La masseria delle allodole
Letteratura italiana
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Bella trama, stile deludente
La storia della famiglia armena Arslan, sterminata dai turchi durante il genocidio del 1924.
Mi accodo alle opinioni di molti altri critici che hanno lasciato, su questo sito, la loro recensione: questo libro e' stato per me una delusione.
L'avevo comprato piu' di dieci anni fa, su consiglio del mio professore di storia, ed e' spesso elogiato come racconto vivido e toccante di un massacro spesso dimenticato. Mi sono decisa a leggerlo solo adesso, matita alla mano, sperando di trovare qualche prezioso esempio di stile e metafore (mi piace sottolineare e appuntare i miei libri).
La storia l'ho trovata di per se' interessante e molto toccante, il massacro della famiglia e' descritto in modo vivido e crudo e ti penetra nelle ossa, te lo ricordi quando stai per addormentarti, ed e' traumatizzante il terribile destino a cui sono state sottoposte queste povere persone. Per questo, tuttavia, mi piacciono i libri ispirati alle storie vere, perche' permettono di rendere umani e vicini eventi e massacri che altrimenti rimarrebbero freddi dati da libri di scuola.
Pero' lo stile mi ha deluso parecchio:
-la scrittrice si identifica spesso come "la bambina" e parla di se' in terza persona, raccontando come il "Solo da vecchio Yerwant aprirà con la bambina la teca della nostalgia". Perche'? Ho capito che hai scelto di parlare dei personaggi in terza persona, nonostante siano i tuoi familiari, ma non puoi definirti anche tu come una semplice nipote? Del tipo "Solo da vecchio Yerwant aprira' a sua nipote la teca della nostalgia"
-La scrittrice utilizza passaggi in corsivo e di stile vagamente poetico per farti intuire cosa accadra' ai personaggi in futuro. Perche'? Puo' essere usata una semplice prolessi, sullo stampo di quelle utilizzate da Marquez in "Cent'anni di solitudine"
-Lo stile e' di quelli che "vuole emozionare per forza", spesso cerca di farti venire il magone, di commuoverti, e questo sforzo si intravede e rovina tutto.
Insomma, la trama e' bella, lo stile un po' meno, e mi dispiace davvero tanto dover dare una recensione del genere
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La maledizione degli armeni
“Costantinopoli, sera del 24 aprile 1915. La grande retata ha inizio”.
Antonia Arslan decide di raccontare una storia, ma non una storia qualsiasi ma quella della sua famiglia. “Solo da vecchio – a bocce ferme – Yerwant aprirà con la bambina la teca della nostalgia”.
Yerwant è il nonno della nostra autrice; l’Arslan è nata in Italia e pur non avendo vissuto in prima persona “la maledizione degli armeni”, porta dentro di se un grande dolore.
Siamo nel 1915 in Turchia e gli ordini sono chiari:
“Qui si incide un bubbone, hanno spiegato gli ittihadisti, senza rancori personali, per far guarire il corpo ammalato della nazione, per fare pulizia. E a coloro che opereranno bene, molto sarà perdonato, e dato il libero godimento di ciò che possono spremere da questa impura sottorazza di preti e trafficanti”
“Nessuna pietà per donne, vecchi e bambini. Se anche un solo armeno dovesse sopravvivere, poi vorrà vendicarsi”.
“La masseria delle allodole” è il primo libro di una trilogia, seguito poi da “La strada di Smirne” e “Il rumore delle perle di legno”.
Se il libro mi ha colpito per il contenuto, andando, infatti, a toccare un argomento molto forte come il genocidio degli armeni, dall’altro mi ha sconcertato per lo stile. L’autrice non mi ha emozionato pur avendo tutte le carte in regola per farlo. L’Arslan sta, infatti, raccontando la storia della sua famiglia, della sua gente ed è stata anche insegnante di letteratura, ma pur avendo tutti questi elementi a sua disposizione resta sempre in superficie, non arriva e soprattutto mi ha trasmesso poco.
Il suo stile mi è davvero così poco congeniale che per il momento ho deciso di non continuare la lettura degli altri e in particolare mi è rimasta la voglia di approfondire l’argomento e per questo dovrò rivolgermi altrove.
Peccato, di questo libro avevo davvero sentito parlar bene, ma i gusti son gusti e ognuno ha i propri…
Buona lettura!
La masseria delle allodole.
"C'è un momento nella vita di ogni donna armena, in cui la responsabilità della famiglia cade sulle sue spalle. Noi moriremo, per evitare questo peso alle nostre perle, alle nostre rose di maggio: e infatti moriamo:"
Un libro bellissimo e tristissimo, una vera testimonianza storica, quella della deportazione ed uccisione di massa del popolo armeno nel 1915 mentre nel mondo si iniziava a combattere la prima guerra mondiale.
La scrittrice Antonia Arslan racconta in maniera diretta, chiara e tagliente la storia della sua famiglia, dei suoi avi che morirono per mano degli ittihadisti che volevano eliminare la razza armena dal mondo e che ordinarono di fare un lavoro pulito e sistematico: prima uccidere gli uomini, poi deportare bambini, donne e vecchi fino nel deserto di Des-es-zor, sperando che la maggior parte morisse durante la traversata a causa degli stenti, delle privazioni, degli attacchi da parte dei predoni curdi, se fosse rimasto vivo ancora qualcuno là avrebbero trovato comunque la loro fine.
"Ancora per questa volta: Sempad e i suoi avranno sepoltura cristiana. A tutti gli altri armeni che perderanno la vita in quei mesi funesti, trucidati, morti di sete e di fame lungo le strade anatoliche, con scherno coerente sarà negato anche ogni funebre rito. O meglio: non ce ne sarà bisogno. Un singolo morto era prima un essere che respirava, era vivo, e la sua spoglia è un cadavere che può essere onorato: centomila morti sono un mucchio di carne in putrefazione, un cumulo di letame, più nulla del nulla, un'immonda realtà negativa di cui disfarsi."
Il libro ci racconta anche del dolore di coloro che sono rimasti perchè scappati dall'Anatolia in cerca di fortuna e di ricchezza e che non hanno più una Patria alla quale far di nuovo ritorno, il dolore di chi ha perso gli odori, i sapori, le usanze ed i costumi, la sua gente ed i suoi cari, la gioia, la consolazione e la nostalgia per il loro Paese di Origine.
Magnifico il ricordo delle donne armene: madri che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia perchè pur soffrendo atrocemente, hanno lottato ed usato qualsiasi espediente per cercare di salvare i loro figli unica salvezza affinché un'intera etnia non rischiasse di scomparire.
Un libro che ci porta a riflettere, a pensare, doloroso, drammatico e triste, a 100 anni da quei fatti drammatici, dove alcuni uomini decisero le sorti di un'intera etnia, quella armena, spesso affermiamo che la storia si ripete ed è purtroppo vero, basta aspettare la seconda guerra mondiale dove furono gli ebrei a dover subire la stessa identica sorte. La deportazione armena purtroppo è stata ricordata meno di quella degli ebrei, ma entrambe sono un atto terribile, crudele ed inspiegabile: perché si sono uomini che possono decidere il destino e la vita di altri uomini? Perché è necessario trovare folle da sacrificare per godere poi del loro sangue? Domande alle quali è difficile rispondere, perché non è capibile l'odio ed il desiderio che porta a dover uccidere persone uguali a noi, ma con tradizioni, religioni ed costumi diversi.
"Qui si incide un bubbone, hanno spiegato gli ittihadisti, senza rancori personali, per far guarire il corpo ammalato della nazione, per fare pulizia. E a coloro che opereranno bene, molto sarà perdonato, e dato il libero godimento da questa impura sottorazza di preti e di trafficanti."
Consiglio vivamente a chiunque di leggerlo per non dimenticare fin dove può portare la crudeltà umana.
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Che delusione!
Non nascondo che avevo molte aspettative per questo romanzo della Arslan: l’ambientazione un po’ esotica, un genocidio (quello degli armeni) rimasto per troppo tempo sotto silenzio e la vittoria al premio Strega nel 2004 mi avevano appassionato ancor prima di avere per le mani il libro.
Forse mi aspettavo chissà cosa, forse mi ero illuso di trovarmi di fronte a un grande e tragico affresco storico, a una di quelle opere di narrativa che tengono inchiodato alla poltrona il lettore fino all’ultima pagina, con un coinvolgimento emozionale crescente.
E invece non ho trovato nulla di tutto questo e mano a mano che scorrevo le pagine, zeppe di personaggi spesso insignificanti, cresceva in me una noia che mi stizziva.
Non è che la vicenda di cui si parla sia poca cosa, ma è il modo in cui è raccontata. Aleggia soprattutto la freddezza di un rapporto burocratico che nemmeno si trova nei testi di storia e questo non è un saggio storico, ma un romanzo di vita vissuta dei parenti dell’autrice, poiché lei, per fortuna, non è stata direttamente toccata dalla strage turca, avvenuta diversi anni prima che nascesse, peraltro nel nostro paese.
Io sono il primo a sostenere che la presenza dello scrittore deve essere sfumata, nel senso che i suoi personaggi debbono avere, almeno in apparenza, la più ampia autonomia, ma se non c’è anche la più piccola partecipazione emotiva riesce difficile coinvolgere chi legge, che deve avere la certezza di non assistere a una rappresentazione in cui i personaggi si muovono in modo scoordinato, afono e sovente meccanico.
Purtroppo mi sono trascinato all’ultima pagina fra uno sbadiglio e l’altro, chiedendomi ancora una volta che senso ha un premio come lo Strega che fino a quasi tutto il secolo scorso ha saputo riconoscere il giusto merito a opere di valore, ma che da un po’ di tempo incorona d’alloro romanzi banali, non poche volte nemmeno scritti bene.
Per quanto ovvio, almeno secondo il mio metro di giudizio, ne sconsiglio la lettura.
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La masseria delle allodole
Leggere questi libri per me ha un po’ il sapore del ritorno a casa dopo un lungo viaggio, c’è poco da fare queste letture mi appassionano sempre, la vita vera per crudele che sia è per me un’attrazione irresistibile, è giusto intervallarli con letture più leggere ma alla fine ci ricado sempre.
L’autrice ci racconta la storia della sua famiglia armena e del genocidio del suo popolo da parte dei turchi nel 1915. Gli armeni erano grandi lavoratori, gente semplice , la sua famiglia in particolare era ricca e illustre, suo zio era l’unico farmacista al villaggio, nel giro di poche ore accade l’impensabile e la situazione si ribalta ,perdono tutto, le case il denaro la dignità e purtroppo la vita . Gli uomini vengono assassinati subito e le donne deportate , caricate su carri e poi in seguito a piedi sono costrette a percorrere un lungo cammino prive di acqua di cibo sotto il tiro dei fucili e le torture delle guardie che le accompagnano .
Sono donne molto combattive che lottano fino in fondo e si sacrificano per la salvezza dei propri figli e dei propri cari , davvero belli questi personaggi così forti e coriacei e la caratterizzazione di alcune di loro le ha reso davvero giustizia.
Devo essere sincera lo stile narrativo non mi è piaciuto granché , mi sono un po’ persa nei troppi nomi stranieri, gli eventi narrati a volte si accavallavano un po’ facendo perdere fluidità nella lettura e spesso non erano ben approfonditi ma solo abbozzati . Insomma una lettura non semplicissima , sono tornata a volte indietro perché non avevo capito bene alcuni passaggi , avrei preferito uno stile più diretto, e magari una presentazione dei protagonisti più graduale e quindi più chiara al lettore, ci sono pagine e pagine con davvero troppa carne al fuoco.
Un libro davvero commovente , che non risparmia al lettore neanche i particolari più crudi e forti di questi avvenimenti ,di cui io personalmente sapevo molto poco, lo consiglio, sempre per lo stesso motivo, per non dimenticare .
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Dolorosi ricordi
La professoressa Antonia Arslan esordisce sul panorama letterario italiano con un romanzo assai amaro, per ricordare le atrocità perpetrate a danno del popolo armeno, avvalendosi di fonti molto preziose e attendibili, quali i ricordi familiari a lei trasmessi dai nonni.
Quella narrata è la storia di un sogno infranto dall'odio e dalla crudeltà dell'essere umano, è la storia della felicità annientata di una famiglia come tante, brava gente dedita al lavoro e agli affetti più intimi, è la storia di bambini e adolescenti che porteranno delle indelebili ferite nel cuore; ma vuole essere anche la storia della bestialità umana e la storia di ideologie sbagliate al soldo di gente senz'anima.
Il valore del romanzo sotto il profilo di documento storico è innegabile, perchè nulla di tutto ciò che accadde in Turchia cada nell'oblio, anzi è giusto ricordare e far ricordare agli uomini, eventi disastrosi e ignominiosi di cui si sono macchiati i propri simili.
Ciò che caratterizza marcatamente il racconto, è lo stile adottato dall'Arslan; complesso, non immediato, pindarico. Ne deriva una lettura in salita, a tratti difficilmente comprensibile, per l'eccessiva fusione degli episodi narrati con gli stati d'animo dei numerosi protagonisti, dando vita ad un lavoro a tratti fuorviante e scarsamente incisivo.
Probabilmente una scrittura più diretta ed un maggior approfondimento psicologico dei personaggi, avrebbe reso la narrazione più solida sul piano emozionale, provocando sensazioni più forti nel pubblico.
Dopo aver letto il capolavoro della Khayat che tratta dello stesso argomento, Le stanze di lavanda, si potrebbe rimanere un pizzico delusi dalla lettura di questo romanzo; tuttavia è d'obbligo ricordare che ogni autore affronta la narrazione in modo del tutto personale, mettendo in campo lo stile più consono al proprio modo di provare le emozioni e di esprimerle.
Un plauso all'autrice, per avere avuto la forza e il coraggio di dare voce ai ricordi di una intimità e serenità familiari violate, rendendo partecipe il mondo intero di dolorose memorie che il tempo non cancellerà mai.
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La forza del ricordo.
Un libro molto bello.
Antonia Arslan fa rivivere a tutti noi il periodo più triste del popolo armeno.
Nel 1915 il movimento nazionalista dei Giovani Turchi portò a compimento un genocidio etnico-religioso impressionante. Gli armeni, minoranza cattolica, vennero sterminati e logorati nelle marce interminabili lungo il deserto anatolico.
La conta parla chiaro: un milione di morti.
Qualcuno disse che non c'era stato il tempo di far nulla...da un anno si combatteva la prima guerra mondiale...mica robetta...
Ma un grande scrittore ebreo, Franz Werfel,stilò il suo capolavoro proprio con l'intenzione di fermare l'orologio della Storia su questa tragedia.
"I quaranta giorni del Mussa Dagh" è il libro di riferimento anche dell'Arslan che ha il pregio, nella sua Masseria,di trasferirci il senso quotidiano del dolore.
Anni dopo, purtroppo, un lurido porco austriaco, nel preparare un genocidio ancora più titanico ebbe modo di dichiarare:"Gli ebrei?E che volete interessi al mondo degli ebrei? Il mondo ha parlato quando sono stati scannati gli armeni"?
Purtroppo, il maiale aveva ragione.
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Ricordiamo anche genocidi meno discussi
Il genocidio degli ebrei è noto a tutti, per la sua cruenza e l'esoso numero di vittime. Ma vi sono state tragedie al pari cruente e sanguinose. Una di queste è la "pulizia etnica" armena nei primi decenni del 900. Antonia Arslan racconta direttamente a sua storia e quella di una famiglia che nel giro di poco tempo è stata privata di tutti beni, fino a quelli massimi quali la dignità e la vita. Il romanzo non fornisce informazioni di carattere storico e politico, è incentrato tutto sulle emozioni, lo strazio e la sofferenza della famiglia. Lo slancio emotivo e la narrazione a volte dura rilevano uno scenario di alta drammaticità, che fa immediatamente breccia nel cuore del lettore e lascia spazio anche alla riflessione per quelle storie meno conosciute ma che, trasposte nella nostra realtà, sono ancora attualissime.
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La storia si ripete..
E ancora, ancora, ancora.
Ecco, davanti a noi, ancora una volta, un libro che narra di genocidio. Non nazista, però, ma armeno.
Genocidio a quanto pare dimenticato, accantonato davanti alla strage ebrea consumatasi trent'anni dopo.
Stesse modalità, stesso pensiero: è proprio vero che la storia si ripete..
L'autrice narra delle esperienze famigliari prima e durante le deportazioni armene, esperienze dalle quali si estraggono anche le deportazioni armene del 1896.
Stile confusionario, ma il resto è sopra la media. E finalmente un libro che parla di storie nascoste.
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delicato e potente
Leggo e rileggo la prima parte. poi torno a leggere le parti in corsivo, che sono i rari momenti in cui l'autrice inserisce i suoi sentimenti personali con così tanto fatalismo e amore che ci lascia come in un ponte sospeso su un grande precipizio.
certe volte non capisco la struttura della frase, altre devo tornare a rileggere alcuni passi che ritrovo poi nel proseguo. nomi strani e a noi sconosciuti incalzano e si va un po' per intuizione nel capire il senso di quel preciso momento del racconto.
figure di donne, eroine non per scelta ma per puro caso. no, non sono eroine. sono solo donne che si scontrano con la tragicità di quei momenti ma che non dimenticano un solo istante della loro dannata vita qual è la cosa che ci fa sopravvivere nel mondo più crudele: l'essere madri, sorelle o protettrici di quello che è il futuro che i bambini devono avere a tutti i costi. per dimostrare che la vita non è solo marcia fetida e sporca, non sono solo le violenze fisiche e morali, non è solo sangue e morte.
e quello che vivono e scelgono le donne di questo racconto non è di pertinenza solo femminile, ma di tutto il nostro genere umano. solo di quel genere che si può ancora definire "umano".