Narrativa italiana Romanzi La cosa buffa
 

La cosa buffa La cosa buffa

La cosa buffa

Letteratura italiana

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Antonio, il protagonista de La cosa buffa di Giuseppe Berto, pubblicato nel 1966, due anni dopo Il male oscuro, è convinto che il dubitare delle donne sia il modo migliore per vivere i sentimenti. Nello scenario di una Venezia minore, preziosa, lontana dai flussi turistici e autentica, Berto racconta gli amori di Antonio, un personaggio che per la verità gli somiglia molto. Il protagonista di questo libro è un provinciale, viene da un paesino dell'entroterra, è uno studente universitario fuori corso, di umili origini, e trascorre i suoi giorni a ragionare di continuo di sé stesso, a rivedere infinite volte le sue decisioni, anche le più insignificanti. Antonio si innamora di Maria: una ragazza ricca, figlia di un piccolo armatore di Venezia, incontrata per caso alle Zattere. Lei ha poco meno di vent'anni, è timida, senza esperienza, ma è subito coinvolta da un sentimento che neanche immaginava di vivere. E Antonio, pochi giorni dopo che si sono conosciuti, progetta già il loro matrimonio, perché il suo desiderio è quello di vivere la sua intera vita con Maria. Ma i suoi modi incoerenti, fatti di trasporto passionale e di continui ripensamenti, sommati all'opposizione della famiglia di lei, lo costringono a lasciarla. Ma il dolore della separazione passa in fretta. E Antonio finisce per dedicarsi, assai alla svelta, a un'altra donna conosciuta in un caffè veneziano: Marica, ungherese di costumi assai dubbi per non dire facili. Anche nei suoi con - fronti, il giovane studente ha una folgorazione. Dimenticata Maria, sarà Marica la donna da sposare, con la quale progettare una vita umile eppure soddisfacente. La ragazza ungherese però lo lascerà poco dopo aver ricevuto un costoso anello di fidanzamento e si rivelerà ben diversa da quella che lui immaginava.



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La cosa buffa 2022-10-26 03:19:53 enricocaramuscio
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    26 Ottobre, 2022
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Buffa educazione sentimentale

"In quel tempo di mezzo inverno benché si recasse ogni pomeriggio di sole sulla terrazza del Caffè alle Zattere, vale a dire in un luogo per niente spiacevole e anzi rallegrato dalle scarse cose liete che si possono trovare in una città umida qual è Venezia durante la brutta stagione, Antonio aveva soprattutto voglia di morire." Un incipit bellissimo e struggente, che presenta bene ai lettori il personaggio con cui avranno a che fare per le più di trecento pagine che compongono quest'opera di Giuseppe Berto. Antonio è un venticinquenne, veneziano di provincia, svogliato studente fuoricorso, indolente maestro elementare, intrappolato in una vita che avrebbe preferito non vivere, convinto che per lui sarebbe stato "meglio se i genitori gli avessero a suo tempo risparmiato il fastidio d’imetterlo tra i vivi“, incapace di prendere decisioni, di portare a termine una qualsiasi cosa, sempre perso dietro pensieri inconcludenti, paure ingiustificate, ingarbugliate indecisioni. Un'inaspettata eredità, consistente di ottocentonovantamila lire lasciategli dal defunto nonno, lo mette nella convinzione che sia giunto il momento di dare una svolta alla sua accidiosa esistenza trovandosi una fidanzata, operazione finora rimandata, a suo dire, per mancanza di denaro, necessario per offrire da bere, portare a cena, omaggiare con adeguati pensierini la donna da amare. Una donna che non deve avere specifiche caratteristiche per essere la persona giusta, perché Antonio è convinto che la riconoscerà al primo sguardo, la individuerà tra la moltitudine, capirà subito, d'istinto. Sarà proprio così che andranno le cose, quando un pomeriggio di metà ottobre il nostro eroe si imbatterà nella bella Maria, innamorandosene subito, prima di scoprire che la ragazza fosse figlia di un ricco industriale, ricambiato, perché anche Maria si innamorerà subito di Antonio, senza sapere, oppure senza dare peso al fatto, che si tratti di uno spiantato maestro elementare di provincia. "Tutti e due senza distinzione si trovarono spesso sul punto di naufragare anima e corpo in quell'amore le cui singolari caratteristiche furono fin dal bel principio lo struggimento e la consunzione, e se non naufragarono fu soltanto per difetto di metodo e incapacità di trovare la strada giusta perché quanto a volontà non stavano certo in difetto, e infatti se per esempio fosse stato loro consentito di consumarsi a forza di guardarsi negli occhi e di ripetersi fino alla noia ti amo e ti amo essi senza pensarci due volte si sarebbero in breve consumati." Un amore sincero, passionale, destinato tuttavia a durare poco a causa delle differenze sociali che, se per i ragazzi non sono assolutamente di ostacolo alla tenera e focosa relazione, rappresentano uno scoglio insuperabile per i genitori di lei. La fine della storia, che aveva in qualche modo tirato su il protagonista dal pantano della depressione, instillando nel suo animo speranze, progetti, ambizioni, farà precipitare il giovane in un nuovo baratro di tristezza, di ignavia, di desiderio di autodistruzione. Senza più lavoro, abbandonato per trasferirsi in una stanza in affitto in città per stare vicino a Maria e riprendere gli studi, senza più la presenza della sua bella a dare un senso all'esistenza, nauseato dalla vita familiare condotta con una triste sorella e un padre brontolone, privo di obiettivi concreti, Antonio si ritroverà a passare le sue lunghe e infruttuose giornate a giocare a carte nelle osterie, abrutendosi e scialacquando l'eredità, finché non si imbatterà in un nuovo colpo di fulmine. Ma saprà la bella e algida Marica fargli dimenticare le proprie sofferenze? Sarà la disinibita orfana ungherese, così diversa dalla dolce Maria, la vera donna della sua vita? Il nuovo amore farà tornare nel ragazzo la voglia di impegnarsi in qualcosa, di progettare, di sognare, di vivere? O sarà soltanto un'altra, infruttuosa lezione in questa sua buffa educazione sentimentale? Dopo "Il male oscuro" Giuseppe Berto, grande narratore dei turbamenti dell'anima, ci porta in un altro abisso mentale, non più come racconto in prima persona della sua stessa esperienza, ma come voce esterna che racconta, analizza, spiega ma mai giudica, sentenzia, colpevolizza. Lo stile è inconfondibile, forbito, elegante, composto da periodi lunghissimi e scarsa punteggiatura, il modo di affrontare un argomento così delicato è sempre canzonatorio, sbarazzino, amaramente allegro, a tratti comico, ma sempre riflessivo, appropriato, umano. Un romanzo che lo stesso autore definisce, nel poscritto, all'antica e che invece appare una di quelle opere senza tempo perché senza tempo, senza soluzione di continuità risulta essere, da sempre, il male di vivere che attanaglia l'uomo e per questo sempre utili, attuali, moderni restano gli autori, i libri, i protagonisti che ne parlano. Come il nostro Antonio, un essere fragile, infelice, annoiato, privo di stimoli, impantanato in una vita che non ha deciso di vivere e che spera sempre finisca al più presto, in maniera magari secca e inavvertita, purché naturale, in quanto la sua voglia di autoannientamento non scuote a tal punto la sua invincibile oziosità da portarlo a compiere da sé il gesto estremo. Un'esistenza alla quale si rassegna, si abbandona, provando però almeno un minimo a scuoterla, darle una scossa, un senso, un obiettivo, attraverso l'unica cosa che può alleviare le sofferenze, dare linfa vitale, strappare un alito di felicità in mezzo a questo baratro di sofferenze: l'amore. "E allora egli fu pervaso da una felicità immensa che non lasciava posto vuoto né dentro né fuori di lui e così dopo infinite e angosciose incertezze gli parve alfine di scoprire una ragione plausibile per la quale pure a lui era capitata la ventura di venire al mondo."

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