La valle delle donne lupo
Letteratura italiana
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"il pozzo senza fondo del tempo"
LA VALLE DELLE DONNE LUPO, DI LAURA PARIANI (2011, Einaudi). Ispirandosi forse al romanzo “La chiave a stella” di Primo Levi, piemontese come lei, in cui il personaggio stesso si racconta al suo interlocutore-scrittore che ne trascrive le parole così come vengono dette, Laura Pariani immagina che una ricercatrice voglia scrivere un libro su “le tradizioni, le leggende della montagna, le storie di una volta ...” (p. 9) e che per raccogliere materiali metta per iscritto così come vengono raccontati i ricordi de “la Fenisia”, ultima abitante del “Paese Piccolo”, sperduto paese di montagna, che tutti gli altri hanno lasciato per stabilirsi nel “Paese Grande”, giù in pianura. Che il contesto geografico sia il Piemonte si desume solo dal dialetto della Fenisia, perché c’è un unico riferimento esplicito alla regione (p. 55 la testardaggine delle piemontesi). Attraverso il racconto orale dell’anziana donna (classe 1928), infarcito di dialettismi, espressioni idiomatiche locali e massime della cosiddetta saggezza popolare, noi lettori apprendiamo sì la storia della Fenisia e di tutti quelli che fecero parte della sua vita, ma anche ci rendiamo conto di come i fatti nazionali furono percepiti in questi angoli remoti : il fascismo la guerra la resistenza, e poi lo sviluppo industriale, l’urbanizzazione, l’automobile per tutti, abitudini nuove come la villeggiatura, su su fino ai telefonini ... Queste ultime cose però - che consideriamo “la modernità” - si presentano come un’eco sempre più lontana nelle parole della Fenisia, man mano che lei avanza sul cammino della vita. In realtà il vissuto che via via in queste pagine risuscita vivido, vuole essere essenzialmente quello di tutte le comunità rurali che fino al dopoguerra vissero prevalentemente nel chiuso e nella povertà delle loro valli di montagna, solo sfiorate dal progresso tecnico e culturale, società segnate dalla sopraffazione atavica degli uomini nei confronti delle donne, che trovava giustificazione nelle costanti esortazioni dei preti alle donne a sottomettersi e ad accettare “le prove” di Dio. Alcune donne tuttavia non sopportavano supinamente il giogo della violenza maschile: sono “le balenghe”, o donne lupo, come le chiama la Fenisia, riconoscendosi in tutta quella schiera di donne che furono emarginate perché più o meno indocili persino dopo la morte, quando vengono sepolte in terra sconsacrata, nel “prato delle balenghe”. Come lei stessa per esempio, nata cresciuta e poi tornata nella casetta vicino al cimitero del padre beccamorti ad occuparsi anche lei dei “non-più-vivi”, conoscitrice delle erbe e per giunta rossa di capelli, insomma un po’ strega … O come sua cugina “la Ghisa”, che piccolina aveva vissuto per alcuni mesi nella tana di una lupa e che all’ennesimo pugno del padre aveva afferrato le forbici per ucciderlo. E che da lui venne fatta internare in manicomio, da cui uscì infine solo grazie alla legge Basaglia (1978). O come anche “la Tiresia”che si impiccò.
Come non pensare alla consonanza di questo romanzo con quello di un altro piemontese, l’autore de La chimera Sebastiano Vassalli? Una linea diretta collega Antonia “la stria” di Zardino, nella campagna novarese, arsa sul rogo nel 1610, e le “balenghe” della Pariani: tutte vittime dell’atteggiamento prevaricatore degli uomini rispetto alle donne, del maschilismo della Chiesa che nella donna vede il diavolo tentatore (a p. 149 c’è forse un riferimento preciso all’Antonia di Vassalli). Altri fili che collegano le due opere sono la descrizione delle condizioni di lavoro nelle risaie, la sempiterna tentazione dei gruppi sociali di scaricare livori su un capro espiatorio, la lontananza delle istituzioni (la Chiesa, la scuola, lo Stato) dal ceti più poveri … Insomma, a me sembra che l’ ambiente e la mentalità che la Pariani ricrea giungano quasi intatti dai tempi dei roghi delle streghe che racconta Vassalli fino agli anni in cui “il Paese Piccolo” si spopola man mano che gli stabilimenti industriali invadono la pianura, mentre la Privativa diventa un bar e poi un bar col juke box e la televisione. Come se in fondo il Medio Evo fosse morto solo allora nelle valli e nelle montagne. Un altro filo lega i due romanzi, più sottile ma forse il più tenace: lo svanire di ogni cosa nel “pozzo senza fondo del tempo” (p. 125), il tempo della vita e il tempo della storia. Di cui il simbolo più pregnante è la familiarità della Fenisia con la morte, plasticamente rappresentata dalla foto di lei sull’uscio della casa sormontato da una danza macabra: “Un inferno di ingordi che si spulciano nel letamaio, dame riccamente vestite che contemplano nello secchio un viso verminoso, diavoli che strappano occhi e stritolano ossa; eppoi serpenti, scorpioni, ratti; e, sopra il carname dei dannati, la grande ranza del Falciatore ossuto, piantato a gambe divaricate sullo sfacelo del mondo” (p. 161)
fine