La ferocia
Letteratura italiana
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Recensione della Redazione QLibri
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La ferocia di Nicola Lagioia
“L’agnello crea la tigre facendosi mangiare da lei” – queste le parole che Michele, uno dei personaggi salienti dell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia “La ferocia”, rivolge alla sorella Clara, ed è in queste parole il vero significato dell’opera.
Non è forse facile per chi ancora nutra delle illusioni sulla condizione in cui versa l’umanità oggi, accettare il quadro che Lagioia dipinge di una parte di quella società che costruisce sull’inganno, sul raggiro, sulla disonesta gestione dei fondi dello stato, il proprio benessere e la propria ricchezza, senza esitare a servirsi persino della complicità di alcuni rappresentanti delle istituzioni.
La storia della famiglia Salvemini, di Vittorio e Annamaria e dei quattro figli, Ruggero, Clara, Michele, Gioia, si svolge in una delle parti più belle del territorio pugliese, sottoposto troppo spesso alle speculazioni e allo sfruttamento da parte di imprenditori senza scrupoli, dei quali Vittorio è importante esponente.
Il dramma che travolge l’intera famiglia ha radici antiche, nasce dal desiderio di elevarsi nella scala sociale, acquisendo potere attraverso il denaro. In questo ambiente, dove i figli nascono e crescono nell’abbondanza, l’inarrestabile ambizione dei genitori cancella ogni manifestazione d’amore e di rispetto. Annamaria, moglie tradita e offesa di Vittorio, accetta di allevare il figlio illegittimo del marito, celandosi dietro un atteggiamento di grande generosità che susciterà la gratitudine del coniuge e sarà sicuramente la carta vincente che le consentirà di conservare gli agi e i privilegi ai quali si è abituata.
Ed è proprio intorno alla figura di Michele, il bastardo, e Clara, la sorellastra poco più grande, che si scatenano le tensioni più laceranti. Tra loro si instaura un rapporto di intima complicità, un vincolo affettivo profondo e controverso.
È sempre l’amore a essere messo in discussione. Laddove esso non riesce a esprimersi o non può realizzarsi, non c’è speranza per l’individuo. Ciò determina la disperazione e lo squilibrio psichico di Michele, privato dalla nascita dell’amore materno, ciò determinerà il disperato autolesionismo di Clara, che si perderà in rapporti avvilenti e degradanti, non per vizio, ma per una spasmodica volontà di punirsi.
Fondamentale in questa storia è il rapporto padre-figli: un padre che mente a se stesso e si convince di aver sempre agito solo per il bene della famiglia e non spinto dall’ambizione e dall’avidità e dei figli che lo disprezzano, ognuno a suo modo, ognuno per ragioni diverse.
Sullo sfondo di questa tragica storia, il degrado ambientale, le verità taciute, le connivenze sospette e celate.
La realtà descritta da Lagioia , tuttavia, oltrepassa i confini del nostro paese, essa diventa, io credo, metafora della condizione verso cui il mondo va rovinosamente e progressivamente dirigendosi. Più che un romanzo di denuncia che si serve abilmente della tecnica del noir che coinvolge e appassiona il lettore, “La ferocia” è un vero grido d’allarme, perché si possa cambiare rotta, finché si è in tempo. Un romanzo che ci riporta al significativo, quanto angosciante Urlo di Munch.
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CLARA E IL FENICOTTERO ROSA
Raramente un titolo si è adattato così bene al contenuto di un romanzo. Un sentimento negativo, la ferocia, che pervade innanzitutto la forma e il linguaggio. La parola stessa si ripete spesso, soprattutto nella prima parte, introducendo così il grande tema del racconto. Feroce, d’altra parte è l’intera storia di Clara, del suo presunto suicidio, delle violenze cercate e subite, della sua morte. E’ come un fantasma che aleggia in cerca di vendetta e il narratore sa evocarne la presenza come una sorta di medium. Alle spalle, una famiglia, quella dei Salvemini, dominata da Vittorio, il padre padrone, un imprenditore edile senza scrupoli, capace di sacrificare anche gli affetti più sacri sull'altare della ricchezza, che si muove alla perfezione in un sottobosco di corruzione, di tangenti, di vizi pubblici e di peccati inconfessabili, tra giudici, avvocati, politicanti, funzionari dello stato ricattabili e costretti a obbedire per tenere nascoste le loro perversioni e, in qualche caso, veri e propri crimini. In questo meccanismo che si perpetua senza apparente possibilità di redenzione, si inserisce il figlio naturale di Vittorio, Michele. Clara e Michele: due fratellastri ribelli che hanno solidarizzato e si sono legati l’una all'altro come per difendersi da quel fango su cui sono costruite le fortune, la ricchezza, gli agi, le ipocrisie, l’amore malinteso e deviato della famiglia Salvemini. Solo che Clara è spinta da un irresistibile e masochistico impulso a farsi del male che si traduce in vera e propria perversione sessuale, ambiguamente sottomessa agli interessi di famiglia. Michele è il puro, il paladino senza macchia, che porta dentro di sé un odio inestinguibile, spesso camuffato sotto una maschera di finta cordialità, verso la famiglia che l’ha accolto dopo la morte della vera madre. A lui viene affidato il racconto della storia nella seconda parte, attraverso una focalizzazione del discorso dalla quale emergono i tratti di un personalità divergente, ma disturbata e ai limiti della schizofrenia. A lui viene delegata la classica funzione dell’investigatore, che insieme a quella della vittima costituisce uno dei due poli intorno ai quali ruota il romanzo nero.
Questa forma letteraria, sottogenere del poliziesco, si caratterizza – come lo stesso autore ha dichiarato- perché, diversamente dal giallo tradizionale, il male che vi compare persiste anche dopo la soluzione dell’indagine e la scoperta dei colpevoli. E’ un male che non si ferma ad un individuo o ad uno specifico nucleo familiare, ma investe l’intera società. Ecco perché il romanzo di Lagioia è anche una drammatica denuncia della corruzione che pervade strati della piccola e media borghesia (il racconto è ambientato a Bari, ma potrebbe essersi svolto in un qualunque altro contesto urbano del nostro paese). Una corruzione che tocca anche il grande tema dei rifiuti tossici e dei guasti prodotti sull'ambiente da una criminalità che sacrifica la stessa vita delle persone all'arricchimento privato. In questa ottica assumono un rilievo analogico da non trascurare le tre bellissime scene di paesaggio: quella iniziale delle falene che scambiano la luce artificiale delle villette a schiera con la luce lunare e muoiono dopo una danza circolare di morte; i pivieri che si abbattono al suolo dopo aver bevuto l’acqua delle pozzanghere nelle saline di Porto Allegro, complesso turistico al centro della speculazione di Salvemini, intrisa di cobalto, piombo e magnesio; il fenicottero rosa che improvvisamente precipita sotto lo sguardo di una guardia forestale. Natura vs artificio, rispetto e sacralità della vita vs violenza e sopraffazione. Questo vuole denunciare l’autore attraverso correlativi oggettivi che alludono ad una violata bellezza.
Si assiste ad una continua variazione dei piani temporali del presente e del passato, che consente di illuminare le vicende attuali con il loro pregresso. Il narratore oscilla tra una terza persona esterna e onnisciente, il monologo interiore del personaggio e il discorso diretto, a volte inserito bruscamente nel flusso narrativo, con effetto spiazzante, senza stacco, verbi di dire o pensare, segni d’interpunzione. Lo stile si distingue per la sua tensione lessicale e per la complessità sintattica di alcuni passaggi, nei quali si sfiora l'oscurità, ma è nel complesso incisivo, sferzante e comunque adatto a rappresentare una realtà perturbata, innaturale, socialmente e individualmente patologica. Attraverso questi strumenti espressivi si traduce sul piano formale la ferocia che Lagioia ha inteso raccontare.
Ma, lettore, se vuoi l’indicazione di una pagina ancor più delle altre terribile, raccapricciante, rivolgiti all'episodio dello spogliatoio, dove, al termine di una partitella, un gruppo di maschi eccitati parla di Clara. Vi troverai la quintessenza della ferocia e del sessismo più bieco, il brodo di cultura di una mentalità e di un atteggiamento che possono tradursi, in circostanze particolari, in crimine. Qui si evidenziano particolarmente le doti intuitive ed espressive di uno scrittore non banale.
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La scelta di essere feroci
Il corpo di una giovane donna giace a terra senza vita.
Un macabro ritrovamento che non è corretto etichettare come suicidio. Troppe zone oscure colorano la storia della famiglia Salvemini.
Una pentola che ribolle di ipocrisie e corruzione, chiunque metta mano al coperchio sarà responsabile di dare la stura a decenni di condotte moralmente ed eticamente scorrette, in nome del dio denaro e del successo, ma non solo.
Quello rappresentato dall'autore è un magnifico castello di carta, un impero costruito su fondamenta destinate a crollare sotto il peso della verità e della giustizia.
Uno spaccato sociale dei giorni nostri di cui conosciamo dinamiche e ramificazioni grazie alle cronache quotidiane, ma l'abilità di chi narra consiste nel dare volto e anima alla storia, attraversando le superfici patinate per coglierne la linfa interiore.
Lagioia si impone di scavare nell'essenza di un società votata all'arrampicata socio-economica, unico scopo di una intera vita, quest'ultima spesa alla ricerca di un benessere materiale a discapito di una serenità conquistata con onestà.
Questa è una narrazione dalle tinte fosche, dove il seme della perdizione viene ben coltivato tanto da produrre i suoi frutti malsani.
Numerosi volti che la penna inclemente dell'autore centrifuga in un vortice di miserie e sconfitte, toccando nervi scoperti e debolezze, fino alla caduta delle maschere e alla conta delle vittime e dei carnefici.
I lettori si troveranno di fronte ad una scrittura secca, costruita su frasi brevi che devono rendere immagini e sensazioni rapide, senza filtri, senza pause.
Un ritmo serrato che impone concentrazione fino all'ultimo rigo che trasporta in una girandola emotiva che mette in comunione diretta con i protagonisti rendendo partecipi di una discesa senza ritorno.
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La ferocia faticosa
Mi risulta molto difficile scrivere una recensione su “La ferocia” di Nicola Lagioia. Anzitutto l’ho preso e lasciato due volte prima di finirlo, non riuscivo proprio a proseguire; poi gli ho dato una terza possibilità in memoria dell’altro romanzo di Lagioia “Riportando tutto a casa” che invece mi era piaciuto molto, e l’ho finito. L’incipit del romanzo è molto d’effetto, fa erroneamente pensare ad un thriller ed è forse l’unica parte commestibile di tutto il libro.
“La ferocia” parla del declino di una famiglia di costruttori baresi i Salvemini, il capostipite Vittorio, la moglie Annamaria, i figli legittimi Ruggero Clara e Gioia, il figlio naturale Michele. La storia inizia con il presunto suicidio di Clara, trovata nuda ai piedi di un autosilo in una calda notte di primavera. Da qui in poi è tutta una confusione di personaggi minori perlopiù sgradevoli, abietti o inutili, ingegneri, sottosegretari, avvocati, notai, baroni dell’università, tutti legati fra loro dalla corruzione (anche morale); unico personaggio degno di nota è il marito di Clara, Alberto, forse l’unico pulito (ma non onesto) del romanzo. Troppi sono i personaggi minori non funzionali al racconto sui quali l’autore si sofferma: giornalisti falliti, tossici vestiti da ranocchio, istruttori di palestra, ecc. insomma se ne poteva fare a meno. A questa miriade di personaggi si legano anche le storie dei Salvemini quindi il tutto risulta pesantissimo da seguire per il lettore. L’intreccio si svolge su più piani temporali, a volte anche nello stesso periodo, il che rende la lettura molto difficoltosa tenendo conto anche che l’autore usa più voci narranti. La narrazione in certe sue parti ricorda l’espediente del flusso di coscienza portato all’esasperazione. Voleva essere un romanzo sulla corruzione dei nostri giorni? Un romanzo sull’inquinamento ambientale? Un romanzo sul disfacimento della famiglia? Mah non mi è sembrato nulla di tutto questo, soprattutto non credo che questi problemi affliggano solo il nostro sud anche se forse l’autore descrive luoghi e ambienti (Bari, Taranto e la Puglia) che conosce bene ma con questo libro perde l’occasione di dare un respiro più ampio a queste tematiche. Il plot potrebbe anche essere interessante ma è mal gestito, troppi i fili che si dipanano e che scopriamo avere senso dopo centinaia di pagine, tra l’altro ci sono anche cose che non si capiscono proprio per esempio cosa è successo a Clara? Perché da ragazza normale diventa quella che è, psicolabile, autodistruttiva, drogata? Michele è davvero malato di mente? Perché il rapporto simbiotico e morboso tra Clara e Michele è legato solo ad un breve periodo dell’adolescenza e non viene scandagliato meglio dall’autore? Ci sono molte falle in questo romanzo, tra queste anche il finale che ho trovato affrettato e arrangiato rispetto a tutto il libro.
Un capitolo a parte nella recensione lo merita la scrittura: PESANTE. Io ho letto molti libri scritti in modo “complicato” ma lì l’italiano, i periodi della narrazione, erano poesia, un piacere da leggere. La scrittura di Lagioia in questo romanzo invece è forzata, lo stile artificioso e troppo macchinoso, ricercato tanto da risultare indigesto e confusionario, spiazza il lettore e non è assolutamente funzionale alla trama. Ecco l’esempio di una frase che lontanamente ricorda Lacan –Dare all’amato ciò che non si ha e ritrovare nel nulla che si riceve il troppo che non sarà ricompensabile- (????).
Per chiudere “La ferocia” è stato per me una sfida che non ho vinto perché non valeva proprio la pena leggerlo fino alla fine.
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poco feroce, tanto già visto qua e là
Premetto che sono arrivata quasi a 100 pagine del libro e questo con una certa fatica, ma mi riservo di terminarlo presto. Questa è una mia considerazione parziale dunque. Molto consigliato da amici che mi hanno convinta a leggerlo. Sia chiaro parliamo di uno scrittore di einaudi, direttore di minimum fax e capo della fiera del libro, insomma uno che conta. Ma queste 100 pagine che spesso si avvitano su se stesse mi hanno ricordato spesso cose già lette e già viste, sopra tutte Twin Peaks. Non entro in merito alla lingua, anche se ci sarebbe da dirne. Non si è mai sentito se non in un ambulatorio di chirurgia estetica che la pelle "si rilascia"... e via così, cose talmente forzate da privare la storia, proprio a causa di una lingua forzatamente "colta" di quell'empatia che si chiederebbe a un romanzo che parla di una saga familiare. In tutta onestà dopo 100 pagine di Vittorio, Annamaria, Michele, Gioia, Clara... a uno non gliene può interessare di meno, spera che muoiano tra atroci torture... Meglio i teleromanzi di Canale 5 perchè li ricorda molto, solo che qui c'è la spocchia dell'intellettuale che irrita ogni pagina e mezzo, forse anche a ogni pagina. E le descrizioni notturne? Insopportabili, nemmeno fossimo in un film americano ma pensando di essere pasolini. Sigh
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La potenza è nulla senza controllo...
Che fatica...
Alla fine, ne vale forse anche la pena. Ma arrivare alla fine di quest'opera non è sforzo di poco conto.
Il romanzo poggia su un'idea forte, tesa a dipingere un quadro a tinte fosche di certe famiglie, di certi ambienti, di certa classe politica e dirigente. I personaggi si "schiudono" durante il romanzo in maniera via via sempre meno enigmatica e hanno, indubitabilmente anche il loro fascino. penso soprattutto a Michele che poco a poco diventa il punto di riferimento della vicenda.
In diversi punti poi l'autore è anche abile, mostra doti non indifferenti di stile di scrittura, originalità e sintesi.
Ma è la costruzione di questa storia che, a mio parere, nel tentativo di essere volutamente originale nella scansione degli eventi e nella esposizione, getta troppo spesso il lettore nello sconforto.
A volte non si capisce di chi stia parlando, in quale momento siano ambientate le situazioni che vengono descritte. C'è tutta una fatica che il lettore deve sostenere nella comprensione, un atto di fede verso l'autore che deve essere fatto in ragione (credo) dell'originalità del racconto.
Non mi capita spesso, ma ho avuto in diversi momenti la tentazione di mollare...
Peccato.
Comunque un Premio Strega che mi ha lasciato perplesso, molto perplesso...
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Affascinante e faticoso
Prima di iniziare questa lettura, avevo già "assaggiato" la scrittura di Lagioia attraverso due suoi racconti ("Un altro nuotatore" e "I miei genitori") decretandolo una buona penna, dalla prosa elegante e molto immaginifica...pur avendo trovato il primo dei due scritti contorto e poco chiaro.
Diciamo, quindi, che, nella "breve distanza", non avevo percepito troppo la fatica...
Questo romanzo, invece, se dovessi definirlo in due sole parole (cosa improbabile date le molteplici sensazioni ed emozioni che un libro riesce ad evocare)...probabilmente direi: "affascinante e faticoso".
Faticoso perché caratterizzato da una scrittura ricercata, forse troppo, che fa sì che alcuni periodi necessitino di rilettura per coglierne il senso, a causa di metafore ardite e similitudini decisamente sopra le righe...altri periodi, invece, un senso non ce l'hanno affatto, ma sono comunque ben incastonati nel quadro generale del romanzo.
Vi chiederete...e perché mai dei "nonsense" dovrebbero essere sdoganati come qualcosa di piacevole o comunque non respingente in un romanzo?
E' difficile da spiegare, ma la scrittura di Lagioia, secondo me, piu che a raccontare una storia, mira a farti "visualizzare" delle sensazioni, delle piccolissime percezioni, che in realtà sono inafferrabili (anche se ci appartengono) cercando di riproporre con le lettere, con le parole, un arcobaleno fatto di mille sfumature e, inevitabilmente, finisce per confondere troppi colori (e un po' anche la mente del lettore!).
Ma il risultato finale risulta comunque affascinante...come un quadro astratto, di cui non comprendi bene il significato, ma che ti piace lo stesso...e rimani lì a guardarlo.
A questo punto la domanda è...lo vorrei portare a casa e appenderlo in salotto?
No, grazie...forse un po' eccessivo, stancante...
Ecco come ho vissuto io questo romanzo.
La storia è buona, anche se non riesce a prendere una direzione precisa: un po' giallo, un po' dramma famigliare, un po' romanzo di denuncia sociale.
Feroce? Sì...lo è, ma non potrebbe essere diversamente quando si racconta di corruzione, di coloro che rispondono solo ai richiami del dio-denaro, dell'uso e abuso di droghe e sesso...
Insomma, un romanzo che poteva essere splendido e non lo è...ma comunque da leggere.
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L'agnello e la tigre
“L’agnello crea la tigre facendosi mangiare da lei”: una frase apparentemente irrilevante nel romanzo che capovolge il significato di un verso della poesia “La tigre” dai “Canti di esperienza” di William Blake, in cui il poeta si chiede stupito come chi ha creato la tigre possa aver creato anche l’agnello . Questa frase dovrebbe costituire la chiave per l’interpretazione sia del titolo del romanzo, sia del percorso distruttivo e autodistruttivo del personaggio centrale. Inutile chiedersi se per ottenere questo era necessario ricorrere ad un passaggio così artificioso, con una frase criptica che si chiarisce solo alla fine del romanzo, dato che di passaggi criptici e di frasi barocche è disseminato il testo, così come lo è di dettagli inutili. Lo stile, in particolare nella prima parte del romanzo, è caratterizzato da un fraseggio che sembra l’applicazione del puntinismo pittorico alla scrittura, con periodi brevissimi, accatastati così da rendere faticosa ed incespicante la lettura e da continui flashback che possono essere necessari in una vicenda che inizia dall'episodio che conclude la vita di Clara Salvemini, ma che sono inseriti a sorpresa, sovrapponendo e confondendo passato e presente,
Lascia, quindi, perplessi trovare in un’intervista di Nicola Laloggia la dichiarazione che si era posto l’obiettivo di scrivere un romanzo molto leggibile, poiché è proprio nella leggibilità l’aspetto più negativo: una forma di narcisismo nella ricerca stilistica che appesantisce e sovraccarica il testo e svuota la “grande tensione emotiva”, altro obiettivo dichiaratamente perseguito dall’autore.
Ed è un peccato, poiché la tensione emotiva è presente, in una drammatica vicenda neorealista che ruota attorno al nucleo familiare dei Salvemini, dominato dalla figura di Vittorio, padre – padrone che per raggiungere i suoi obiettivi di grosso imprenditore immobiliare non ha nessuno scrupolo non solo nei rapporti con le figure dominanti nel labirinto amministrativo in cui deve muoversi, ma anche nel rapporto con i familiari, strumentalizzati con un cinismo totale, spinto oltre i limiti della credibilità. Il suo potere gli consente di tenere soggiogati moglie, figli e genero, personaggi del tutto anaffettivi, legati solo dall'interesse economico: unica eccezione il figliastro Michele, soggetto schizofrenico legato alla sorella Clara da un rapporto simbiotico interrotto dalla scissione nel loro percorso di vita; un rapporto che lui cerca di far rivivere dopo la tragica morte di lei.
Il premio Strega ha dimostrato, anche in questo caso, di essere un ottimo propulsore per le vendite. Si spera sappia conservare il suo ruolo storico di selettore del meglio nella letteratura italiana, o, rovesciando la prospettiva, che nella schiera degli scrittori sappia sempre trovare firme all'altezza del palmarès dello Strega: ciò che, a mio parere, non è successo con l’edizione che ha premiato Lagioia.
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Una scommessa mancata
Ho comprato questo libro spinto dall'interesse per il titolo e per la presenza di una storia familiare di risentimento e odio represso.La vittoria del premio Strega è stata una garanzia ulteriore dello spessore del testo e, così, mi sono deciso a comprarlo.
Nonostante l'inizio abbastanza scorrevole e interessante, il libro si è rivelato, già dopo le prime 70 pagine, una sfilata pesante di personaggi legati in qualche modo a Clara, la vittima della storia. Sebbene i componenti familiari, nella loro diversa incarnazione della "ferocia", siano ben caratterizzati e presentino delle storie personali corpose e ricche di contenuto che rendono conto del perché siano vittime e artefici al tempo stesso dell'odio e della corruzione familiare e sociale, troviamo, purtroppo, anche molti, troppi personaggi minori, abbastanza piatti, che contribuiscono a complicare e appesantire una storia familiare dai tratti noir.
Buona, dicevo, la descrizione dei componenti della famiglia, sviluppata tramite flash back e ricordi personali.
Vittorio, vero self made man senza scrupoli e ipocrita, capace di piegare e sacrificare ogni cosa, compresa la moglie e i figli, per il successo lavorativo e l'affermazione di sé.
Annamaria, vittima del marito e madre fredda e distaccata, che continua a nutrire odio nei confronti di MIchele, frutto del tradimento del suo matrimonio.
Ruggero, l'uomo incapace di una vera relazione affettiva con gli altri (soprattutto con le donne) e che vive il suo successo accademico e lavorativo come fuga dal confronto con il padre, a cui concede, suo malgrado, tutto ciò che vuole. Il distacco continuo che ha nei confronti della famiglia, esemplificate dalla sua reclusione giovanile durante lo studio, è solo la patina sotto cui si cela desiderio di vendetta per ciò che ha subito.
Gioia, figlia più giovane di Vittorio e Annamaria, che affronta la morte della sorella invidiata, la realtà familiare e la vita con una leggerezza ridicola e grottesca.
Michele, l'escluso dalla famiglia e vittima di problemi psichiatrici che cerca di far luce sulla morte dell'unica persona che l'abbia mai veramente amato.
Tutti loro ruotano attorno alla protagonista della storia, Clara, la ragazza e donna bellissima e affascinante, che cerca di ricevere genuino amore, attenzione e accoglienza in storie di droga, sesso e violenza. Questo è l'amore che Clara cerca nella relazione soffocante e addirittura morbosa con Michele e che vede negato proprio dai suoi genitori al fratellastro a cui si è legata. Vittime solidali della mancanza di amore.
La corruzione della società fa da sfondo alla corruzione personale e familiare dei personaggi.
Penso che con tutti questi spunti, ci fossero le basi per un ottimo romanzo. Lo stile molto ricercato, il continuo passaggio dal tempo presente al passato senza interruzione grafica, il ricorso a troppi personaggi e storie minori, la cui relazione con Clara poteva essere inserita nelle storie dei suoi familiari, la presenza di periodi auto-compiacenti, complicati, pedantemente astratti e artificiosi che non comunicano nulla, contribuiscono, purtroppo, a rendere la lettura lenta e confusa. Senza contare il fatto che il libro abbia più di 400 pagine.
Si tratta, in sintesi, di un libro che poteva essere un fantastico e chiaro affresco delle ricadute familiari e sociali che vengono dal non guidare la propria "bestialità personale", simulata dal distacco, dalla freddezza, dalla vacua leggerezza, dall'ipocrita auto-giustificazione, dalla ricerca spasmodica di attenzione, un libro che ha mancato il bersaglio che si era prefissato.
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I nostri giorni
Credo che l’autore abbia intitolato il libro “La ferocia” perché, almeno io così l’ho avvertito, tratta di un mondo in cui la ferocia, dei sentimenti, degli atti, delle espressioni verbali, dei rapporti interpersonali e delle relazioni tutte, ne è il tratto distintivo.
Parla di una famiglia di palazzinari baresi in cui il capostipite si è fatto ovviamente dal nulla, tra mazzette e raccomandazioni, e ha creato un impero, sempre tenuto in piedi con un fragile equilibrio perché la corruzione è una bestia difficile da domare. Ma il marcio che regola i rapporti di Vittorio, il padre padrone, con il suo mondo di piccoli e grandi intrallazzatori, è penetrato anche all’interno delle mura domestiche, tra figli segnati da gravi problemi di relazioni con il mondo, Michele e Clara, un figlio, Ruggero, tutto preso dalla carriera che però si presta ai giochi del padre, e una figlia, Gioia, la cui inconsistenza dorata è tipica dei figli di papà.
Vittorio piega tutto e tutti ai suoi voleri compresi i figli che si ritrovano spesso invischiati in affari loschi, più o meno a loro insaputa. Ma il grande gioco del potere passa sopra a tutto e dal suo fascino Vittorio ne è completamente soggiogato e pronto a sacrificare qualsiasi cosa.
Michele e Clara emergono, ognuno con i propri problemi, da queste dinamiche familiari.
Michele è figlio di una relazione extraconiugale di Vittorio, orfano dalla nascita e catapultato in questa famiglia dove è sempre stato considerato un estraneo, tranne che da Clara, la primogenita. Michele è un disadattato, lo si rileva fin dai primi anni scolastici e all’affetto della famiglia si sostituirà una lunga teoria di psichiatri e ricoveri. Pur rimanendo sempre borderline, riuscirà a trovare un fragile equilibrio solo da adulto, allontanatosi dalla casa paterna. L’unico affetto familiare è Clara che non lo tratta da matto ma ha un rapporto protettivo con lui. Sarà Michele a vendicarsi dell’affetto mancato, delle umiliazioni subite, delle prevaricazioni paterne, scoprendo i giochi del padre così facendo saltare, come in un gioco di prestigio, tutta la baracca. La forza gliela darà Clara, la misteriosa, enigmatica Clara che pur sposata, se la fa con altri uomini, in genere molto più vecchi di lei e di solito intrallazzati con il padre. E’ una forma di punizione del padre prestare il proprio corpo ai desideri perversi di uomini che amano maltrattare le donne e ne godono? In questo gioco autodistruttivo Clara sembra posseduta da tutti ma in realtà non è proprietà di nessuno, e forse chi la possiede veramente è la cocaina, di cui è ormai totalmente dipendente e che la conduce in situazioni sempre più pericolose fino all’epilogo finale.
E’ un libro-manifesto della situazione in cui purtroppo versa l’Italia in cui l’ambizione e il denaro sono i pilastri sui cui si fondono i rapporti economici, a discapito dell’onestà e del senso dello Stato.
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La soglia familiare
Incuriosita dal premio vinto pochi mesi fa e dalla forte richiesta nella mia biblioteca mi sono avventata su questo libro la cui copertina evoca ricordi lontani di bar fumosi e femme fatales.
La lettura si scontro con un muro di parole incastrate tra loro come in un fitto mosaico di cui si distingue la trama ma non gli incastri. Frasi sconnesse, evocazione e negazione che si accompagnano spiazzando il lettore più esperto e poi inizia a intravedersi un sentiero nel fitto della foresta. Lo sai, è sempre stato lì ma c'è voluto del tempo prima di individuarlo e poi percorrerlo. Una matassa che si dipana dopo le prime 20/30 pagine, di cui riesci a seguire il filo sempre con maggior fluidità come se l'avessi sempre fatto. Ed è un po' questo che fa lo scrittore, quello bravo, oltre a creare storie te le sa anche raccontare in modo nuovo, a volte semplice altre volte in modo più complesso ma alla fine quel modo deve entrarti dentro e farti risuonare i campanelli della familiarità e della comprensione. Altrimenti, che storia è?
Ed ecco il punto. Che storia è, questa che Nicola Lagioia ci racconta?
Una storia familiare si nasconde dietro la coltre di frasi prima incomprensibili poi potenti. Una famiglia dell'Italia del sud che dal nulla è riuscita a raggiungere quell'olimpo fatto di sotterfugi, ricatti e ferocia. Quella ferocia che dà il titolo a questo romanzo e che ne è anche un po' la protagonista, qualunque sia il punto di vista che si sceglie di prediligere. Sì perché i protagonisti di questa storia sono 3 e 1 allo stesso tempo, come tre sono le parti di cui è composto il libro. Una simmetria di elementi. Vittorio, Michele e Clara. Il padre, il figlio negato e la figlia morta. Sullo sfondo una madre assente anche da se stessa, una sorella inetta e un fratello che ha fatto del lavoro una fuga. Storie che si intrecciano, profili che emergono per poi ritornare nell'ombra, problemi sociali appena accennati.
Avanti e indietro nel tempo senza una chiara linea cronologica, Lagioia ci porta alla scoperta dei segreti più profondi di una famiglia che ha adottato come valore fondante la meschinità e da essa non riuscirà a sottrarsi neanche in seguito a un lutto.
Un libro che ho apprezzato per lo stile con cui le parole si susseguivano una dopo l'altra sulla pagina ma che a livello di contenuto mi ha lasciato l'amaro in bocca di quei cibi così appetitosi alla vista ma che una volta addentati lasciano indifferenti le papille gustative.