La chiave a stella
Letteratura italiana
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Il lavoro come l'amore
LA CHIAVE A STELLA, di PRIMO LEVI (1978)
TRAMA. In questo bel romanzo che già da tempo volevo rileggere, la narrazione alla prima persona non è di un personaggio di finzione, bensì dell’autore stesso, chimico di professione fino al ‘75, che - chissà se questo invece è finzione - trovandosi per lavoro nell’URSS di prima della caduta del muro (che non sembra proprio un paradiso: vedi in particolare p. 173), fa la conoscenza di un montatore che anche è lì in trasferta: Faussone. Nonostante la differenza d’età, tra i due nasce un rapporto di stima e di comprensione reciproca, accomunati come sono dalla passione per il lavoro, il lavoro tecnico, quello che mette a confronto l’intelligenza con la materia. Levi, che ha ormai deciso di dedicarsi completamente alla scrittura (vedi il capitolo “Acciughe, I” p. 148 e ss.), riporta al lettore, talora esplicitamente evocato (es.: “lo ho sempre lasciato parlare come voleva e per tutto il tempo che voleva, e del resto il lettore ne è testimone” p. 98), le conversazioni che soprattutto la sera, in mensa, si dipanano fra lui e Faussone - Faussone è il cognome, ma tra colleghi … - , o piuttosto riporta quello che Faussone gli racconta del suo lavoro. E alla fine si congedano, avendo fatto quel che dovevano fare.
Ora uno potrebbe chiedersi: Ma come ci si può fare un libro, con questo??”: altrochè se si può, se si mettono in gioco lo stile colloquiale di Levi, la sua verve nel rendere il lato buffo delle situazioni o dei personaggi, un personaggio credibile come Faussone nonchè il suo linguaggio colorito di bellissime espressioni idiomatiche piemontesi. Detto per inciso, già il titolo dice il talento dell’autore, perché è vero che la chiave a stella è un attrezzo, ma … quanta poesia nel nome di questo attrezzo! Faussone dice che essa “È PER NOI COME LA SPADA PER I CAVALIERI DI UNA VOLTA” (p. 74). E in effetti Faussone appare un po’ come un cavaliere di una moderna epopea: quella di un’Italia in via di modernizzazione in cui si moltiplicano le autostrade e gli elettrodotti ad alta tensione, quella di un mondo in cui con l’acciaio e il cemento l’uomo sfida la profondità dell’oceano come la forza dei venti di alta montagna, quella in cui l’aereo ha ormai accorciato le distanze tra i continenti.
Cosa vuole dire Primo Levi con questo libro? Ecco alcuni passaggi della p. 81 dell’edizione Einaudi che ne sintetizzano il significato:
“SE SI ESCLUDONO ISTANTI PRODIGIOSI E SINGOLI CHE IL DESTINO CI PUÒ DONARE, L’AMARE IL PROPRIO LAVORO (CHE PURTROPPO È PRIVILEGIO DI POCHI) COSTITUISCE LA MIGLIORE APPROSSIMAZIONE CONCRETA DELLA FELICITÀ SULLA TERRA: MA QUESTA È UNA VERITÀ CHE NON MOLTI CONOSCONO (…) Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, (…); però esiste anche una retorica di segno opposto (…) che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio o altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui; come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero. (…).
Molto significativamente, Faussone di nome si chiama Libertino, perché suo padre pensava che significasse la stessa cosa che “libero” (che il prete non voleva accettare): “Il termine “libertà” ha notoriamente molti sensi - scrive Levi -, ma FORSE IL TIPO DI LIBERTÀ PIÙ ACCESSIBILE, PIÙ GODUTO SOGGETTIVAMENTE, E PIÙ UTILE AL CONSORZIO UMANO, COINCIDE CON L’ESSERE COMPETENTI NEL PROPRIO LAVORO, E QUINDI NEL PROVARE PIACERE SVOLGENDOLO” (p. 145).
Ovviamente, come scrive Levi sempre a p. 81, “ E’ malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.”
Come si vede, “La chiave a stella” è UNA CELEBRAZIONE DELL’HOMO FABER E DEL LAVORO, IN PARTICOLARE DEL LAVORO DELLE MANI O - MEGLIO - TECNICO: “Le avevo davanti agli occhi, le mani di Faussone: lunghe, solide e veloci, molto più espressive del suo viso. (…) Mi avevano richiamato alla mente lontane letture darwiniane, sulla mano artefice che, fabbricando strumenti e curvando la materia, ha tratto dal torpore il cervello umano, e che ancora lo guida stimola e tira come fa il cane col padrone cieco” (p. 162-3). Levi trova parole persino commoventi per “cantare”, come si diceva una volta, il lavoro artigiano, e le fa dire a Faussone che parla di suo padre anziano e dei suoi amici: “Avevano tutti fatto la guerra, chi in Russia, chi in Africa (…), così, essendo che erano tutti più o meno del mestiere, uno sapeva saldare, uno tirava la lima, uno batteva la lastra e così via, avevano combinato di fare un monumento e di regalarlo al paese, ma doveva essere un monumento all’incontrario. Di ferro invece che di bronzo, e invece che tutte le aquile e le corone di gloria e il soldato che viene avanti con la baionetta, volevano fare la statua del panettiere ignoto: sì, quello che ha inventato la maniera di fare le pagnotte”.
Quando Primo Levi scriveva, il dibattito pubblico intorno al lavoro non si incentrava già più sul carattere alienante del lavoro alla catena di montaggio, e infatti chi nel libro impersona il lavoro, il lavoro appagante perché mette alla prova e quindi può essere occasione di vittoria sulle difficoltà e sui propri limiti, sono il chimico-scrittore e l’operaio specializzato, che hanno ormai maturato una competenza tale da consentir loro di decidere in autonomia per risolvere problemi difficili : perché, come diceva il padre di Faussone, “è meglio essere testa d’anguilla che coda di storione”. Rispetto a quando Levi ne parla, il lavoro tecnico o manuale si è deprezzato: esso è ritenuto vile rispetto a quello intellettuale (e infatti le scuole tecniche e professionali sono, nell’opinione di molti, riservate ai ragazzi meno capaci o socialmente svantaggiati) e i paesi più avanzati hanno via via delegato la produzione ai paesi poveri e alla manovalanza immigrata. O comunque a tutti quei giovani che per campare sono disposti a fare le bestie da soma. Comunque il discorso qua si fa complicato, ma voglio riprendere il brano a p. 81 che ho citato sopra: “L’AMORE O RISPETTIVAMENTE L’ODIO PER L’OPERA SONO UN DATO INTERNO, ORIGINARIO, CHE DIPENDE MOLTO DALLA STORIA DELL’INDIVIDUO, E MENO DI QUANTO SI CREDA DALLE STRUTTURE PRODUTTIVE ENTRO CUI IL LAVORO SI SVOLGE.”. Ecco, un tema presente nell’opera è il rapporto tra le generazioni, tra padre e figlio: se Faussone ama il suo lavoro (più di quanto non ami le donne), è perché suo padre - a cui Faussone pensa spesso con struggimento di cuore - gli ha trasmesso il gusto di “batter la lastra” ad arte (vedi il bellissimo capitolo Batter la lastra e p. 128), suo padre .
Postilla finale che faccio come ex-prof di francese. Il mio pensiero è andato a due autori: al Voltaire di “Candide”, che dice “Bisogna coltivare il nostro giardino” (che si opponeva alla vana interrogazione metafisica e non ha niente a che fare con l’espressione “coltivare il proprio orticello”) e a Diderot, la cui Encyclopédie mostra quanta intelligenza si dispiega nel lavoro e quanta intelligenza richiede la fabbricazione di una macchina.
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La penna e la chiave a stella
Ripercorrendo gli annali dei vincitori del Premio Strega, colpisce l'anno 1979.
L'opera si intitola “La chiave a stella”, l'autore è Primo Levi.
Sorge spontaneo associare Levi al ricordo dei campi di concentramento, ma volgendo lo sguardo a qualche decennio più avanti, è possibile incrociare uno scritto che si compone di tanti racconti aventi per protagonista l'operaio piemontese Tino Faussone che ricorda numerosi episodi legati agli anni trascorsi in giro per il mondo, impegnato a svolgere con passione e diligenza il proprio lavoro.
Ogni racconto ha una collocazione geografica diversa, eppure il percorso di vita narrato risulta fluire omogeneo, senza soffrire di cesure appare come un flusso continuo cui il lettore non può staccarsi.
La semplicità di espressioni e di pensieri dell'operaio trovano ad ascoltarlo le orecchie e la penna di uno scrittore raffinato; se gran parte del tempo lo scrittore Levi ascolta in silenzio pronto a catturare l'essenza dell'uomo che ha di fronte, la parte restante è animata da dialoghi e scambi di riflessioni tra i due.
La fatica richiesta dal lavoro di montatore, le difficoltà delle condizioni climatiche incontrate in terre straniere, l'incontro con culture differenti, i sacrifici personali e familiari, si incastrano come pezzi di un grande puzzle con la dedizione alla propria mansione, con l'attaccamento fisiologico e spirituale, con l'identificazione con la professione esercitata.
Stilisticamente il lavoro è perfetto, in quanto il linguaggio si adatta al signor Faussone, caricandone di pathos la figura, riportando sulla carta tutta la ruvidità e la schiettezza possibile.
Levi si dimostra ottimo narratore, cesellando riflessioni sulla volontà dell'uomo, sul rapporto uomo-lavoro, facendo emergere se stesso tra le pagine attraverso scambi di opinioni con il protagonista venate di ironia, ma anche di saggezza e di grande trasporto emotivo.
Parlare di un mestiere, significa parlare di scelte di vita, di aspirazioni, di promesse, di delusioni, di morti e rinascite, di un guscio che diventa volto e facciata per il mondo circostante.
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Il lavoro come valore
È ben strana la vita: benché le eccelse qualità di Primo Levi come scrittore fossero chiare, l’autore torinese, per sua natura schivo e in quanto tale alieno dall’allacciare rapporti stretti con gli intellettuali della sua epoca e comunque dal mettersi in mostra, fu considerato un grande della letteratura con un notevole ritardo, e nonostante fossero già ben conosciute le sue opere migliori, frutto dell’esperienza concentrazionaria (Se questo è un uomo e La tregua). Al riguardo basti considerare che, nel corso di una interessante conversazione con Ferdinando Camon, è emerso che ci volle un suo articolo sul supplemento letterario del quotidiano “La stampa” affinché il grande storico della letteratura Natalino Sapegno si ricordasse di inserire il suo nome nella 44esima edizione del suo manuale di storia letteraria, all’epoca il più conosciuto e studiato sia ai licei che nelle università. Così anche Primo Levi ebbe il suo nome su questo testo, ma con una dizione che riparava al precedente errore : “E’ forse il più grande scrittore italiano del secolo.”.
È quindi con un certo stupore che ho notato che il primo libro di esclusiva inventiva di Levi, cioè La chiave a stella, ha ottenuto il riconoscimento di quello che è forse il più importante premio italiano, cioè Lo Strega. Premetto, a scanso di equivoci, che questo romanzo, insolitamente ottimista, non è cosa da poco, anzi è di eccellente livello, ma senz’altro inferiore a Se questo è un uomo e a La tregua. Perché questi non siano stati premiati rimane per me un mistero, lo stesso per il quale può accadere che un grande scrittore venga ignorato da critica e pubblico.
Penso, però, che dopo questo lungo preambolo, che ritengo doveroso, sia giusto passare a parlare di questo inusuale romanzo.
In questi tempi di crisi economica, con un livello di disoccupazione crescente e drammatico, La chiave a stella è più che mai di attualità. Il testo propone infatti l’alto valore del lavoro perché, per dirla con l’autore, “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.”; quindi non solo il lavoro consente all’uomo di trarre i proventi necessari per il suo sostentamento e di quello della sua famiglia, ma dona piacere a chi lo esegue, un piacere in verità privilegio di pochi, come anche evidenziato.
Qui si coglie in modo esemplare la figura dell’homo faber, di colui che è artefice del proprio lavoro e non a caso il protagonista Libertino Faussone, detto Tino, è un operaio montatore in proprio, che gira per il mondo, conoscendo altri paesi, altre abitudini, e anche correndo dei pericoli. In uno di questi viaggi incontra in albergo Primo Levi e trovando nello scrittore torinese un ascoltatore attento narra diversi episodi della sua vita, sempre legati all’attività svolta. Il linguaggio dei due è assai diverso: semplice, rozzo, elementare quello di Faussone, colto e raffinato quello di Levi, ma entrambi si capiscono a meraviglia, perché amano il loro lavoro e sono convinti che non ci sia nulla di meglio al mondo per vivere in pace con se stessi.
Sono pagine molto piacevoli da leggere, sovente venate da ironia, e poi questo Faussone riesce naturalmente simpatico, con quel suo linguaggio ben poco colto, ma efficace, con una schietta sincerità, propria di chi sa di non dover dimostrare nulla, perché lui, nel suo campo, è uno dei migliori, capace non solo di usare le mani, ma anche la testa, sovente coordinando il lavoro di molti altri operai, insomma è quel che può dirsi un uomo realizzato e soddisfatto.
Il messaggio di Levi è chiaro: il lavoro in generale è importante e quello manuale, ben svolto, lo è ancor di più, e questo non solo in un ottica della produzione, ma in una visione più globale di una umanità che alacremente travaglia per un proprio accrescimento interiore, una realizzazione di se stessi, qualunque sia il livello di responsabilità.
E’ un’idea forse un po’ utopistica, può anche richiamare certe tendenze in auge nell’Unione Sovietica ai tempi di Stalin, ma quel che è certo è che il lavoro, utile a una collettività, lo è in quanto di utilità per ogni singolo componente, soddisfatto per averlo ben eseguito.
Personalmente, pur concordando in buona parte con il pensiero di Levi, ritengo che il lavoro possa rivestire quella componente fondante della vita degli uomini solo se cambia il modello di società, cioè se si perviene a un concetto di comunità più ampio ed evoluto, non tanto rispondente alle teorie marxiste, bensì come realizzazione del pensiero sociale cristiano
La chiave a stella è un romanzo di sicuro interesse e che, senza per questo considerarlo un capolavoro, risulta di eccellente qualità, tanto che la lettura è senz’altro raccomandabile.