Le otto montagne
Letteratura italiana
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Ritrovarsi, riconoscersi, scegliersi
Scambio di emozioni, amicizia che è fratellanza, senso di appartenenza e istinto di fuga, reciproca solidarietà, accettazione, stupore, legami… è ciò che ho sentito durante questa lettura.
Dice Paolo Cognetti: “E’ un romanzo che parla di due amici e una montagna, che non è solo neve, dirupi, creste, torrenti, laghi e pascoli, bensì un modo di vivere la vita, un passo davanti all’altro, silenzio, tempo e misura.”
Ambientazioni e personaggi mi sono apparsi ben descritti.
La linearità del racconto anche. Seguiamo i protagonisti da un certo momento nel loro tempo fino ad un altro. Di alcuni sapremo cosa accadrà, per altri possiamo solo immaginarlo.
L’incipit è dedicato a Giovanni Giusti, questo padre “ostinato” ad andare sempre più su, finché più su in montagna non si può più andare ma solo ridiscendere “a rotta di collo.” Nel dubbio prendere sempre la strada che sale, superare chi ci precede. Vietato fermarsi per bere, lamentarsi, riposarsi o per il freddo o la fame. La sua ossessione per i ghiacciai.
Pietro racconta che, avrà avuto sei o sette anni, una mattina si è fatto trovare vestito di tutto punto dal padre e gli ha detto “vengo con te.” O forse questo è ciò che al padre piace ricordare.
La madre è una figura che può apparire secondaria ma io l’ho amata molto. Lei che ama rendere accogliente persone e cose che la circondano. Quando arrivano nel paese di Grana ridà vita alla vecchia stufa non accesa da tanti anni, riempie di fiori le finestre, riaccende i fornelli e mette a scaldare il latte osservando, con una coperta sulle spalle a proteggersi dal freddo, insieme a Pietro, il latte che fuoriesce dal bricco, brucia i fuochi e il fumo che invade la cucina.
Dice che in montagna ciascuno ha la sua quota, quella si sente di star bene e dove può stare. Per lei sono i 1500 metri, dei rododendri, abeti, mirtilli, ginepri e caprioli. Per Pietro è un po’ più su, dove ci sono pascoli, erbe e torrenti. Per il padre ancora più su, verso i 4000 dove compaiono i ghiacciai, la vegetazione scompare e la montagna si fa ostile e aspra.
Bruno che guida le sue mucche verso la stalla con quel verso, dice eh, eh, eh, oh,oh,oh…sarà quel verso che aiuterà Pietro a ritornare verso casa, ritrovando l’equilibrio perso al crepaccio, e quello stesso verso se lo diranno reciprocamente, in futuro, per richiamarsi, per dirsi, io ci sono, anche io.
La loro amicizia ha un’intimità che non creerà loro mai imbarazzo, neanche quando Pietro gli si aggrappa sulla schiena, in moto, insieme.
Pietro e Bruno, è il 1984 e hanno 11 anni. Inizialmente si osservano, nessuno fa il primo passo. Fino a quella mattina a colazione quando Bruno gli dice seguimi, andiamo. E Pietro va.
Sembra non accadere nulla, ma invece di cose ne accadono tante. Ciascuno prenderà la propria strada.
Pietro che va, Bruno che resta.
Sul muro la cartina geografica attaccata con le puntine, tre colori tracciati con il pennarello. Nero per il padre, rosso per Pietro, verde per Bruno. A volte il nero cammina da solo, altre volte cammina con il verde, altre con il rosso, raramente camminano tutti e tre colori insieme. E’ un’immagine che dice tantissimo e che mi ha molto commossa. L’autore riesce a raffigurare perfettamente questo momento. Mi sembra di vederli, ora che leggo, camminare e camminare.
E’ un racconto di nostalgia e di rimpianti ma con leggerezza, c’è solo un velo di malinconia. Il tono non è mai sdolcinato, mai piagnucoloso, è una narrazione di suggestioni. Non ci sono pagine solo per riempimento, mi pare un racconto bilanciato e misurato che evoca ricordi per risvegliarne altri.
Tra questi due amici, Pietro e Bruno, c’è un filo che li unisce e si tende all’infinito quando Pietro va e Bruno resta. Ma poi lo stesso filo si riavvolge. Sempre a Grana, sempre in quelle montagne del Grenon che sono anche le montagne di Pietro. Si ritrovano sempre. Come se non si fossero mai lasciati davvero. Anche ora che di anni ne sono passati tanti sa quel loro primo incontro.
La storia delle otto montagne narra che il mondo è raffigurato come un cerchio, al centro un monte altissimo, il Sumeru, e intorno otto raggi che sono otto mari e otto montagne.
Ha imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato sulla vetta del Sumeru?
Buone prossime letture.
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Grana, una filosofia della vita
Pietro in estate è solito andare in vacanza in montagna con la sua famiglia nel paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa . Sin da piccolo il padre lo porta sempre con sé a scarpinare per sentieri e a raggiungere la cima. Mentre il padre è eccitato e orgoglioso di queste imprese, Pietro si sente annoiato e immotivato, ma fa presto amicizia con Bruno un ragazzo del luogo e con lui esplora un nuovo modo di conoscere la montagna, spericolata e avventurosa, quella con gli occhi di ragazzo. Bruno diventa uno di famiglia e spesso scalano insieme anche al papà di Pietro.
Quando però Pietro raggiunge l'età dell’adolescenza sceglie di non seguire più il padre e visto che Bruno è impegnato a lavorare, lui inizia ad andare in montagna con altri amici e scopre che gli piace arrampicare più che camminare. Da quel momento le loro strade si dividono. Pietro si stanca di andare in montagna col padre e rinuncia completamente alle estati a Grana, e Bruno prenderà il suo posto.
Anni dopo il padre di Pietro muore all’improvviso accasciato nella sua macchina per un infarto. Pietro ha ormai intrapreso la sua strada di documentarista e gira per il mondo, ma deve tornare per l’eredità , il padre infatti gli ha lasciato un terreno in montagna ,”Eccola li, la mia eredità: una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati, un pino “. Così torna al luogo delle sue vacanze giovanili e riprende l’amicizia con Bruno, e insieme su quel terreno impervio costruiscono una piccola baita in onore del padre che useranno poi entrambi come rifugio d’estate e d’inverno.
Il romanzo di Cognetti è una bella storia d'amore e di amicizia: un grande amore per la montagna con tutte le sue insidie, e la grande amicizia tra Pietro e Bruno.
«Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.»
Secondo i nepalesi, al centro del mondo ci sarebbe una montagna altissima, il monte Sumeru, e intorno al Sumeru otto montagne e otto mari, disposti come i raggi di una ruota. La domanda che si pongono i nepalesi è: “Chi impara di più? Chi fa il giro delle otto montagne o chi arriva in cima al monte Sumeru?”.
Ed è proprio la risposta a questa domanda che ci fa capire le differenze tra Pietro e Bruno.
La storia è semplice, autobiografica ma intimistica e coinvolgente. Tre uomini differenti con un’unica passione , la montagna. Uno, il padre, che ama sfidarla, un altro, Bruno che la ama perché è l’unico luogo che conosce e dove vuole stare, e Pietro che la ama così tanto “che da lì mi era nato il desiderio di vedere le più belle e lontane del mondo.”
Grana per loro è un altro mondo, lontano dalla routine quotidiana del mondo moderno, e soprattutto lontano da quel turismo consumistico che la sta rovinando:
E’ natura nella quale immergersi, è rispetto per essa è capirne il pericolo e sapere che a volte, pur essendo esperti, è solo fortuna averlo evitato. E’ il gelo della neve d’inverno, è la pioggia incessante o il sole a picco, e nonostante tutto è avere il desiderio, più che di arrivare, di godere della fatica per l’impresa e di sentire che solo così stai bene con te stesso.
E’ avere il piacere di una vita frugale, con pochi elementi, ma essenziali, in cui ti basta un tetto, un bicchiere di vino, un pezzo di formaggio e un amico vero per essere felice.
Ma anche per avere “solo” questo devi avere un contatto col mondo, ed è proprio questo che contamina tutto. Il mondo che ti aspetta là sotto è la vera insidia, il tuo vero fallimento, quello nel quale non ti sei mai integrato, al punto di abbandonarlo o di rifiutarlo;
il mondo per il quale, paradossalmente, sei fuori dal mondo.
Ma è davvero così?
Una riflessione e un interrogativo che nasce spontaneo dopo la lettura di questo libro, così semplice e allo stesso tempo con un messaggio così potente.
“Uno deve fare quello che la vita gli ha insegnato a fare. Forse quando è molto giovane, chissà, può ancora scegliere di cambiare strada. Ma a un certo punto uno dovrebbe fermarsi e dire: bene, questo sono capace di farlo, quest’altro no.”
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La montagna come metafora di vita
Le montagne come metafora di vita. Le montagne come luogo di incontri. Le montagne come entità che racchiudono segreti e ricordi. Le montagne che donano tanto, ma prendono altrettanto in cambio.
Il libro di Cognetti racconta di sentimenti, principalmente di nostalgia, rimpianti, scelte di vita.
La storia è narrata magistralmente in prima persona (stile che di solito non mi entusiasma e che invece qui ha dato sicuramente più profondità ai personaggi) da Pietro, un bambino e poi un uomo che dalla caotica Milano ha conosciuto la montagna. E con essa Bruno.
Pietro e Bruno non potrebbero essere più diversi, eppure tra loro si instaura un’amicizia che va al di là della lontananza geografica e temporale. L’uno viaggia, si sposta da Milano a Torino, dai monti valdostani all’Himalaya. L’altro non si schioda da Grana e dal monte Grenon, è attaccato a quel posto e non ha alcuna curiosità di vedere altro nella vita.
Pietro visita le otto montagne, Bruno resta nel monte primordiale.
Chi dei due sta meglio? Chi dei due ha ottenuto di più dalla vita?
Cognetti descrive le loro vite e quelle dei loro familiari così bene da renderli reali. Sono persone complesse (come tutti noi, d’altronde) che cercano ognuno a loro modo di relazionarsi con gli altri. Pietro, di cui conosciamo i pensieri, racconta il suo rapporto con la madre, quello più complicato col padre, le difficoltà che ha a confidarsi e di far confidare Bruno e, allo stesso tempo, il piacere della presenza dell’amico, senza necessariamente dover esternare i propri sentimenti. Bruno e la montagna sono un punto fisso, un posto a cui tornare, qualcosa che il padre di Pietro ha messo in piedi per lui.
Ma la vera protagonista è proprio lei: la montagna. D’estate, con gli alberi infoltiti, i torrenti, i sentieri e i rifugi per gli escursionisti, il profumo del legno, il risciacquo dei ruscelli abitati dalle trote. E poi d’inverno, con la neve, le ciaspole, gli sciatori, le slavine, il ghiaccio che invetra le rocce e ricopre i laghi, il freddo e i focolai davanti ai quali si beve la grappa.
Mi sembrava di essere lì, affianco a Pietro, a percepire l’ambiente montano e il suo stato d’animo. Ho partecipato alla sua nostalgia di casa, alla sua voglia di fuggire, al rimpianto di affetti perduti.
Quello di Cognetti è un libro intenso ed emozionante che trasporta il lettore ad alta quota.
Lo apprezzerete se non siete mai stati in montagna. Lo apprezzerete ancora di più se ci siete stati.
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L’UNICA, INFINITA ESTATE DELL’AMICIZIA
È la prima volta che mi imbatto in Cognetti, avevo più volte letto e ascoltato in giro recensioni positive su “Le otto montagne” e mi ero proposta prima o poi di leggerlo. L’approccio è stato di pura curiosità ed ho cominciato con l’audiolibro letto meravigliosamente da Jacopo Venturiero su Audible. Questa modalità mi ha permesso-apro questa breve parentesi - di continuare a leggere quando non avevo proprio tempo di aprire e tenere in mano un libro che non fosse quello per studiare e lavorare.
Se un libro ascoltato mi piace, mi butto a capofitto nel procurarmelo anche cartaceo. L’ho dunque fatto con “Le otto montagne”?
No, perchè, nonostante sia una bella storia, per certi momenti anche toccante, non l’ho ritenuto necessario, lo spazio in libreria mi costringe a procurarmi solo capolavori.
Questo romanzo si legge (e si ascolta) con estremo piacere, la storia non è banale, regge dall’inizio alla fine e la consiglio a tutti, in particolare a quelli che amano le ambientazioni di montagna, la vita di montagna e le storie di amicizia.
Il protagonista è Pietro ed è anche la voce narrante: fin da bambino passa l’inverno a Milano e in estate sale in montagna con i suoi genitori. L’altro personaggio chiave è Bruno, l’amico montanaro, che dalla montagna proprio non riesce a staccarsi e vive lì e (forse) non conoscerà mai la vita di città, perchè della vita urbana “non sa che farsene”.
Il libro segue una narrazione lineare, senza grossi flashback che non siano piccoli e brevi ricordi, e comincia dall’infanzia dell’io narrante: con brevi tratti di penna Cognetti delinea il carattere dei genitori di Pietro, ci racconta dei loro ricordi, del comune amore verso la montagna. Il papà, burbero e cupo, diventa un’altra persona quando sale in montagna, il suo vero habitat, dove riscopre se stesso e la voglia di vivere; la mamma, calma, dal carattere solare fa amicizia con tutti, sia in città che in montagna, sa farsi ben volere col suo altruismo e i suoi modi.
La vita di montagna affascina sin da subito il piccolo Pietro, che una mattina, aveva sui sei o sette anni, di buon’ora si fece trovare vestito di tutto punto pronto per accompagnare il papà nelle sue scalate.
“Io osservavo le case diroccate e mi sforzavo di immaginarne gli abitanti. Non riuscivo a capire come mai qualcuno avesse scelto una vita tanto dura. Quando lo chiesi a mio padre lui mi rispose nel suo modo enigmatico: sembrava sempre che non potesse darmi la soluzione ma appena qualche indizio, e che alla verità io dovessi per forza arrivarci da solo. Disse: ? Non l’hanno mica scelto. Se uno va a stare in alto, è perché in basso non lo lasciano in pace. – E chi c’è, in basso?
? Padroni. Eserciti. Preti. Capi reparto. Dipende.”
Le vette vengono citate da loro come se fossero familiari amati, ma lontani. In una di quelle estati della sua infanzia, Pietro conosce Bruno, un ragazzino della sua età, che vive stabilmente con la sua famiglia lassù, a Grana, ai piedi del Monte Rosa e da quel momento saranno entrambi uniti da profonda amicizia.
Ogni inverno in città sarà vissuto nel ricordo della montagna, cercata e ammirata nelle pagine delle guide del CAI, sfogliato “come diario” , Milano sarà “una nebbia di persone e automobili da attraversare due volte al giorno” in confronto al paradiso quasi perduto di Grana.
E quando, terminata la scuola, Pietro con la famiglia fa ritorno all’amato paesino, Bruno, che aveva sorvegliato i tornanti per controllare il passaggio dell’amico, lo chiama “senza salutarlo, nè niente”, come se si fossero visti il giorno prima, perchè “la nostra amicizia sembrava vivere un’unica infinita estate”.
Bruno troverà anche un soprannome per l’amico, lo chiamerà “Berio”, che nel dialetto del posto significa “sasso”, ma non saranno le uniche parole che l’amico montanaro gli insegnerà. Pietro apprende una nuova lingua, fatta di concretezza e l’italiano parlato a Milano, studiato a scuola, al confronto sembra astrazione. Il larice si chiama “brenga”, l’abete rosso “la pezza”, il pino cembro “l’arula”: quel “dialetto che trovavo più giusto dell’italiano”.
Il lettore si troverà a salire “per ripide balze erbose” e “per macerati e residui di nevai” , insieme ai personaggi e verrà coinvolto nelle loro vicende: Bruno è un montanaro rozzo, ma capace di grandi gesti e di sincera lealtà, Pietro è inquieto come suo padre, pur adorando la montagna, non riesce a vivere stabilmente in un posto e si allontanerà di continuo, senza costruire nessun legame autentico con altre persone, nè uomini e nè donne, viaggerà per il mondo alla ricerca di se stesso.
Pietro è un personaggio dai tratti spesso contraddittori, come la montagna:
“(...) ogni valle possedeva due versanti dal carattere opposto: un adret ben esposto al sole, dove c'erano i paesi e i campi, e un envers umido e ombroso, lasciato al bosco e agli animali selvatici. Ma dei due era l'inverso quello che preferivamo”
La montagna non è solo calma, bellezza e purezza, ma anche asperità, difficoltà, vita dura. Nel libro non c’è nessun cenno di idillio, ma è estremamente realistico, non mancano neppure tratti particolarmente crudi. Una bella lettura.
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Sincero e profondo
Romanzo profondo e sincero. Scrittura elegante, fine, curata, fuori dagli schemi in questo tempo in cui sono tanto di moda la sgrammaticatura e l’improvvisazione. La descrizione dell’amicizia maschile fra i due protagonisti è vera, convincente, toccante. L’amore dell’autore per la montagna trasuda da ogni pagina e coinvolge anche chi non ce l’ha. A distanza di qualche anno dall’uscita, per me è stata una scoperta sorprendente. Da leggere e gustare assolutamente.
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La vita, tutta in un viottolo di montagna.
Dice l'autore che quando scriveva questo libro e la gente gli chiedeva di cosa parlasse, la risposta era sempre “Di due amici e una montagna”
Certo, è vero, c'è la montagna e c'è l'amicizia tra due bambini che travalica i decenni. Cognetti però pecca di troppa umiltà, sintesi o umorismo perché dietro a queste righe c'è molto, molto di più. Esempio, un padre audace, impulsivo, irrequieto e forse un po' ingombrante. Ma sempre un padre che, senza troppo parlare, insegna al figlio che la montagna in pratica è la vita, bellissima e da affrontare senza timori o titubanze. Insomma, gli insegna ad aver fiducia nelle proprie forze, la migliore catechesi che un genitore può offrire.
“Mio padre aveva il suo modo di andare in montagna. Poco incline alla meditazione, tutto caparbietà e spavalderia. Saliva senza dosare le forze, sempre in gara con qualcuno o qualcosa, e dove il sentiero gli pareva lungo tagliava per la linea di massima pendenza. Con lui era vietato fermarsi...”
E' questo l'incipit del romanzo. Non che sia trascendentale, di quelli da memoria, ma definisce bene il passo di una bella storia, di sicura impronta autobiografica.
E poi c'è la madre, affatto solitaria come il marito. Una che, come generalmente le donne, attutisce i colpi e viene incontro, ama senza riserve e si prende cura dei suoi cari con mille attenzioni e molta pazienza. E' un personaggio importante nella prima parte (di un certo sapore sono i racconti dei mesi estivi che il protagonista-bambino trascorre alla baita sopra il paese di Grana, da solo con lei) ma che in seguito sfuma sino a divenire un satellite nella successiva narrazione, al contrario della figura paterna che resta impregnata come sudore in ogni riga scritta, in ogni scalata e in ogni vetta, pure al di fuori di quelle del comprensorio alpino. Da grande Pietro inizierà a viaggiare in Oriente e a scalare montagne ben più alte (Nepal, Himalaya) sebbene il gruppo del Monte Rosa con l'alpeggio e il montanaro Bruno, suo grande amico d'infanzia, rimarranno i perni principali di un'esistenza solitaria e un po' scontrosa, a cui tornare ad ogni occasione buona.
Il romanzo percorre trent'anni di vita offrendo numerosi spunti di riflessione soprattutto nell'ambito dei rapporti interpersonali. C'è un punto in cui Pietro, ripensando al padre ormai morto, spiega che quest'ultimo quando aveva gli scarponi ai piedi e lo zaino in spalla, davanti ai canaloni zeppi di neve tardiva, “Diceva così: che l'estate cancella i ricordi proprio come scioglie la neve, ma il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo d'inverno che non vuole essere dimenticato.”
E ancora, riguardo a un'altra esperienza di fatica sul viottolo tra rupi e creste, “Un uomo con due baffi bianchi mi raccontò che per lui era un modo di ripensare alla sua vita. Era come se, attaccando lo stesso vecchio sentiero una volta all'anno, si addentrasse tra i ricordi e risalisse il corso della propria memoria.”
Qua, a mio parere, ognuno avrà uno spunto per dare, o almeno tentare di dare le proprie personali risposte a domande cardine dell'esistenza, considerando il sentiero che sale sù, pieno di curve, pericoli e panorami mozzafiato, una lettura di indubbia chiave metaforica. Ed è certo, la prossima volta che faticherò su qualche cima 'delle mie' (non ho la pretesa dei 3000 ma, insomma, se la cavano anche le 'mie' creste marmoree preferite) ripenserò con piacere ad un altro indottrinamento che ho appreso da questo libro, “Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, allora il passato è l'acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso, dove non c'è più niente per te. Mentre il futuro è l'acqua che scende dall'alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro è a monte. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.”
Buona lettura.
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Attrazione fatale
Ho letto, o meglio, ascoltato in audiolibro (prima esperienza che faccio di questo tipo) Le otto montagne di Paolo Cognetti e mi è piaciuto molto.
L’attrazione fatale a cui mi riferisco nel titolo è ovviamente per la montagna, dominatrice fredda, eterna e assoluta del romanzo, rispetto alla quale tutte le vicende umane sono insignificanti e passeggere.
E di umane vicende si occupa molto Cognetti nella sua storia, soffermandosi in particolare su due temi che ricorrono abbastanza frequentemente nella letteratura di tutti i tempi e di tutte le latitudini: il rapporto padri e figli (con la scoperta tardiva del padre) e l’amicizia fraterna, il sodalizio spirituale di una vita.
Cognetti ha uno stile semplice e lineare eppure, complice anche la bella lettura che ho ascoltato, in diversi punti mi ha davvero emozionato. Lo avevo già conosciuto con “Il ragazzo selvatico”, ma quest’opera successiva, vincitrice del Premio Strega 2017 è indubbiamente più completa e matura.
Nel suo blog Cognetti racconta che la storia gli è cresciuta tra le mani in modo spontaneo e naturale, ma a me sembra che la forza, la spinta propulsiva, il magnetismo che cattura il lettore fino alla fine senza cedimenti anche nei passaggi un po’ più “costruiti”, sia tutto nella prima parte, che ho trovato davvero magica.
Consiglio questo libro soprattutto a chi storce il naso al solo sentire nominare la montagna, associandola all’idea di noia e monotonia. Io credo che non vi annoierete affatto e se i ghiacciai, i laghi, i torrenti, “l’odore di stalla, fieno, latte cagliato, terra umida e fumo di legna” non fossero sufficienti a smuovere alcunché nel vostro animo cittadino, potrete sempre intrattenervi con riflessioni da perfetto “flâneur”, del tipo: davvero , o ancora, esistono persone che non possono sottrarsi al destino che hanno ricevuto con il sangue, l’educazione, la terra che hanno calpestato da bambini? C’è qualcosa per cui siamo nati e da cui dobbiamo farci guidare non tanto per essere felici, ma semplicemente per essere noi stessi? Se il mondo fosse fatto di otto montagne che circondano un monte altissimo, lo si conosce e capisce meglio salendo in cima alla vetta più alta o facendo il giro delle altre otto? E dal punto in cui ti trovi, in un torrente, il futuro è a valle, verso cui scorre l’acqua, o a monte, alle tue spalle?
Vi lascio il piacere di cercare le vostre personali risposte, ma sull’ultima domanda vi anticipo la risposta dell’autore:
“Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, allora il passato è l’acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c’è più niente per te, mentre il futuro è l’acqua che scende dall’alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro è a monte. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.”
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Come un mandala
Libro dall’indubbia matrice autobiografica al sapor di montagna, non lascia indifferenti tutti coloro che la amano o la praticano direttamente o indirettamente. Chi scrive abita in una pianura, la più estesa della Sardegna, Il Campidano, nel mezzo appunto, Il Medio Campidano, e la montagna è entrata nella sua vita attraverso la mediazione del suo uomo, prima il ragazzo dell’adolescenza poi il marito della faticosa vita adulta. Lui la pratica con più passione, è la sua passione come la mia è leggere, e io ne capisco di montagna quanto lui delle mie letture: qualche volta ci rimane avviluppato con un ingombro fisico, i libri per casa sparsi, altre volte con le suggestioni di lettura che entrano nel quotidiano delle conversazioni funzionali, quelle del comune vivere, altre ancora quando le nostre letture, per una strana alchimia si incrociano. Ed è stata la volta di Cognetti, lui ha acquistato il libro, io l’ho letto per prima. L’ho divorato perché si legge d’un colpo e la montagna è rientrata nella mia vita. Dopo le prime escursioni per le cale del nostro Supramonte di Baunei, dopo qualche incursione nel più vicino Linas, dopo i primi approcci con le Alpi, Trentino , Valle d’Aosta e le Orobie lombarde, dopo il Tirolo austriaco, dopo i resoconti più fotografici che orali dal Makalu, dal Masnatu e da altre regioni nepalesi, con alle pareti di casa mandala o ritratti di maternità/serenità coi volti felici di madri e figli, mi ritrovo a condividere tutto il contenuto di questo bel libro, io nel basso del Medio Campidano.
Sensazioni di camminata, ambienti che si susseguono, preferenze tra il bosco o la nuda roccia, fatica, malessere, pace, silenzio, rigenerazione .... il fissare l’ambiente che si vive pochi giorni all’anno e non pensare che l’inverno lo trasfigura rendendolo irriconoscibile. Il verde e il bianco, i prati o la neve, l’andare e lo stare, la vacanza, la vita quotidiana. La montagna è dura, non ci sono dubbi, per chi la disturba in vacanza, come capita a me, ma ancora di più per chi ci è nato e ci vive. Eppure, proprio questo legame con la Terra di appartenenza la rende così preziosa per chi ci è nato e per chi ne ha ricevuto l’imprinting frequentandola da piccolo. Ci si ritorna, sempre. Questo libro racconta dunque la storia di un andare e tornare per la montagna seguendo le direttici primarie di due cittadini: un padre e un figlio, ognuno con le sue ragioni. In mezzo, il restare ostinato di chi ci è sempre stato, un giovane montanaro accolto, di traverso, nella famiglia cittadina durante le sue permanenze estive nel territorio che gli appartiene e che gli altri attraversano. Movimento, in fondo di questo si tratta, all’ombra della metafora che nutre la storia delle otto montagne (niente a che vedere con una lista di cime scalate): quale linea seguire? Quale percorso di vita? Seguendo la direttrice verticale o quella circolare. Ognuno persegue il proprio cammino, nessuno è avulso dall’errore, tutti portano alla meta, la propria. Buona lettura.
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LA MONTAGNA VIVA
Sullo sfondo di una montagna viva Cognetti affronta tanti temi che travolgono il lettore e non lo fanno smettere di leggere: l'amicizia trentennale di due uomini che pur provenienti da esperienze di vita diverse condividono gli stessi valori; l'amore paterno visto dagli occhi del figlio prima bambino e poi adulto; l'amore per la natura che premia donando emozioni ma che punisce quando non la rispetti.
E' una storia, ben scritta, che ti fa vivere la montagna proprio con gli occhi del montanaro tanto da farti pensare in certi momenti che possa essere il miglior luogo dove poter vivere.
Sono intense le descrizioni della fauna montana, sembra di vederli gli stambecchi e sembra di sentire i campanacci delle mucche nell'alpeggio e si è disgustati dai corvi che stanno depredando la carcassa di una trota ancora viva. Questa è la montagna viva.
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Crescere insieme
Ammetto di aver affrontato un po’ prevenuto la lettura di questo libro, a causa delle delusioni che ho provato con non pochi altri testi premiati allo Strega. Prevenuto sì, ma non pregiudizialmente avverso, anche perché l’idea che si parlasse della montagna, che così tanto amo, mi stimolava ed è perciò con interesse che ho proceduto nella lettura, che dopo le prime pagine è divenuta avvincente grazie a un incipit che, pur senza essere trascendentale, già confermava le mie aspettative. Le otto montagne, nonostante il titolo, non è un libro sulla montagna, che peraltro è il palcoscenico in cui si misurano gli attori, è la storia invece di due ragazzi, Pietro il cittadino e Bruno il montanaro, che crescono insieme, così diversi e al tempo stesso così uguali; diversi ho detto, eppure uguali, perché le loro anime denotano un’affinità che quasi li fa sembrare fratelli. Il primo è soggiogato da un padre che vede nelle escursioni in montagna una continua sfida con se stesso, il secondo è già svezzato da una vita dura e di fatica, con un genitore violento e per nulla paterno, in un confronto fra una piccola borghesia che può permettersi anche le vacanze sui monti e un sottoproletariato, in cui ferie è un termine sconosciuto. Finiranno con il crescere insieme, sia pure nel breve periodo delle vacanze estive, in un’amicizia che li cementerà per tutta la vita. Assieme affronteranno le escursioni fra panorami talmente belli e così ben descritti che fanno venire le lacrime agli occhi; non sarà tuttavia sempre così, perché trascorsa la pubertà ognuno andrà per la sua strada, Bruno sempre legato intimamente alla montagna, Pietro a cercare un suo percorso, un senso da dare alla vita. Sarà la morte improvvisa del padre di Pietro a riavvicinarli, a farli sentire un unico individuo e insieme cercheranno di dare una svolta alle loro vite: Bruno sempre legato alla sua montagna, Pietro in giro per altre montagne, nel lontano Nepal; qui gli giungerà una tragica notizia, che preferisco non svelare per rispetto di chi leggerà, ma che è la indovinata conclusione di un’opera senz’altro convincente. Mi limito, pertanto, a dire che Pietro continuerà a cercare lo scopo della sua esistenza, probabilmente su e giù per altre montagne, quello scopo che Bruno ha da tempo e definitivamente trovato.
Il romanzo è scritto benissimo, con uno stile per niente ampolloso, ma nemmeno scarno, venato sovente da una malinconica nota poetica; in sé non sembrerebbe particolarmente degno di nota, ma, come mi era capitato per Stoner, tutti gli equilibri strutturali sono stati raggiunti con un’apparente facilità che stupisce ed entusiasma il lettore, ora accompagnato dal sottofondo del rumore di un ruscello alpino, ora immerso nel silenzio delle alte cime.
Le otto montagne è senz’altro un bel romanzo, una di quelle opere che, pur non facendo gridare al capolavoro, lasciano al termine della lettura completamente soddisfatti e, ciò che più conta, pervasi da un grande senso di serenità.