La bomba di Maradona
Letteratura italiana
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La commedia dell’arte
Per chi non lo sapesse, la “bomba di Maradona” poco ha a che fare con il gioco del pallone, come il riferimento al campione argentino potrebbe far pensare.
Non è quindi una “botta” di piede, particolarmente violenta e precisa, tirata imparabilmente verso la porta avversaria durante una partita di calcio.
Affatto, si tratta invece di una deprecabile forma di folclore, per fortuna oggi in disuso, che esalta la consacrazione di feste comandate, per lo più il Capodanno, la ricorrenza del Santo Patrono locale, ma anche eventi privati come matrimoni, compleanni ecc., con il divampare di suoni, luci e colori di petardi e fuochi di artificio, che rappresentano, almeno nelle intenzioni, il finale pittoresco e pirotecnico della solennità.
Nulla da eccepire, se non fosse che in certi luoghi e per certe persone è pericolosamente gradito più un artifizio sonoramente deflagrante che un innocente e divertente turbinio di luce e colori traccianti nel cielo, per cui si fanno esplodere delle vere e proprie bombe carta, un grande contenitore di polvere pirica, proibito sia nella vendita che nell’utilizzo.
Tale è “la bomba di Maradona” del titolo, un ordigno costituito dall’equivalente di un quantitativo di polvere da sparo, quello che presumibilmente sarebbe possibile comprimere in un pallone da calcio, quindi all’incirca un paio di chili di materiale esplosivo, fatto rumorosamente detonare a rischio di chi lo innesca, che spesso e volentieri nell’incosciente accensione della miccia può stupidamente rimetterci una mano, se non peggio.
Le cronache specialmente napoletane dei “botti” di Capodanno sembrano perciò dei veri e propri bollettini di guerra.
Nello specifico, “la bomba di Maradona” rappresenta in questo romanzo uno strumento criminale all’ennesima potenza, poiché è utilizzato come innesco per una vera e propria autobomba che fa vigliaccamente saltare in aria il giudice Peppino Picone, uno dei magistrati napoletani più esposti nella guerra contro le organizzazioni criminali camorristiche, e sua moglie Rosa, che era casualmente quel giorno con lui in auto in quel momento; la donna, incinta a prossima al parto, riesce comunque a dare alla luce il figlioletto Andrea, orfano già alla nascita, che verrà affidato in adozione al miglior amico dei congiunti, il dottor Reale, magistrato anch’egli.
Insomma, uno di quegli attentati tanto vili e cruenti effettuati dalla malavita organizzata con esplosivi nei confronti dei maggiori esponenti dello Stato di diritto, in prima fila nell’eroica lotta di mantenimento dell’ordine e della legalità, che restano monito esemplare di giustizia e rettitudine nella memoria civile di un Paese, come quanto valso il sacrificio dei magistrati Falcone e Borsellino.
Il mandante dell’assassinio del giudice Picone è il boss della camorra Cardella, ben presto assicurato alla giustizia e condannato per questo all’ergastolo, che rivendica pure da reo confesso con malevola boria e insolente tracotaggine la responsabilità del barbaro eccidio.
Data l’importanza etica dell’episodio, a dieci anni di distanza a Napoli si decide di trarre una fiction in memoria della strage, e a tal scopo viene incaricato il regista Gualtiero Maggio, un veterano della tv di stato. Maggio, in sede di scrupolosa analisi, ricognizione e ricerca di testimoni per la preparazione della trama, si rende conto man mano che procede nella ricostruzione dei fatti che la vicenda presenta parecchi punti oscuri: per esempio, l’attentato è stato compiuto nel pomeriggio, quando la mattina un piano molto più elaborato ed efficace era stato appena sventato dalla fidatissima scorta del magistrato e dalle forze dell’ordine, per cui l’attentato poi realizzato rappresenta una specie di piano B, un progetto di riserva approntato per di più in fretta e furia dal boss Cardella, uomo notoriamente sanguigno ed impulsivo di cui non era affatto nota tanta scrupolosità di disegno e programmazione. Inoltre, la bomba sarebbe esplosa solo alla messa in moto dell’autovettura, e solo per caso il magistrato Picone, che non si poneva mai personalmente alla guida dell’autovettura di servizio, condotta invece dall’autista, proprio quel giorno era per tragica fatalità ai comandi; e ancora, appena un attimo prima della deflagrazione, la signora Rosa, forse per una istintiva sensazione di pericolo, aveva disperatamente provato ad aprire invano la portiera bloccata dell’auto.
Maggio, quindi, non è che indaga a tutto campo, non è il suo ruolo, non è un poliziotto o un investigatore, ma invece dubita, è scettico, cerca il dettaglio che non lo convince prima di dare il “buono” ad una ripresa, e ne trova più di uno.
Come regista abituato a inquadrare le scene da varie prospettive, nonché per personale vissuto ed esperienza di vita, sa che la fiction non è altro che una pallida copia della realtà dell’esistenza, che le cose non sono mai come appaiono perché la vita, quella vera, presenta innumerevoli sfaccettature, una, nessuna, centomila:
“…La vita vera porta sempre in seno qualcosa che nessun manuale o libro o codice di comportamento è in grado di prevedere.”
Gualtiero Maggio fiuta quindi un decorso differente dei fatti come sono stati riportati, e rielabora correttamente la vicenda, supportato in questo da suoi compagni di lavoro, il giornalista Cosimo, e soprattutto la stagista Grazia, e Gloria, l’attrice protagonista:
“…Ah, le donne! Hanno una marcia in più…Si, perché i maschi hanno sempre e soltanto l’idea delle cose, vivono la realtà usando l’immaginazione: le donne invece immaginano i pensieri usando la realtà.”
Se la vita è una commedia, talora un dramma o una tragedia, è comunque una forma d’arte molto più veritiera di qualsiasi finzione sceneggiata, ciascun uomo in fondo recita, fa ogni giorno arte della propria commedia di esistere, e lo fa perché l’arte della commedia:
“…ci costringe a fingere tutti i giorni di essere quello che non siamo, fingere di essere più forti o più deboli di quello che siamo, per spaventare o compiacere a seconda delle convenienze.”
Infine, Gualtiero scopre la verità, lo fa perché capisce che erano:
“Troppe le domande a cui non era stata data risposta”.
Semplicemente, perché il nostro è:
“…un Paese che aveva sempre bisogno di esempi per rimettere a posto una scala di valori che troppo spesso perdeva qualche piolo.”
Questo è un libro veramente bello, una storia costruita benissimo e scritta ancora meglio, un piccolo capolavoro del genere.
Un discorso fluido, scorrevole, efficace, dei dialoghi semplici e profondi insieme, un gioiello del discorrere, del parlare, del confrontarsi.
Enuncia fatti, espone teorie, soprattutto descrive con chiarezza visiva luoghi, eventi, persone e sentimenti, azioni ed emozioni.
Scruta nell’animo umano, percorre una città stupenda, Napoli, in presa diretta e contemporanea, indicandone percorsi storici e gastronomici, il tutto con una struggente malinconia ammantata da ironia ed un fine umorismo, tipico di un cultore della commedia dell’arte o dell’arte della commedia.
Si, perché il valore aggiunto, il particolare stupefacente e mirabile insieme, non è la storia, ma colui che la racconta, l’autore, e che autore: Vincenzo Salemme.
Una scoperta, una piacevole sorpresa, assai più gradita perché inaspettata, e lo dico chiaro, io per primo ero scettico sulla validità della lettura, confuso da sciocchi stereotipi in cui ero scivolato.
Il romanzo, edito nel 2018, è sfuggito a molti, ma vale la pena sicuramente di leggerlo, perché merita come pochi altri del genere.
Vincenzo Salemme, autore, regista e attore teatrale non ha bisogno di molte presentazioni.
Cresciuto alla scuola di drammaturgia napoletana, allievo del grande Eduardo de Filippo, nella cui compagnia ha esordito giovanissimo, ha scritto egli stesso commedie ambientate nella sua Napoli, testi dal taglio moderno e dal tocco in apparenza leggero ma assai più profondo, sentimentalmente struggenti ed emotivamente coinvolgenti, che suscitano un riso amaro ma mai carente di ottimismo e speranza nell’uomo in quanto tale.
Si è poi dedicato al cinema, in pellicole in verità dal solo intento commerciale, e proprio questo mi aveva sviato, pensavo fosse la solita manovra editoriale di un artista che si cimenta in altro al solo intento di incuriosire e procacciare acquirenti.
Invece, ho dovuto ricredermi, e sono stato felice di farlo.
Il cimentarsi di Salemme nella narrativa, in una nicchia della narrativa, quella di genere che trova molti autori ma pochi davvero efficaci, capaci di andare in rete come il campione argentino, tanto per restare in tema con il titolo, è stato un esperimento felice, ed è un peccato che non abbia avuto seguito, Ne è venuto fuori un ottimo romanzo, che merita forse più di una lettura; ed è la dimostrazione che l’arte, infine, altro non è che un sentimento: se è valido, buono, positivo, l’artista riesce sempre a trasmetterlo, con qualsiasi mezzo. Perché non è il mezzo, è il contenuto che conta.
Come per Maradona, non è il pallone, ma il talento argentino che indirizza la palla all’angolino giusto.
Ed è gol.