La distanza da Helsinki
Letteratura italiana
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La vita non è che una sequenza infinita di "Slidin
Devo ammettere che l’incipit del romanzo, con l’uso insistito di segmenti nominali, separati spessissimo dal punto, mi aveva innervosito. Mi aveva dato l’impressione di essere di fronte a un espediente letterario per attirare l’attenzione, senza che ve ne fosse una vera necessità, e questo mi era dispiaciuto. Avevo provato simpatia per Raffaella Silvestri, guardando Masterpiece, il primo talent letterario che l’ha vista finalista. Potrei addirittura dire che avevo sviluppato una certa empatia, cresciuta di pari passo con l’antipatia di quasi tutti gli altri concorrenti e di parte del pubblico. E’ la stessa antipatia che il primo della classe, il saputello, suscita nel resto della scolaresca. E’ che, a volte, il primo della classe è anche una persona molto sensibile, con il suo bagaglio di sofferenze e di fragilità di cui non riesce a far partecipi gli altri, attirando altra malevolenza. E capita, allora, che reagisca con aggressività, e con determinazione insegua i suoi obiettivi. Era scattata una sorta di identificazione, insomma, al di là del gap generazionale, o forse proprio per questo.
Come un genitore putativo avrei voluto che Raffaella realizzasse le sue aspirazioni, cosa in cui io ho fallito per incapacità o per scelte di vita diverse.
Continuando a leggere, questo stile volutamente frammentato si è un poco ammorbidito, pur rimanendo incisivo e fortemente evocativo, e allora mi sono lasciata trasportare nella storia. Fondamentalmente è un romanzo di formazione, e l’autrice accompagna, affianca mi verrebbe da dire, Viola e Kimi, i due protagonisti, attraverso l’adolescenza e la piena maturità, oltre i trent’anni: il tempo delle scelte, il momento della svolta verso una o l’altra direzione.
Sono due persone particolari, Viola e, soprattutto, Kimi. Italiana lei, di Helsinki lui, entrambi hanno perso precocemente la madre, entrambi si sentono “diversi”, come forse la maggior parte degli adolescenti crede di essere. Ma che sia un comune sentire lo si capisce solo molto tempo dopo. Il tempo delle mele è spesso segnato dalla sensazione dell’isolamento dal compatto gruppo degli “altri”. In Kimi, però, tutto è amplificato da una forma particolare di autismo, che lo fa sentire in sintonia con la propria anima solo a contatto con la musica, la “sua” musica, dove il corpo, quel corpo in cui si sente isolato, diventa, attraverso le mani sulla tastiera, un ponte con cui comunica il proprio universo interiore: “…invece lui è lì che non si vergogna, che ha con il pianoforte quel rapporto diretto ed esclusivo, ed è lì che lui può esprimere tutto, tutte quelle emozioni, tutte quelle espressioni del volto che lo rendono vero e vivo e umano, e che lontano, nella vita di tutti i giorni, non esistono più.”
La definizione di Viola è un po’ più sfuggente, si intuisce comunque un contrasto tra il suo voler essere assolutamente “ normale” e la sua attrazione verso tutto ciò che “ rende la gente non figa, non giusta”. E’ chiaro che due persone così non potranno mai incontrarsi davvero, unire le loro vite per far nascere un’entità nuova. Troppo diversi eppure troppo uguali, ma il vero ostacolo è la paura di Kimi, il limite invalicabile che lui pone tra se stesso e gli altri. Questo libro mi ha ricordato molto “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano, e come quel libro anche questo, alla fine, mi è piaciuto tanto. Mi ha commossa, mi ha fatto pensare, sono stata trattenuta sulle pagine nella speranza, inutile, di un lieto fine che era giusto non ci fosse.
Raffaella Silvestri è riuscita a raccontare la difficoltà di scegliere la strada giusta, di avere il coraggio di imboccare una delle tante porte. Alla fine la vita non è che una sequenza infinita di “Sliding doors” attraverso cui destreggiarsi.