La stanza del vescovo
Letteratura italiana
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UNA SPIAGGIA DI ARIDE COSE
Romanzo ambientato sulle rive del lago Maggiore, circondate da splendide ville che ospitano però esistenze sfatte nell’immediato dopoguerra, siamo nel 1946. “Una spiaggia di aride cose” come da Vittorio Sereni, citato in esergo.
Il protagonista e voce narrante di questo decadente scritto è un giovane di trent’anni, appena rientrato dalla Svizzera dove si era rifugiato per non combattere la guerra. Possiede un’imbarcazione e, una sera mentre attracca nel porticciolo di Oggebbio, in una delle numerose soste della sua ultima vacanza dalla vita prima di riprenderla in mano, viene avvicinato da un signorotto del luogo, un avvocato, ben ammogliato. Con una serie di pretesti Orimbelli, questo il suo nome, quasi lo circuisce e lo trascina dentro la sua esistenza fatta di sotterfugi, amanti, evasioni, in perenne atteggiamento godereccio e al tempo stesso furtivo, sleale, scorretto. Gli racconta segreti, gli presenta amanti, ma soprattutto ne anticipa le mosse, autonominandolo quasi il suo perfetto antagonista, nel sottile e antico gioco della seduzione e della conquista. Lo fa soggiornare nella stanza del vescovo nella sua villa, dove ospita anche la bella cognata Matilde, vedova di un ufficiale morto in Africa da dove lui è invece rientrato. Le uscite con la barca si moltiplicano in un crescendo di possibilità che coinvolgeranno a spirale tutti i personaggi, escludendoli o integrandoli, creando nuovi scenari tesi a collassarsi in un susseguirsi di eventi tragici. L’ambientazione lacustre è perfetta, a mio avviso l’aspetto più notevole dell’opera, le incursioni erotiche, sornioni ed efficaci e mai volgari, utili a caratterizzare personaggi e periodo storico, il modulo narrativo teso al giallo ma d’ambiente in un realismo efficace e molto italiano. Lo consiglio anche se "La spartizione" è per me decisamente superiore.
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Provincia intramontabile
Molto spesso andare a scovare in libreria (quella di casa) autori un po' dimenticati, può riservare piacevoli sorprese.
Piero Chiara scrive dipingendo il paesaggio che ha scelto con precisione di tratto, ti fa respirare le sue atmosfere, a volte goliardiche e frizzanti, a volte più cupe e decadenti.
Qui ci ritroviamo alle prese con due uomini, due reduci di guerra, con i loro vizi e debolezze, a navigare in un 'imbarcazione sul Lago Maggiore, tra acque calme e agitate, con donne libere e libertine...
Il tono apparentemente leggero e superficiale nasconde, in realtà, una più profonda introspezione psicologica dei personaggi.
La narrazione è spruzzata da una leggerissima sfumatura "gialla", che, in realtà, è funzionale a scandagliare più da vicino l'animo del protagonista più che ad innescare nel lettore la tensione tipica del genere.
La scrittura è un po' datata, ma assolutamente gradevole e musicale.
Si evince in Piero Chiara un certo amore per i piaceri della carne, per la debolezza dell'uomo di fronte alla bellezza femminile, ma senza mai cadere nella volgarità...si tratta più che altro di situazioni da commedia all'italiana.
Temistocle Mario Orimbelli è un personaggio che rappresenta benissimo un certo tipo di uomo italiano...furbo, fannullone, approfittatore, libertino e disonesto.
Nessuno meglio di Ugo Tognazzi avrebbe potuto interpretarlo nell'omonimo film.
Una lettura più che piacevole.
Un autore che, probabilmente, andrebbe rivalutato.
Si dice che Andrea Vitali sia, in un certo senso, il suo erede: personalmente credo che P. Chiara sia su un altro livello. Superiore.
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Romanzo senza anima
Il motivo per cui ho deciso di leggere questo libro sono le recensioni positive che ne sono state fatte. E devo dire, dopo averlo finito, che sono alquanto meravigliata perchè lo trovo un romanzo insipido, che non desta alcuna emozione e non coinvolge. E’ solo una tediosa sequela di fatti accaduti (….e poi è successo questo, e poi abbiamo fatto quello, quindi siamo andati lì….) che non acchiappa il lettore. I personaggi non provocano nessuna affezione ma restano freddi e distanti. Anche lo stile della scrittura lascia molto a desiderare. E lo pseudo giallo finale sembra messo li a forza per cercare di destare inutilmente curiosità
Non credo che leggerò mai più niente di questo autore.
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Passioni di provincia
Fra tutte le opere di Piero Chiara questa è quella che ha più le caratteristiche del romanzo, per completezza nello sviluppo della vicenda e perché ha un finale che lascia aperte diverse possibilità.
Vi sono anche altri elementi che concorrono ad attribuire questa classificazione, non presente in altri lavori dell’autore, con caratteristiche più di racconti lunghi, cioè di storie compiute, che iniziano e si concludono senza ulteriori prospettive.
Mi riferisco, in particolare, all’accuratissima ambientazione storica (siamo nell’immediato dopoguerra), alla struttura del giallo (presente peraltro anche in altre opere, come per esempio I giovedì della signora Giulia), nonché, soprattutto, alla rilevante introspezione psicologica dei personaggi, delineati in modo veramente mirabile. Al riguardo assume uno spessore di grande valore il ritratto di Matilde, una giovane vedova in cui è sempre presente il rimpianto per il matrimonio non consumato e la carica erotica, pronta a esplodere da un momento all’altro. La descrizione di questo status è di alta scuola e rivela un notevole studio della psicologia femminile.
Chiara però si supera con la figura dell’Orimbelli, un personaggio enigmatico, dalla doppia contorta personalità e che è di fatto l’autentico protagonista del romanzo. Costui è uno che vive di ricordi, soprattutto della guerra d’Africa, ma è sostanzialmente un frustrato, fallito come avvocato e che, se ha un po’ di soldi, è solo per aver sposato una moglie ricca, ma brutta.
Poi ci sono figure di contorno, altrettanto ben delineate, fra le quali l’autore stesso che narra in prima persona, ovviamente non con il suo vero nome; al riguardo, quell’incertezza della vita, quel desiderio di cambiare, restando comunque se stessi, propri di Chiara, sono sempre ben presenti.
Ho accennato prima all’ambientazione e ritengo ora doveroso parlare dell’atmosfera, sonnacchiosa e decadente, in cui si svolge la vicenda. C’è così un lago Maggiore che alterna momenti di luce ad altri cupi, c’è un giallo che non è lo scopo della narrazione, ma è funzionale strettamente alla trama, tanto che si intuisce subito l’identità del colpevole.
Non è però la ricerca dell’assassino lo scopo vero dell’opera, ma le motivazioni del delitto, l’analisi profonda della psicologia del reo, le reazioni dei personaggi di contorno, secondo un susseguirsi di scene che si ricollegano perfettamente, senza accentuazioni di ritmo, ma con una logica di inequivocabile validità.
L’insieme di questi elementi mi portano a concludere che La stanza del vescovo è una delle migliori opere della letteratura italiana del novecento.