figli ed infine quella dei nipoti delle stesse. E’ un romanzo intriso di tradizione, di malinconia dei tempi che furono e di quelli che ormai non arriveranno, è un volume di riflessione sulla propria vita, su quelle esistenze che si sono susseguite negli anni, ma è anche un libro che sprona a ricercare quelle radici che sono un bisogno, una necessità costante in queste famiglie distrutte dal passato, dai pregiudizi, dalle voci, dalle maldicenze, dalla mentalità retrograda di paese.
Dal punto di vista stilistico Cristian Mannu non delude, accarezza l’anima di chi legge, gli sussurra con delicatezza questa storia mediante una scrittura calda, erudita, una prosa poetica, una penna unica. Una piccola perla che merita sinceramente di essere letta.
«Volevo che i nomi parlassero, ricordassero, volevo che le mie figlie avessero un albero con le radici, anche se storte, ma volevo che lo avessero, loro, questo benedetto albero, queste benedette radici, e che lo sapessero disegnare, sena doverselo inventare come avevo fatto io, e che potessero mostrarlo alle loro di figlie e alle figlie delle loro figlie»