La masnà La masnà

La masnà

Letteratura italiana

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Che cos'è la libertà? Difficile dirlo per Emma Bonelli, che sulle colline del Monferrato piemontese, nell'aprile del 1935, per la prima volta varca la soglia della casa dei Francesi, sposa al ciabattino zoppo che le hanno dato per marito. Emma ha la terza elementare. La sua dote è misera. Di bello ha solo una massa di riccioli rossi, che presto taglierà senza pietà. Però è una gran lavoratrice, e per questo i Francesi, che hanno tanta terra e poche braccia, l'hanno voluta come nuora. Anche per sua figlia Luciana libertà non è che una parola lontana, mai sperimentata sulla pelle. Solo una volta l'ha quasi assaporata, quando le è stata data l'occasione di diventare sarta, ma poi il marito, la figlia, la casa, la vita hanno preso il sopravvento. Forse solo Anna, nata negli anni Settanta, l'unica donna della famiglia a poter proseguire gli studi, spezerà la catena di rinuncia e sottomissione a cui ha visto piegarsi la madre e la nonna. Emma, Luciana, Anna, tre donne diverse, ugualmente legate alla vecchia casa in collina, obbligate a lasciarla dai rivolgimenti della Storia e dalla durezza dei rispettivi destini. Tutte desiderose di tornarvi. E tutte, in modi diversi, masnà, bambine. In un gioco di sorprendenti rivelazioni, miserie quotidiane e commoventi eroismi, questo romanzo è allora anche la storia di una scelta difficicile e coraggiosa: rompere l'esilio, tornare alla casa dei Francesi, sentirsi libere. Perfino di sbagliare. E smettere, finalmente, di essere masnà.



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La masnà 2012-09-26 15:05:37 maria.luperini
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maria.luperini Opinione inserita da maria.luperini    26 Settembre, 2012
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Protagonista la donna

“Il mercoledì pomeriggio in cui Luciana disse che non avrebbe mai più rimesso piede nella casa dei Francesi era appena cominciato l’inverno (…) sua figlia Anna sollevò gli occhi. Nella sala d’attesa c’era odore di alcol. I rami delle acacie, oltre i vetri, scricchiolavano per il gelo. (…) nello studio medico tutto appariva non evitabile, al pari dell’agonia di Emma Bonelli, sua madre, due porte più in là” (pagg. 9-10). È così, in queste prime pagine, che vengono presentate, insieme, le protagoniste di questo libro: figlia, nonna e nipote, tre generazioni di donne che raccontano, con le loro storie, la storia della condizione della donna dagli anni Trenta ai giorni nostri. E, insieme con loro, le acacie, il cui profumo, i cui fiori accompagnano i sentimenti lungo tutto il tempo delle vicende. E ritornano nei ricordi. Così come nello stesso prologo troviamo, fianco a fianco, i punti salienti che segnano e, in qualche modo, riassumono la vita di ciascuna: l’unica “colpa” di Emma Bonelli, che è anche l’unica espressione di libertà di scelta, riguardo all’ospitalità data al partigiano Carlin; la peculiare caratteristica di masnà di Luciana, debole e sottomessa; e Anna ritratta nell’atto di studiare le carte, che sono poi quelle legali che potrebbero consentire alla madre di riscattare l’eredità perduta con l’inganno. Coerentemente al disegno su cui si basa, il romanzo si sviluppa in tre fasi, identificate in tre parti titolate diversamente. Nella prima, L’arrivo, ecco l’ingresso di Emma Bonelli nella casa dei Francesi, “tanta terra e poche braccia” (pag. 30), contadina con poca dote ma molta forza fisica, sposa all’erede ma anche serva di tutti, rassegnata al suo ruolo perché è l’unica strada che le è stata indicata. Nella seconda parte, L’esilio, c’è il tempo dell’allontanamento dalla casa di campagna di Emma e Luciana, che nel frattempo ha accettato il marito che le è stato offerto e, con lui, la madre e la figlioletta, si trasferisce in una piccola città per aprire un ristorante. “Lunedì otto in punto Sala Finizioni. Luciana si fa rossa, abbassa gli occhi, spera che le altre non abbiano sentito. L’invidia è una brutta bestia” (pag. 77), inizia così, con la possibilità di un lavoro migliore che la libererebbe ma che masnà non riesce a comunicare alla famiglia, questo capitolo che gira tutto sulla sofferenza toccata alla figlia, una sofferenza che Emma non ha mai conosciuto: quella del dubbio, dell’opportunità di scegliere, della necessità di trovare il coraggio per farlo. “Non si decide a entrare…è sempre così, quando bisogna prendere una decisione…che c’è di male? Sei libera!...un’altra fitta allo stomaco. Mamma. Papà. È una grande occasione. La mia grande occasione”(pagg. 91-92). Luciana non ce la farà. Rinuncerà alla sua occasione. E sposerà Franco Cermelli. Ma è nella terza parte, Il ritorno, che avverrà il suo riscatto, con l’aiuto della figlia Anna “anche se il dolore passato non passerà…sorride pensando che di tutto quel che era, almeno lei, almeno in parte, c’è ancora” (pag. 327). Non giova, qui, raccontare la trama per intero, tanto è complessa e avvincente, svolta con uno stile che dispiega l’oggi agli occhi del lettore, vuoi con ritorni al passato, vuoi con fughe in avanti nella storia. Anche perché la trama, in fondo, è solo un pretesto per dire la storia vera, quella della donna, nel Monferrato parzialmente immaginario che è il luogo di tutti i luoghi. Con un umanesimo nuovo, dove le donne sono al centro della scena, senza ideologismi né teoremi da dimostrare. Per “decidere di essere, per se stessi, padre madre e fratello” (pag. 326), come Luciana, cioè libere. E gli uomini ne escono un po’ sconfitti, laddove i personaggi maschili sono o prepotenti o imbelli. Ma già altri autori hanno affrontato in questo modo il tema della forza femminile, si pensi al Saramago di Cecità. Tanto che l’uomo che subirà la conquistata libertà di Luciana non sarà più il fratello maschio, il tanto decantato Mario che “’l sa”, secondo il ritornello di Emma e della sua normalità di sottomissione, ma “solo l’ultimo dei Francesi” (pag. 287), laddove i Francesi assurgono a incarnazione della baronia maschile. Scritto in un italiano attento e, a tratti, prezioso, il romanzo si offre alla lettura morbido e scorrevole, lasciando una sensazione di corposità, mai banale; infiorato, nei momenti cruciali, da un idioma dialettale che, come afferma la stessa autrice nei ringraziamenti finali, viene dall’infanzia, scritto come ancora le suona in testa, tanto da rendere al meglio il corso dei pensieri dei personaggi e intriderli della loro quotidianità. Il che lascia intendere anche un certo autobiografismo o, per lo meno, un attingere pieno e consapevole al mondo che si è vissuto. Ed è la stessa Romagnolo che chiosa: “Forse, per affrontare i fantasmi, l’unica è farne storie”.

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