La felicità del lupo
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Ricerca e serenità ma anche equilibrio
«Passando sfiorò una mano a Fausto, e Santorso avrebbe preferito non notarlo. Non gli piacevano i fatti degli umani. Preferiva i fatti dei lupi, delle volpi, dei galli di montagna.»
Il suo nome è Fausto e da poco il suo rapporto amoroso con la compagna di una vita è venuto a sgretolarsi. È alla ricerca di lucidità e di serenità quando decide di tornare alla natia Fontana Fredda, luogo che conosce sin da bambino. Un legame che si sgretola nel silenzio, forse perché semplicemente aveva raggiunto il suo naturale estinguersi.
«Ci pensi mai agli altri, mentre fai la tua decrescita felice?»
È qui che Fausto si dedica alla cucina presso il locale di Babette, luogo dove egli incontra anche Silvia. Colei che ha finito di studiare, che ha un passato come libraia, colei che sta sperimentando la vita mentre tra quei tavoli serve. La stessa Babette è fuggita da Milano seppur molto tempo prima, la stessa Babette è alla continua e ancora costante ricerca di quel calore.
E poi c’è lui, Santorso. Lui che ci vede lungo anche se beve troppo. Colui che mai avrebbe pensato di potersi affezionare a quel forestiero schivo e dai modi spicci.
È in questo contesto che Fausto inizia piano piano a ritrovare il piacere per le piccole cose, che assapora il tepore di un corpo al suo fianco, un corpo con cui impara a fare l’amore a “modo nostro” ogni volta, che impara ad assaporare il piacere per la cura degli altri. È tra questi boschi che ritrova la sua serenità. Nella natura, tra il profumo dei tronchi, tra gli aromi del tempo che passa e le vette che osservano, tra il desiderio di tornare a respirare e a osservare proprio da quelle vette e da quelle altezze.
«Di cosa sapeva gennaio? Fumo di stufa. Prati secchi e gelati in attesa della neve. Il corpo nudo di una ragazza dopo una lunga solitudine. Sapeva di miracolo.»
Ed ecco allora che prende forma e avvolge “La felicità del lupo”, scritto nato in tempo di Pandemia proprio quando allo scrittore che tra queste pagine si respira nella sua essenza, quella montagna viene impedita, vietata, ostruita. È un libro dove i corpi faticano ma tornano anche a riaffiorare, è un libro dove vi è emozione e similitudine con il luogo in cui si vive e con la ricerca che si pone in essere. È una ricerca costante di noi stessi in un contesto dove non serve il superfluo per ritrovarci. Anche per questo “La felicità del lupo” è uno scritto che trasmette serenità. In questa voglia costante di camminare e muoversi, di cercarsi e cercarci, di appellarci a ogni singolo nostro appiglio anche se l’appiglio umano non serve o non c’è.
«Il motivo è che sto bene dove sto. Il mare è verde e c’è un cormorano nero che ha scelto come casa lo scoglio qui sotto, è da stamattina che lo osservo. Provo quel senso di respiro che ti può dare un paesaggio nuovo, e che da tanto tempo non provavo.»
Amore per le montagne, desiderio di cambiare vita, desiderio di ricominciare e di trovare una propria serenità. Sono questi gli elementi che compongono l’ultimo scritto di Paolo Cognetti, opera dal grande contenuto autobiografico, dove si respira interamente Cognetti in ogni personaggio e luogo, scritto nato ancora in un periodo storico altrettanto particolare; eppure, intriso di profonda serenità. Breve ma lascia il segno.
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Inchino al Monte Rosa
L’autore ama la montagna, in tutta la sua essenza, e questo amore, naturale, sincero e profondo, emerge in modo prepotente in tanti suoi scritti. Anche in questo libro la montagna ci viene presentata in tutte le sue sfaccettature, con un ritmo lento, come deve essere il passo di montagna. Sarà anche per via del fatto che ne ho assorbito i contenuti lentamente, perché è un libro che ho vissuto tramite l’esperienza dell’ascolto della versione in audiolibro, mi ritrovavo, in tanti passaggi, in quel paesino, su quei sentieri, a guardare quei boschi, in quei luoghi interni del rifugio, del ristorante, come se fossi seduta in mezzo ai protagonisti, potendo sentire quei profumi e quegli odori. E’ diffusa una vena di malinconia, quasi dal sapore autunnale, forse anche per il bisogno di ricerca della solitudine nella natura, che è un aspetto saliente della storia. Sono splendidi gli scorci correlati al susseguirsi delle varie stagioni dell’anno, con un’inevitabile correlazione alle diverse fasi della vita. I personaggi sembrano dipinti a pennellate ed è molto bello il modo con cui l’autore ne ha rappresentato i legami interpersonali. L’angolatura che ho amato di più è stata il bisogno di quiete per ritrovare se stessi ed il proprio equilibrio. E quel bilanciamento delicato e speciale fra amaro della solitudine e sale della libertà.
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Comfort zone
Non avevo idea dell’uscita di questo romanzo di Paolo Cognetti finché non l’ho visto sugli scaffali della libreria riservati alle novità. Dopo l’eccellente romanzo “Le otto montagne” - probabilmente ultimo vincitore davvero meritevole del Premio Strega - l’autore si cimenta nuovamente in un romanzo che ha come epicentro la montagna e tutto ciò che la circonda. Inutile dire che l’ho preso subito, considerato quanto ho apprezzato il suo precedente lavoro, ne viene fuori tuttavia - lo dico subito e senza mezzi termini - un lavoro che ha pochissimo da dire, probabilmente perché tutto è già stato detto nel famoso e fortunato predecessore… e questo un po’ mi fa rabbia.
Il caro Cognetti in questo romanzo cita il grandissimo Jack London, che lui ovviamente apprezzerà per le sue produzioni “innevate”, ma che in un breve e bellissimo saggio dedicato agli scrittori emergenti e non solo afferma che uno scrittore mette nel suo lavoro “oltre che se stesso, anche quello che non è se stesso ma che è stato lui a esaminare e a soppesare […] Ognuno di loro (gli scrittori) ha tratto la propria filosofia operativa da una scorta personale di idee ed esperienze” e che all’inizio essi sono come neonati ma alla fine hanno “acquisito dal mondo qualcosa che i loro simili non hanno acquisito. E si trattava né più né meno che di qualcosa da dire. E allora tu, giovane scrittore, hai qualcosa da dire, o credi soltanto di avere qualcosa da dire?”. Perché questa lunga citazione per riferirsi a “La felicità del lupo” di Paolo Cognetti? Perché Cognetti qualcosa da dire ce l’aveva, ma in qualche modo s’è in gran parte esaurito nel suo romanzo più celebre, almeno per quel che riguarda il tema e l’ambientazione della montagna. Questo fa rabbia per due motivi: il primo è che, almeno a mio avviso, Cognetti era uno dei pochi scrittori italiani che potesse davvero definirsi degno di nota e che, probabilmente, ha ceduto alle pressioni - probabilmente anche di sé stesso - e ha prodotto un nuovo lavoro incentrato su qualcosa la cui fonte d’ispirazione è palesemente esaurita, almeno per ora. Sebbene si apprezzino le sue descrizioni molto evocative, ci rimangono quelle e poco altro: la storia narrata è scialba e manca della profondità che avevamo apprezzato in passato, popolata da personaggi con cui non si riesce a empatizzare. Certo un uomo che ha fatto della montagna la sua vita, come Cognetti, non potrà mai discostarsene del tutto e nella sua produzione non potrà fare a meno di soffermarvisi sempre… ma non basta proporci descrizioni e riflessioni che sanno di già sentito. Forse il problema è che gli scrittori sono spesso costretti a ripercorrere i sentieri che li hanno portati al successo… tuttavia questo è un approccio che poco ha a che fare con la letteratura. Uno scrittore dovrebbe scrivere quando ha qualcosa da dire, proprio come dice London: quel qualcosa può anche ripercorrere un sentiero già tracciato - chi può dire, infatti, che “Il richiamo della foresta” e “Zanna bianca” non siano entrambi capolavori? - ma quel sentiero deve presentarci nuovi spunti, vestirsi d’un manto diverso e rinnovare quella meraviglia che aveva destato in noi. Altrimenti non è altro che una minestra riscaldata, magari con ingredienti più scadenti.
A margine, anche volendoci soffermare sul dettaglio più sciocco… persino la copertina somiglia in maniera spropositata a “Le otto montagne”, il che sembra quasi gridare al lettore il suo scopo… un grido che io non ho voluto ascoltare.
Di sicuro sono un po’ troppo severo con l’autore e probabilmente lui non arriverà mai a leggere questa mia umilissima opinione; ma se le mie parole possono apparire taglienti è perché riponevo in Cognetti e nella sua scrittura una speranza: era per me un lumicino in quelle tenebre dilaganti che sono la letteratura italiana contemporanea. Se anche lui finisce per cedere e starsene lì, nella sua comfort zone, allora non ci sono davvero speranze e dovremo rassegnarci ai Volo e agli influencer che si improvvisano scrittori.
Rimane, comunque, una mia personalissima opinione: probabilmente qualcun altro ci avrà visto più di quel che ci ho visto io.
“[…] come poteva sciogliersi a quel ritmo e restare sempre uguale? Allora credeva che il ghiacciaio fosse eterno e immutabile, una parte della montagna che avrebbe sempre ritrovato lí tra la roccia e il cielo. Suo padre invece aveva capito cosa stava succedendo: qualcosa scompare e qualcos'altro prenderà il suo posto, gli disse. Cosí va il mondo, sai? Siamo noi che abbiamo sempre nostalgia di quello che c'era prima.”
Fuga e ritorno
Il ritorno di Paolo Cognetti è un’ immersione nello smarrimento e nella crisi d’identità di Fausto Dalmasso, uno scrittore quarantenne che non sa più cosa scrivere, in fuga dalla città’, abbandonata la fallimentare convivenza con una quasi moglie.
Fontana Fredda, alle pendici del Monte Rosa, pare essere un rifugio sicuro, luogo ideale per rinascere, almeno per ricominciare, montagne che conosce e frequenta sin da ragazzino su ispirazione paterna.
La montagna ripara le ferite, è curativa, consolatoria, e il tempo riesce a condividere con gli altri le proprie scorie. È lì che Fausto si reinventa una porzione di vita e una nuova professione, il cuoco in un ristorante che possiede origini letterarie, “ Il pranzo di Babette “, dal nome della proprietaria, una donna affascinante, misteriosa, curiosa, che parla dell’ impossibilità di guarire dentro ma della possibilità di trovare una consolazione.
Qui Fausto incontra Silvia, una giovane ex studentessa e libraia che solo recentemente ha scoperto la montagna, in fuga da un passato insoddisfacente, da lungo in conflitto con la figura materna, che aspira a cercare un rifugio sui ghiacciai. La loro vicinanza e convivenza nel ristorante ne accende la conoscenza e rivela altro, una comunanza di vita e di storie, un nuovo sentimento, una solitudine condivisa sfociata in un affetto puro e sincero.
E poi c’è Santorso, un gattista cacciatore che un tempo era stato nella forestale, un uomo che racconta storie di montagna e al quale non piacciono i fatti degli umani, preferendo i lupi, le volpi e i galli di montagna.
Oggi Fausto è uno scrittore che ha imparato a campare, gli sono così lontane ed estranee quelle storie di coppie che narrava all’ inizio e che gli sembrano scritte da qualcun altro, è stanco di scrivere di uomini, donne, amori.
La vita di montagna insegue il trascorrere delle stagioni e risveglia i sensi, riporta una nuova e ancestrale dimensione spirituale e corporale, ricordandoci che i significati a lei attribuiti non sono che i nostri. La montagna vive in eterno, indifferente alle azioni e ai significati umani che la colorano del proprio vissuto, dei propri ricordi. La sua essenza, probabilmente, si raggiunge e si svela nel momento in cui la si svuota di qualsiasi senso.
Sta semplicemente lì, come i ghiacciai che si stanno sciogliendo, un paesaggio che muta in altezza, che .....” si asciuga fino a sembrare un corpo celeste, un pianeta perennemente levigato dal vento, un luogo di una bellezza assoluta ma estremamente duro “....
È qui che la parabola di Fausto Dalmasso si compie, la sua essenza matura, in attesa di qualcuno che se ne è andato e che forse un giorno ritornerà.
Un romanzo che parla di montagna, e qui l’autore sa muoversi mirabilmente in una materia che frequenta da sempre e che conosce perfettamente ma anche di altro, di un’umanità fragile che ricerca se’ stessa, ferita, logora, spoglia, tra realtà e desiderio, sogni e speranze, e ...” intorno a Fontana Fredda la montagna esisteva e sarebbe continuata a esistere al loro risveglio “...