La locanda dell'Ultima Solitudine
Letteratura italiana
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Ho prenotato in quella Locanda
La Locanda dell’Ultima Solitudine di Alessandro Barbaglia è una storia tracciata ai confini del nonsense. Vediamo se riesco a disegnarne una sinossi ragionevole.
Alla misteriosa e taumaturgica Locanda (“Ho prenotato in quella Locanda di cui ho trovato il biglietto nel suo baule”) confluiscono i percorsi esistenziali di due giovani: Libero e Viola.
Lui ha sposato la figlia del sindaco della Città Grande.
Lei abita in un paesino chiamato Bisogno e discende da una stirpe ove le donne hanno nomi di fiori (“Una volta Margherita accordava i fiori”) e sono per lo più dedite ad attività a dir poco voluttuarie: “Il mercoledì avrebbe organizzato anche un corso per imparare a piangere. Il primo livello era facile, si usavano le cipolle, ma poi bisognava fare tutto senza aiuto.” Viola ha inoltre patito un grande dolore: suo padre si è allontanato (e come non capirlo, vien da chiedersi, anche noi forse saremmo fuggiti a gambe levate da lì!).
La locanda è stata forse fondata da un ragazzino fuggito – anche lui! - ai tempi dei partigiani (“I dodici partigiani dell’Ossola l’avevano preso con loro perché era figlio di falegname… sapeva pelare patate…”) ed è gestita da un misterioso uomo con i baffi.
Poi i luoghi astratti – la Città Grande e Bisogno - si definiscono: così compare la stazione di Orta e la Locanda si materializza in zona Camogli (“Aveva ancora la forma dell’Ultima Solitudine, la forma dell’uomo che non accetta la vita per paura di morire. E abbandona tutti, per morire solo. O solo per morire”).
Tra ontologia prêt à porter e umorismo che grida vendetta (“Ma i cani non spariscono, scappano!... Forse la pipì scappa, ribatte Libero con aria stizzita”), ho stentato a sintonizzarmi con il tono di questa storia (finalista al premio Bancarella 2017).
Giudizio finale: stralunato, naïf, grottesco.
Bruno Elpis
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Due sentite solitudini alla Locanda
Benvenuti alla Locanda dell'Ultima Solitudine. Ma prima scrutiamo due vite, due solitudini. La prima è quella di Libero, che vive nella Città Grande in una casa vuota con le pareti dipinte di blu. L'unico a fargli compagnia è il suo cane, "Vieniqui". Quando la sua vicina di casa trasloca gli lascia un baule, nel cui fondo trova un bigliettino della Locanda dell'Ultima Solitudine, e lui telefona prenotando un tavolo, ma ..... per dieci anni dopo! E' certo che lì e solo lì, in quella locanda arroccata sul mare, costruita col legno di una nave mancata, la sua vita cambierà. L'importante è saper aspettare.
Anche Viola aspetta: la forza di andarsene. Da anni scrive lettere al padre, scomparso anni prima, lasciandola sola con la madre a Bisogno. Ed è lì, dove i fiori si scordano e da generazioni le donne della famiglia di Viola, che portano tutte un nome floreale, si tramandano il compito di accordarli, che sente il peso di un'assenza e la voglia di rinnovamento.
Ecco che appare la Locanda: "E' tutta il legno, la Locanda, alterna le pareti scure alle finestre piene di luce da cui entra sempre un po' di vento. (...) se sai arrivarci, facendo tutto quel sentiero al buio che ci vuol poco a perdersi, quello è il posto più bello del mondo!". Due storie così semplici, raccontate in modo originale e sorprendente. Una locanda come luogo di passaggio, dove transitano coloro che hanno bisogno di far pace con il passato, prima di incamminarsi verso il futuro.
Il libro è un racconto onirico, intenso ed appagante, capace di fluttuare attraverso mondi fantasiosi e realtà vicine al lettore, costruendo con lui una forte empatia ed inevitabile connessione con i suoi protagonisti e le sue umane emozioni. Catturati da un paesaggio incantevole ed artistico, vivo come una tela appena dipinta. Lo stile linguistico dell'autore non tradisce, conferendo alla lettura la forza di un dialogo intenso, sincero e diretto con il lettore, legato a doppio filo ad una storia che parla di persone sconosciute e luoghi mai visitati, ma che narra anche un po' di sè attraverso una prosa che è capace di incantare ed ammaliare.
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Lettere al padre
E’ strana la prosa di questo libro. Sembra una poesia. E’ fatta di associazioni di immagini, di frasi brevi, ritmate. E’ impalpabile. Come una poesia. E la sua lettura non è facile, all’inizio ti affascina, dopo un po’ ti stanca, perché ti sembra di perdere il filo, poi quando ritorni a capire ed a collegare, ti riaccende, per poi sfilacciarsi di nuovo. Ti rimane addosso un senso di vuoto. L’impronta del silenzio. Bellissima la favola del cane Nero, in cui trovi tutta la magia di una bambina. Le sue lettere al padre sono una delle parti che più mi ha colpito, perché in tanti punti emerge prepotente il rapporto bimba-papà. Questo papà che le accarezza l’anima, arrivando al centro piccolo e prezioso di quel suo essere bimba. Sono state per me le parti più emozionanti, che hanno messo decisamente in secondo piano la locanda.