La stanza di sopra
Letteratura italiana
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Presenza costante
La porta della stanza di sopra è invalicabile.
È la stanza del papà di Ester, un papà che un tempo aveva braccia forti, talmente forti che nulla sembrava poterlo scalfire .
Ma, da quando succede quel qualcosa che lo rende immobile a letto, la porta della stanza di sopra si blocca tanto da non fare più entrare sua figlia.
Ester quella porta non la riesce più a varcare.
Una mamma impotente, stanca, che non riesce ad imporsi sulla figlia ormai ossuta e trasgressiva, che cerca qualcosa per sentirsi viva..come un’ amica studiosa alla quale però non racconta nulla. Nessuno sa cosa ci sia nella stanza di sopra.
Ester nel suo corpo da quindicenne ma con la mente ancora ferma ai ricordi da bambina sente di dover reagire a tutto questo..deve sentire il suo corpo.
“Sta nella stanza di sopra. Non appena infilo la chiave nella toppa, mi ricordo che è li..a quel punto non posso ignorarlo.. Nessuno potrebbe immaginare la sua presenza. Posso portare gli amici a. Ada e dimenticare che ci sia anche lui. Posso fingere che non ci sia..ma so che è li. Lo so come un cartello fosse appeso in ogni stanza, come se lo ripetesse una voce dall’altoparlante, come una formula imparata a memoria da scrivere sulla lavagna, come il ritornello di una brutta canzone passata su MTV..”
Un libro scritto come poesia, un finale che rompe il confine con la stanza di sopra.
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Anatomia emotiva...
Un libro poetico, triste e disperato, dove la cura e la scelta delle parole delineano alla perfezione la forma del dolore, il suo colore, la sua voce.
Parole precise, compresse, prosciugate come sangue rappreso su una ferita...così come prosciugato è il corpo della protagonista, custode di una disperazione muta.
Ossa di bambina offerte in cambio di un barlume di vita, di uno sguardo, un fiato e un calore che possa ricordarle, anche solo lontanamente, quello dell'uomo chiuso nella stanza di sopra, immobile, senza più promesse, senza più parole, senza.
Suo padre.
Lui che le ha tradite (lei e sua madre) sdraiandosi in quel letto per non alzarsi più, che ha smesso di fare colazione, di andare al cinema, di bere vino rosso, di essere padre, marito...impedendo a lei, Ester, di poter continuare ad essere sua figlia.
Non ci riesce più. Non sa come farlo.
Non riesce ad oltrepassare la soglia di quella stanza in cima alle scale.
È rimasta imprigionata nella bambina che è stata, che per 5 anni, per soli 5 anni, ha conosciuto la felicità.
Ed ora che di anni ne ha 15, e sente il peso schiacciante di quel corpo inerme caduto dal ponteggio, cerca di usare il suo (corpo) per liberarsi e insieme proteggersi dal vuoto che la attraversa come vento freddo, attraverso baci senza significato, mani distratte che la esplorano, toraci forti in cui affondare la testa, concessioni indesiderate che la rendono ancora più fragile.
Io non so se posso considerare questo libro un romanzo, forse potrebbe sembrarlo, ma non lo è.
È l'anatomia emotiva di una ragazza che vede la propria famiglia disgregarsi e, quasi come forma di ribellione, riproduce questa disgregazione dentro di sé.
La voce che si sprigiona dalle pagine è roca, impastata, lenta...
Un libro che ho sentito sottopelle, che mi è "arrivato" attraverso tutti i sensi.
- La vista...subito, nell'incipit...la scalinata di casa che, ad un certo punto della giornata, verso le sei di sera, è ancora illuminata dal sole, ma porta con sé già l'ombra e la malinconia della giornata che finisce.
Un'immagine che ha tutto il sapore del Sud, sapore di casa.
- L'olfatto...la stanza di sopra con il suo odore stantio di malattia, di medicine, di vita che si è fermata.
- Il gusto...che Ester non ha più. Non mangia più perché nulla ha più sapore.
-Il tatto...attraverso le mani e il corpo degli uomini a cui Ester concede se stessa, sperando quasi che possano riuscire a trovare dentro il suo corpo quella scintilla di vita che lei non sente più di possedere.
-L'udito...nella scena finale che non vi dirò.
Che esordio...?
La Postorino mi era già piaciuta molto ne "Il corpo docile".
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Triplici silenzi
«Non ho mai avuto spade per infilzare ma i tagli sulla mia pelle sono cicatrici ancora molli, acquose, fessure che si aprono da un momento all’altro, come uno strappo»
Un padre, una madre e una figlia, Ester. Tre dolori, tre silenzi, tre dimensioni i cui confini sono definiti da quella stanza di sopra in cui l’uomo giace nella sua irreversibile condizione di immobilità. La moglie, maestra, che si prende cura di lui non riesce a instaurare un rapporto con quella quindicenne che ha innalzato un muro di protezione, che si è chiusa nel suo mondo escludendo tutto il resto, che non riesce ad entrare nel luogo della malattia. Non ne è capace perché per prima è lei, l’adulta, che non riesce a farsi spazio in quella nuova vita, in quel dolore condiviso eppure così singolo, personale e individuale. La sua unica scialuppa è quel divano verde sbiadito in cui si rifugia al calar della sera. E poi c’è lei, Ester. Ester e le sue fughe, Ester e i suoi compiti non fatti, Ester e le scorribande con gli amici, Ester e le sigarette, Ester e gli uomini a cui si concede e ritrae per sentirsi al centro dell’attenzione, per sentirsi viva, per sentirsi donna, per sentirsi figlia, per sentirsi di nuovo circondata da quelle braccia forti e possenti di un babbo che non ha.
Ed ancora c’è lui, il padre, condannato alla sua immobilità fisica ma non mentale, alla sua incapacità di proferir parola, all’intervenire, spettatore obbligato passivo di una realtà che si dipana innanzi ai suoi occhi e che in alcun modo può modificare, fermare, mutare. È vivere il suo?
I silenzi che si perpetrano tra le pareti. Ieri e oggi. Ricordi di bambina in un corpo di carne di una giovane donna quasi adulta in balìa degli impulsi e alla ricerca di brusii, di rumori; i ricordi di una madre impotente prigioniera del vuoto.
«Mi ha parlato troppo, oggi, mia madre. Ha riempito di parole la stanza di sopra, perché assorbissero il silenzio di mio padre. Non ne può più. Non ha più forza, adesso, per parlare»
Un’amica, l’unica con cui confidarsi di tutto tranne che dell’unica cosa di cui davvero dovresti parlare, di quell’unica storia importante. Una compagna di classe che chiami la secchiona con cui studi quel poco che basta, che in un certo senso invidi per quel padre autoritario e dal vociare regolare che tu non hai, che pian piano perderai seppur non volontariamente. Errori, cadute, nudità.
«La bambina avrà per sempre questa voglia di scappare. Penserà sempre di non poter recuperare nulla, destinata alla perdita in modo definitivo. Se ne vergognerà, per tutta la vita.»
Un romanzo di appena 195 pagine è “La stanza di sopra” di Rosella Postorino ove vengono trattate tematiche di grande rilievo che vanno dalla malattia ai legami familiari passando per l’adolescenza, l’amicizia e la solitudine di un dolore che non sai affrontare e che ti impedisce di trovare la tua collocazione, il tuo essere. Ampio spazio è lasciato inoltre agli errori, a quegli sbagli talvolta compiuti perché troppo giovani, perché convinti di poter comandare il mondo o semplicemente di “saperla lunga”. Errori, sbagli con cui poi sei condannato a convivere per sempre ma che se analizzassi a mente fredda e con sguardo maturo, ti renderesti conto non essere davvero tuoi perché quel “no” è stato pronunciato. Ma tu ormai sei un’anima fragile, non c’è nessuno a proteggerti dagli altri e da te stessa. Sei vittima delle tue stesse azioni, delle tue stesse non-azioni. Un esordio, quello della Postorino, che dimostra sin dalle prime battute quello stile inconfondibile che è consueto nelle opere successive (vedi “Le assaggiatrici”) e che o si ama o si odia. L’intreccio narrativo è inoltre solido, ben costruito. Le voci narranti si alternano senza difficoltà tra presente e passato ricostruendo quel che è accaduto e quel che sta accadendo. Ancora un po’ acerbo e dall’epilogo duro e forse un po’ troppo accelerato, ma una buona prova nello specifico per problematiche affrontate.
«Ti preparavo da mangiare e intanto ti lasciavo leggere. Volevo prendermi cura di te. Sapevo che eri seduta lì, il libro tra le mani, che stavi cercando frasi, parole, virgole e spazi bianchi di cui una volta ti eri innamorata. Tu che amavi ogni volta per sempre, che non sapevi amare in nessun altro modo, un’abitudine imbarazzante»