Lacci
Letteratura italiana
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LA CASA DEGLI SPIRITI
CONTIENE SPOILER
Come tutti i romanzi di Starnone, anche questa è una storia corale. La prima parte del racconto è affidata alla moglie Vanda, abbandonata insieme ai due figli dal marito Aldo, innamoratosi di un’altra donna. Questa sezione del romanzo è scritta in forma epistolare: il soliloquio di una donna distrutta, che in tutti i modi cerca di mostrarsi risoluta e forte di fronte all’uomo che l’ha lasciata, nonostante tenti disperatamente di riportare la situazione allo status quo.
La seconda parte, quella più consistente, è affidata alle parole di Aldo. Dopo un’apparente intrusione dei ladri nell’appartamento di famiglia, Aldo ritrova le lettere che la moglie gli inviò durante quegli anni di assenza dalla famiglia e con un lungo flashback ci informa di come, dal suo punto di vista, sono andate le cose.
L’immagine dell’uomo sposato, innamorato follemente di una donna molto più giovane, che lo fa sentire libero, felice, lontano dalle responsabilità e dai vincoli del matrimonio e della paternità; il senso di colpa che lo divorerà e lo spingerà a tornare nella casa coniugale quasi per inerzia, mosso dal desiderio di non nuocere più ai figli; la vita che scorre nel silenzio delle cose non dette, della guerra fredda tra i coniugi, mai realmente riappacificati: sono questi i temi che emergono dalla lunga confessione di un uomo settantenne che tira le somme della propria esistenza.
Infine, il terzo capitolo ci è raccontato dalla figlia Anna, una donna di mezza età dalla vita disordinata, il frutto del dolore e del rapporto malato tra i suoi genitori.
Su tutte, spicca la figura della casa di famiglia: la casa comprata in un momento di floridezza economica, il luogo del dolore, il sito del ritorno, il contenitore dei ricordi. La casa è lo specchio dei suoi abitanti, che hanno nascosto in bella vista i propri segreti, nella speranza che fossero scoperti per poter una volta per tutte smettere di fingere. Perfino il nome dato al gatto domestico, Labes (in latino “rovina”), risuona quotidianamente tra quelle mura come un sinistro presagio sulla bocca di tutti, senza che nessuno si accorga cosa significhi davvero.
Quando scopriamo che Anna e Sandro hanno messo ogni cosa a soqquadro in un atto di ribellione contro quel clima di menzogne, il caos esterno rappresenta finalmente ciò che è davvero stata quella dimora: un campo di battaglia tra persone irrisolte (la madre imperante, il padre ormai succube, i figli destabilizzati negli affetti e nelle finanze).
Il titolo, “lacci”, fa riferimento all’aneddoto che convince Aldo a tornare a casa dai suoi figli. Durante un loro incontro, Anna fa notare come Sandro si allacci le scarpe in un modo molto strano, lo stesso modo in cui le allaccia il padre. I lacci, quindi, sono il simbolo dell’eredità non genetica, bensì pedagogica ed emozionale dei genitori verso i figli. Un legame da cui non si può fuggire, soprattutto quando è causa ancestrale di ferite e traumi che ne condizioneranno tutta la vita.
Starnone racconta la storia ordinaria di una famiglia disfunzionale, come ce ne sono molte, e che ci rimanda alla celebre frase di Tolstoj: “tutte le famiglie felici si somigliano tra loro; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
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Dopo l'amore, la morte
L’ippocampo, un piccolo ricciolo di corteccia cerebrale sepolto nelle pieghe temporali dell’encefalo, presiede alla memoria episodica, ai ricordi dei volti e dei fatti del nostro passato. Sempre nell’ippocampo è rappresentata una mappa dello spazio che circonda, come a dire che è lo spazio a codificare i nostri ricordi. Ed è proprio quando di ritorno dalla vacanze Vanda e Aldo ritrovano la propria casa messa a soqquadro che gli argini della memoria si aprono e la loro vita sfila fotogramma dopo fotogramma a ricostruire la genesi della catastrofe, a riannodare i nodi che li hanno condotti fino alla dissoluzione. Perché a legarli non è l’amore, ma tutto il resto. La rabbia, il rimorso, l’odio, il rancore, l’ostinato masochismo con cui continuano a torturarsi. E allora le pagine si schiudono con il loro dolore, gli ingranaggi che hanno distrutto i figli, i silenzi che hanno disinnescato una minaccia costante, i ripensamenti, i dinieghi, l’ipocrisia. Starnone insegna che se non è facile mantenere una coppia, ancora più difficile è lasciarsi. Perché ci vuole coraggio a riconoscere che forse il bene è lontano dal noi, che a volte la vita impone di scegliere e che non sempre possiamo salvare sia la madre, sia il bambino. E più di tutto ci vuole coraggio a sostenere il dolore che si arreca quando si lascia qualcuno, la sua delusione, il suo sentirsi tradito, perché è da santi non dire nemmeno un vaffanculo e contemporaneamente è umano, ma stupido, rinfacciare che tutto allora è stato un inganno, che nulla è stato vero. Il mito dell’amore per sempre, la pretesa che l’altro sia la nostra metà e non una persona intera, con la sua completezza, è il grosso equivoco dell’amore moderno e alla base di quella distruzione reciproca che spesso accompagna la fine di una relazione. Certo i sentimenti sono irragionevoli e non c’è spazio per la dialettica nel dolore. Eppure in un’epoca come la nostra, in cui al tradimento può seguire l’omicidio, in cui la libertà non è libertà, il prezzo di questa diseducazione sentimentale è elevatissimo. E se il cerotto tiene insieme i genitori, sono i bambini a restare impigliati nei lacci della discordia, nella ragnatela tessuta dall’odio. Troppo vicini per non ferirsi, troppo lontani per amarsi.
Starnone prova là dove altri si sono cimentati, all’essenza di una coppia, di una relazione, nel modo più scarno e doloroso possibile. Già la Mazzantini con il suo Nessuno si salva da solo aveva fatto breccia nella resistenza inutile dei legami e prima ancora Simenon con la rete di perversa malignità che imprigiona i protagonista de Il gatto. Starnone sceglie una strada semplice e incisiva, con la storia ripercorsa prima da Vanda, poi da Aldo e ancora dalla figlia della coppia. Ognuno pronuncia le parole del suo dolore e lascia trapelare le sue ragioni, umanissime ragioni, ma ognuno di loro gira come una mosca cieca, in circolo su se stesso. E se a volte la narrazione risente di una certa piattezza, è nell’ultima parte del libro che il tono si alza e al lettore si palesano le macerie di quello che è stato. Perché la vita va avanti, ma a quale prezzo?
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Sentimenti e risentimenti
Interessante scoperta, Domenico Starnone, che con questo breve romanzo tratteggia senza retorica una situazione familiare tipica, attraverso le voci di tre personaggi e varie tappe: scappatella del marito, che abbandona moglie e figli per una giovane donna, ritorno al tetto coniugale, non senza aver prima inflitto dolore e seminato danni irreversibili, ménage domestico in equilibrio instabile tra malcelati conflitti e tregue armate. I due coniugi, che riconciliati continuano a farsi larvatamente del male (lui sottomesso pro bono pacis e fedifrago seriale, lei dominante e nevrotica) comprometteranno la felicità presente e futura della prole, fallendo, di fatto, come genitori. Spetta al lettore, osservando i fatti dai diversi punti di vista narrati, trarre le conclusioni e arrivare a una certa verità estrapolata da ciò che l’uno rivela e l’altro tace. Ma districare la matassa di sentimenti e risentimenti che ribollono in una famiglia disfunzionale è compito tutt’altro che facile: se il dovere di un marito finisce quando inizia quello inalienabile di un essere umano alla libertà e all’amore, che dire di quello di un padre? Starnone affronta l’argomento spaziando con mano sicura tra passato e presente, con uno stile che varia abilmente secondo la personalità e il background culturale dell’io narrante: prima la moglie tradita, poi il marito, infine la figlia ormai adulta, che chiude il cerchio con un giudizio inappellabile e un piccolo colpo di scena.
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Il declino del matrimonio
Questo di Domenico Starnone è un libro abbastanza particolare, a partire dal suo stile e dal metodo scelto dall'autore per raccontare questa storia, fino all'approccio usato per affrontare un tema quanto mai scottante, nei nostri giorni: quello del matrimonio.
Il libro è diviso in tre parti: la prima racconta la fuga di Aldo dal punto di vista di sua moglie Vanda, tramite una serie di lettere scritte dal pugno di quest'ultima e indirizzate al primo, scappato per amore di un'altra donna: Lidia. Nella seconda parte si viene catapultati nel presente in cui marito e moglie si sono ricongiunti e sono ormai nel pieno della vecchiaia, e nella terza conosciamo il punto di vista dei due figli Anna e Sandro e delle ripercussioni che la lunga scappatella del padre e anche il suo rientro nella cerchia familiare hanno causato nelle loro vite, anche tacitamente. Lo stile di Starnone non è assolutamente pesante, ma se devo essere sincero non mi è rimasto impresso e in certi tratti risulta abbastanza piatto, senza mai raggiungere vette altissime. Il contenuto di questo romanzo, oltretutto, anche se tocca un tema contemporaneo e ne mette in risalto ottimamente alcuni punti, manca di quell'ispirazione senza nome che trasforma un libro normale in un ottimo libro, se non un capolavoro.
Dunque, è sulla fuga di Aldo che si basa tutta la trama di questo breve libro, e sulle ripercussioni che questa ha sulle vite di sua moglie, dei suoi figli, ed anche sulla sua medesima esistenza.
Per concedersi quella scappatella di quattro anni, che a quanto pare è l'unico periodo di tempo in cui lui si è sentito felice, il protagonista si è dimostrato disposto a sacrificare la sanità mentale di quattro persone, incluso se stesso. Se ne fosse completamente consapevole non è dato dirlo, sta di fatto che così è stato: è fuggito dalla trappola in cui si è chiuso a causa di scelte affrettate dettate dalla sua gioventù e da impulsi ancora sconosciuti, per poi tornarvi non si sa bene con che spirito. La sua è una fuga da quella che gli era sembrata una trappola: ma si può fuggire da un luogo d'oppressione e improvvisamente, provare il desiderio di tornarvi? E con quale disposizione d'animo, poi? Un uomo che ha sacrificato tutto quello che aveva in nome della propria libertà d'individuo, può tornare sui propri passi? Può volere indietro quel che ha sacrificato in passato in nome di qualcosa, sacrificando a sua volta proprio quel qualcosa?
E' alquanto contorto, lo so, ma è un po' tutto il libro ad esserlo e lo sono anche tutti i personaggi che lo popolano. Non mi sento di dire che siano inverosimili, perché in fondo, non sono del tutto fuori dalla realtà: gli esseri umani con cui conviviamo ogni giorno ci hanno abituato a stranezze ben peggiori.
Eppure... non lo so, c'è qualcosa di strano, quasi artificioso; come se si volesse a tutti i costi enfatizzare quello che è il declino (evidente, per carità), dell'istituzione matrimonio e dell'affezione naturale anche tra genitori e figli. Forse era questo l'intento di Starnone: enfatizzare questo lato triste della realtà contemporanea, portando i suoi personaggi al limite.
Il messaggio arriva, puntuale, amareggiante come dovrebbe essere, ma ne perde qualcosa il libro come entità a sé stante.
"Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all'improvviso, ti dà fastidio."
La fine di un matrimonio che non muore...
Che stilettata...
Uno di quei romanzi che non fanno sconti, che non edulcorano, e se, per sfortuna, ti ritrovi anche solo marginalmente in qualcuna delle situazioni analizzate, non hai via d'uscita...rimani imprigionato lì, tra quei lacci invisibili fatti di sensi di colpa, rancore mai sopito, rimorsi, rimpianti e ipocrisia.
Potremmo considerare questo romanzo come il manifesto più rappresentativo e spietato della "disgregazione della famiglia".
"C'è una distanza che conta più dei chilometri e forse degli anni luce, è la distanza dei cambiamenti."
Già, perché alla fine, la chiave di tutto è nella parola "cambiamento".
Le persone cambiano, cambiano i sentimenti, gli sguardi, cambiano i pensieri.
Il cambiamento fa paura a tutti, a chi lo mette in atto e a chi lo subisce.
Fa così tanta paura che spesso, molto spesso, si torna indietro...non si riesce ad andare fino in fondo, a lasciarsi alle spalle scie di dolore o semplicemente il timore di perdere la sicurezza di un ruolo, il tuo, quello che tutti (tu per primo) si aspettano che tu rivesta.
Ed è allora che comincia il valzer dell'ipocrisia, del rigurgito del dolore...perché quello non passa, mai, è sempre lì pronto a venir su, ed è un attimo che un colpo di tosse si trasformi in un conato.
Si impara in fretta che l'unico modo per sopravvivere è la reticenza, il silenzio.
"...abbiamo imparato entrambi che per vivere insieme dobbiamo dirci molto meno di quanto ci taciamo."
Alla fine l'unica cosa che realmente accade è che questi lacci, con i quali un uomo e una donna si sono torturati reciprocamente per una vita intera, hanno strangolato l'unica cosa bella e preziosa a cui avevano dato vita, i figli.
E qui l'amarezza raggiunge vette altissime...
Quattro personaggi (marito, moglie e due figli) illuminati nella loro miseria, nelle loro meschinità e debolezze.
Starnone non salva nessuno, proprio nessuno, neanche il gatto...
La fine di un matrimonio che non muore. O forse sì.
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Labes
Dopo aver letto il bellissimo Via Gemito ho affrontato con molte perplessità la lettura di questo romanzo in cui la fiacchezza morale e la mancanza di valori si traducono nella lentezza della narrazione che disturba il lettore per il vuoto affettivo assoluto su cui si apre. Una coppia si lascia per il desiderio di lui di una ragazza giovane. La nuova relazione è vista soprattutto da un punto di vista opportunistico in un disinteresse totale per l'altro, nel senso che l'amore per l'altro non va mai tanto oltre da nuocere ai propri desideri e interessi. Nel rapporto colpisce la incapacità assoluta del padre di vedere gli altri: non lascia soldi alla moglie casalinga, non va a trovare i figli, torna a casa per una mera considerazione egoistica e dopo aver preso quello che poteva dalla relazione con l'amante, dell'amante dice che era generosa a offrirgli i divertimenti e che sapeva godere la vita spendendo del suo nel farlo divertire. Il denaro è il centro della famiglia descritta, il valore trasmesso ai figli che discutono fastidiosamente della vendita dell'appartamento miliardario la cui presenza irrita il lettore che ricorda che la moglie era stata lasciata senza mezzi di sostentamento all'inizio del romanzo. I legami diventano lacci mancando ai personaggi il minimo d'affetto per gli altri. Tutti vengono dopo il proprio piacere e i propri interessi. L'amore è amore per la bellezza o la giovinezza, non per una persona. I legami quindi di fatto non esistono. Sono i lacci del senso di colpa. In quest'ottica è meglio non avere legami e mantenere rapporti falsi e cordiali con tutti. La visione del mondo toglie e spegne ogni voglia di vivere e in effetti la scrittura procede in una zona grigia di tristezza inespressa e di vuoto, in un mondo senza ossigeno e aria. I rapporti umani dovrebbero poter contenere simpatia, amicizia, solidarietà, sostegno, amore in qualsiasi senso lo si voglia intendere non necessariamente come sentimento forte e totalizzante.Ma anche l'amicizia richiede di vedere l'altro e qui gli altri sono invisibili e non si capisce la necessità di avervi a che fare. Il modo proposto di vedere le cose appiattisce la vita rendendola insensata e vuota, così vuota che il deserto che riflette si trasmette al lettore attraverso le pagine. Purtroppo l'egoismo così radicale porta a uno svuotamento interiore che non può essere riempito da una nuova passione ma che è svuotamento dell'anima e bisogno inespresso e sottinteso di amore non fisico. Questo modo di vedere il mondo toglie ogni desiderio di vivere. Le pagine non trasmettono affatto il piacere di chi si sa godere la vita, ma il vuoto assoluto e la fame dell'affamato che cerca di riempirsi l'anima di cibo totalmente indigeribile come la moneta, i complimenti,ecc...
Questa lettura per me è stata disturbante anche se non posso dire che il libro sia scritto male o artificioso. Penso quindi che il mio giudizio rifletta il rifiuto emotivo per il contenuto.
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Riflessivo
Domenico Starnone con il suo romanzo “Lacci” presenta quello che purtroppo, oggi succede spesso, ovvero che il marito lasci la moglie per una donna molto più giovane. Tutti i lacci che un tempo tenevano legati la famiglia si allentano sempre di più e quello che doveva essere un “per sempre” viene messo a rischio dalle scelte di un uomo. Ma dall’altra parte c’è una donna che non si arrende e che pur di far tornare il marito è disposta a tutto.
Una cosa è innovativa, gli anni, Starnone ambienta il suo romanzo fra una Napoli degli anni ’70 e una Roma di oggi.
L’autore decide di dare voce ai suoi protagonisti; il libro infatti è composto da tre monologhi, si parte con la moglie “Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie”, si giunge al marito “Queste parole sono state le prime a capitarmi sotto gli occhi, quella notte, e subito mi hanno riportato a quando me ne andai di casa perché mi ero innamorato di un’altra”, e si termina con i figli, in particolare con la figlia “Sono state ore leggere, forse le più lievi mai vissute in questa casa”.
Quello che può mancare in un monologo, viene poi compensato con l’altro rendendo alla fine molto chiaro lo schema.
Le dinamiche ci sono tutte, quello che i nostri protagonisti non hanno valutato sono le conseguenze. Sono giorni che ho finito questo libro e ancora non mi sono data pace, lo spreco di vite, vissute per sentimenti non puri e senza sincerità, ci ricordano che di vita ne abbiamo una sola e che non dobbiamo sprecarla.
Starnone è spietato, diretto e forse l’avrei preferito un po’ più elaborato. Un’opera riflessiva che in parte mi ha ricordato “Il disprezzo” di Moravia, non tanto per la trama ma perché in entrambe le opere, è l’assenza di dialogo che la fa da padrone. Se da una parte “tifi” per la famiglia, dall’altra ti chiedi se la scelta sia proprio quella giusta e che forse i “lacci” a un certo punto, vanno sciolti, perché quando si tirano troppo, poi è difficile farli tornare come prima.
I libri hanno il bellissimo dono di ispirare riflessioni, di farci entrare nella storia, di trarre le nostre conclusioni e di darci molti insegnamenti, “Lacci” non può lasciare indifferenti e anche dopo averlo chiuso vi accompagnerà per un bel po’…
“E non solo sentii per la prima volta nella carne quanto l’avevo scempiata, ma mi resi conto con la stessa insopportabile intensità che mentre io ero stato attento a schivare l’urto di quella sofferenza, i nostri due figli ne erano stati investiti, forse dilaniati. Tuttavia chiedevano dei lacci. Tu ti allacci le scarpe come me? Sei ridicolo, ma mi insegni?”.
Buona lettura!
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Lacci di Domenico Starnone
Imperdibile questo romanzo di un autore che non avevo ancora letto (e mi vergogno un po’ a dirlo). E’ in scena una famiglia, con le sue dinamiche di ripicche, slealtà, tradimenti e litigi; una famiglia che si trascina, raccontata dai diversi punti di vista della moglie, del marito e della figlia ormai quasi cinquantenne. Un libro suddiviso in tre parti, ciascuna con un diverso narratore che espone, parlando al presente, il suo punto di vista sulla storia di questo matrimonio. Nella prima parte troviamo una moglie disperata, che tenta di fare tornare a casa il marito fedifrago che se n’è andato di casa per stare con l’amante più giovane. Una storia terribile, perché molto comune, raccontata in modo lucido e senza sconti per nessuno: nemmeno e soprattutto per la moglie tradita. Un matrimonio piccolo borghese nato per caso negli anni ’60, quando ancora c’era la convinzione (anch’essa molto borghese) che il matrimonio ”dovesse” durare per sempre. Una moglie che, pur accorgendosi di essere disamorata, cerca di fare tornare a casa il padre dei suoi figli, tirando i lacci che l’hanno legato a lei il giorno del matrimonio. Puntando sul senso di colpa dell’uomo verso di lei (che non lavora e quindi non ha modo di mantenersi), ma soprattutto verso i figli, che lui ha abbandonato da un giorno all’altro, cerca di riportarlo a casa. Un marito che, anche quando decide di tornare, continua ad avere amanti in carne ed ossa, ma soprattutto a tradirla con il ricordo di Lidia (l’unica donna che lui abbia veramente amato e che ha lasciato andare, per tornare dalla famiglia).Nella seconda parte parla il marito, il codardo, che scappa dalla vita monotona di Napoli e da una moglie casalinga, per assaporare la capitale insieme a una donna molto più giovane, più colorata e soprattutto realizzata. Un’amante che lui continua a ritenere solo uno sfogo fisico e che solo più avanti si accorge essere l’unica donna che amerà nella sua vita. La sua storia, raccontata nel 2014 (quando i due sono ormai anziani) di due vecchi costretti a una convivenza senza amore, un matrimonio fondato sulla repressione reciproca. Lo definisco codardo perché non ha nemmeno il coraggio di sostenere la propria scelta, restando fuori casa e cercando di vivere felicemente la propria vita. Non riuscendo a fare pace con i suoi sensi di colpa, codardamente torna a casa, senza essersi pentito, ma solo “per dovere”.Nella terza parte parla la figlia, una delle due parti più lese e parla dei sentimenti contrastanti verso i genitori: un padre che è stato assente anche (e soprattutto) quando presente e una madre che ha passato la vita a sfogare le proprie frustrazioni su marito e figli. Un romanzo forte, intenso e drammatico, che parla di lacci emotivi che è sempre molto difficile sciogliere. La cosa più agghiacciante è che entrambi, fino alla fine, tradiscono la loro stessa vita, adattandosi a un amore-non amore, a un matrimonio inesistente e a una convivenza forzata. La riconciliazione è molto più devastante dell’abbandono.
Alcune frasi rappresentative:
La moglie a lui, nelle sue lettere: “Tu non sei capace di prendere l’iniziativa, lo so, o ti tirano dentro o non ti muovi”; “…Non bastava restare quasi identica a quando ci eravamo conosciuti e c’eravamo innamorati, anzi forse lo sbaglio era quello, bisognava che mi rinnovassi…”; “… Ci muoviamo credendo che il movimento delle gambe sia nostro, ma non è così, la sicurezza delle gambe è solo il risultato del nostro conformismo”; “Continuerai così per sempre, non sarai mai quello che vuoi, ma quello che capita” e infine “Quando mi hai lasciata, ho sofferto soprattutto per quello che di me ti avevo inutilmente sacrificato… Mi sono sentita stupida, non ero stata capace di andarmene prima di te”. Lui, nella seconda parte del libro: “Dalla crisi di tanti anni fa abbiamo imparato entrambi che per vivere insieme dobbiamo dirci molto meno di quanto ci taciamo. Ha funzionato”. La figlia, nell’ultima parte: “Gli unici lacci che per i nostri genitori hanno contato sono quelli con cui si sono torturati reciprocamente per tutta la vita”.