L'ultimo ballo di Charlot
Letteratura italiana
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“Non ho mai visto un comico più triste di te..."
Ero piccola quando vidi per la prima volta “Il monello”, film davvero strappalacrime secondo la mia percezione di allora. Per me, Charlie Chaplin e il suo indimenticabile personaggio Charlot restano legati indissolubilmente proprio a quella splendida pagina del cinema muto.
Era un comico triste, Chaplin, ha ragione la Morte che, in questo bel romanzo di Fabio Stassi, si presenta all’attore ormai anziano alla vigilia di ogni Natale dal 1971 in poi; in cambio di una sonora risata, di volta in volta gli concede di vivere un anno in più, almeno fino al Natale del ’77, quando il Vagabondo si spense nella sua casa in Svizzera.
È stata una bella sorpresa questa lettura. La scrittura è scorrevolissima e la vita di Chaplin, qui presentata sotto forma di romanzo epistolare, si legge con piacere. Gli anni difficili della misera infanzia in Inghilterra, quelli del circo e dei primi spettacoli, l’emigrazione negli Stati Uniti, gli esordi nel cinema, i grandi successi e le altrettanto grandi amarezze, aneddoti del dietro le quinte e personaggi anche realmente entrati in contatto con lui (tra questi, Stan Laurel, il poi celebre Stanlio): c’è tantissimo in questo libro, tutto raccontato con semplice delicatezza e passione dall’autore che ci regala così il ritratto di un grandissimo artista; anzitutto di un comico, un comico triste.
In particolare, quasi alla fine, mi ha colpito un passo sulla comicità che riporto di seguito:
“Il trucco è sempre lo stesso: fare in modo che qualcosa vada storto e che il mondo appaia rovesciato, sottosopra. Il meccanismo della comicità è un meccanismo sovversivo. Se un gigante cerca in ogni modo di aprire una porta e non ci riesce, ma subito dopo la porta si apre a un gatto, a un bambino, a un povero vagabondo è tutto il contrario di quanto accade nella vita. […]La comicità è mancina come me […]. Irride i ricchi, rimette le cose a posto, ripara le ingiustizie. […] chiude le porte ai prepotenti e le fa aprire ai deboli e agli indifesi, anche se solo per il lampo di un sorriso. È quest’incredulità che ci riempie gli occhi di lacrime. Sin dall’inizio, […]suscitare il riso e le lacrime è stata la mia infantile protesta contro la miseria, la malattia e il disprezzo, e il mio rifiuto dell’odio e di tutte le forme sbagliate che finiscono per governare le relazioni umane. È stupefacente, a pensarci, quanto sia facile a contagiarsi l’allegria e quanto triste e malato sia invece il mondo.”
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Un granchio in bianco e nero
“L’ultimo ballo di Charlot” e’ un romanzo su Charlie Chaplin, sentito tributo letterario di Stassi all’attore .
I riferimenti biografici sono parecchi, ma essendo io disinformata sulla realta’ non so certo delineare il netto confine tra verita’ e finzione narrativa. Di certo la sensazione non e’ quella scaturita dalla saggistica o da una buona ricostruzione storica, semmai piuttosto un omaggio sentimentale.
La vicenda si occupa prevalentemente dell’infanzia e della gioventu’ di Chaplin , quella che fu la fase economicamente piu’ misera ma anche rocambolesca della sua vita. Ogni tanto un intermezzo in cui si inscena un incontro tra La vecchia signora e Charlot ormai anziano, che riesce a sfuggire alla morte anno dopo anno incassando una risata dalla sua aguzzina.
Francamente mi ha lasciato in tasca ben poco e deluso generosamente.
La scrittura scorre senza intoppi ma l’incedere mi e’ parso piuttosto piatto. Credo sia un lavoro che debba colpire l’emotivita’ del lettore per raggiungere un buon risultato, altrove non riscontro meriti evidenti. Personalmente mi ha emozionata molto poco, non sono mai incorsa in picchi che superassero una mera sufficienza, e l’ho terminato a fatica. Anche la tecnica utilizzata della lettera confessione di Chaplin al figlio e’ uno strumento lontano dalle mie corde e piuttosto inverosimile.
Per quanto riguarda i capitoletti con la Morte, mi sono sembrati piuttosto scialbi ed insignificanti, il genio di Chaplin e del suo Charlot vantava una potente mimica silenziosa, che non mi dato nulla in quattro righe asciutte.
Forse non l’ho capito, senza ombra di dubbio non e’ arrivato a destinazione e perdonate la miseria di contenuto, mi sovviene ben poco da aggiungere.
Ho preso un granchio, in bianco e nero.
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Charlie il vagabondo
Vagabondo davvero, in giro per l'America con qualche capatina a Londra.... Il vagabondo che noi tutti conosciamo come Charlie Chaplin. la sua vita è stata scritta, romanzata, pubblicizzata e girata nei cinema di tutto il mondo. Questo libro parla di Charlie come un uomo vero, con le sue emozioni, le sue paure, e i suoi dubbi. Persona sagace, furba, che non ha nulla da perdere, rincorre i suoi passi di città in città, conoscendo personaggi illustri e personaggi "normali". Ci racconta di Arlequin, il padre del cinema, o di Naima, la donna che lo cura con tanta grazia.... Il libro è una lettera al figlio Christopher, ancora adolescente, perchè lui è anziano e non può dirgli in vita tutto ciò che gli preme. Anche perchè la Morte si fa viva ogni Natale, con la sua insistenza e il suo cinismo....e vuole portarselo via. il loro patto è che se la fa ridere, lui vivrà ancora per un anno, fino al Natale successivo.
é un racconto simpatico, talvolta triste ma molto bello. Soprattutto se si pensa a chi è il protagonista.
Che sia una storia inventata o no, non è questo il punto. L'autore è stato capace di trasferire l'unicità di Chaplin nell'inchiostro, la sua personalità, così comica e così realista in un libro che fa emozionare.
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Settimo Sigillo - Settima Arte.
Charlot, ormai vecchio, riesce a strappare un altro anno di vita alla Morte, venuta a prenderlo, facendola ridere.
Intanto scrive la storia della sua vita al figlio Christopher.
Dall’esordio – fortuito (anche se sarebbe il caso di dire sfortuito, dal momento che sostituisce la madre che resta “bloccata” in scena, primo sintomo della successiva malattia) – agli stenti iniziali, al successo.
Alla storia di Charlot si mescola quella di Arlèquin, uomo di fatica del circo, che, innamoratosi di una bellissima acrobata (Ezster), inventa per lei nientepopodimenoché il cinema.
Prima dei fratelli Lumière.
È molto difficile raccontare questo libro perché scorre via come una bella ballata.
Rassicurante ed accogliente.
Il racconto più di un nonno ad un nipote che quello di un padre al figlio.
Di quella vivacità in “bianco e nero” e un po’ magica che si percepisce proprio nelle narrazioni dei nonni, tanto lontana da sembrare sconosciuta, ma di cui facciamo indissolubilmente parte per il nostro legame con il narratore.
Charlot racconta della desolazione della sua infanzia (il fratello che gli legge Sherlock Holmes per fargli imparare la parte) e i suoi primi successi. Stan Lauren (l’unico più bravo di lui), il viaggio in America. E lui ad occhi chiusi e stretti per non farne entrare neanche un po’
Di quest’America che lo vede venditore di caramelle, pugile, imbalsamatore, tipografo, sceneggiatore, attore.
Sempre solo.
“Mi sentii immerso in una solitudine nuova, piena di promesse.”
Nella sua – iniziale – lotta per sopravvivere Charlot coltiva il sogno di ritrovare Ezster e recuperare la “prova” che non siano stati i fratelli Lumière ad inventare il cinematografo (anzi, ad un certo punto sembra che questo possa avere anche un significato, oltre il riscatto di Arlèquin, ma in realtà non sarà così).
Ma il racconto è una ballata di un nonno ad un nipote, quindi abbandono immediatamente l’idea di andare avanti cronologicamente, tanto sappiamo tutti come va a finire (la Morte vince. Ma va’? Ma anche no). Portare alla luce qualche momento, qualche personaggio e qualche frase.
Ho amato, Willie, il tipografo a cui mancano due, e che, curiosamente, ha dato un nome a quelle che non ci sono più, invece che a quelle che ci sono ancora e che è capace di cose straordinarie.
(“Willie si alzò in piedi e mi abbracciò anche con le dita che gli mancavano”). È un piccolo personaggio, il tipografo, ma ci soffri quando il Vagabondo lo abbandona, anche se sai che deve farlo [specie quando senti molto su di te affermazioni come questa: “(…) ma la mia insofferenza aveva ricominciato a solleticarmi i piedi e una mattina non ce la feci più.”]
Il mio momento preferito del libro è il viaggio in treno.
Un'umanità varia e variamente disperata condivide un pezzetto del suo sgangherato viaggio, in treno, verso non si sa bene dove.
“Peccato, disse Giò, sarebbe stato meglio non scendere mai da questo treno, tanto lo sappiamo quello che ci aspetta.”
Questa umanità un po’ sradicata che per il fatto di essere in un non-luogo riesce a trovare legami e calore. Solo perché sa – come Charlot - che dovrà scendere e andare via. Come sempre.
E come sempre la nostalgia sarà più dolce e il ricordo – oh sì – assai migliore della realtà.
“La nostalgia è sempre un sentimento sleale, si nasconde dietro una scala antincendio e ti sgambetta quando vuole.”
Ma ti rimette anche in piedi perché c’è qualcosa per cui vale la pena.
Ahimè Charlot scende dal treno, trova altre persone straordinarie e ricompone la storia di Ezster. Ritrova le sue lettere per Arlèquin e aggiunge altri metri di pellicola alla storia, altri sentimenti (perché l’unica telepatia che hanno gli esseri umani è la sensibilità), altri addii e un’altra partenza.
“Ci era bastato un giorno per affezionarci e per perderci.”
Il ritorno non soddisfa lo scopo della partenza, ma apre un periodo fulgido nella carriera del Vagabondo. Che però non perde la sua solitudine, la sua malinconia e il suo bisogno di partire.
Nel momento di maggior successo torna in Inghilterra, sulle tracce di Arlèquin.
Che poi scopriamo essere la Morte.
La Morte che ha inventato il cinema per offrire la memoria – e l’eternità - agli uomini.
Come accennavo, forse la cosa che mi è piaciuta di più è l’eterno andare del Vagabondo.
Il suo sentirsi sempre “sull’orlo di un trasloco.”
L’eterno non sentirsi mai a casa che forse – forse – significa solo essere a casa ovunque perché “casa” diventa dove ti trovi, purché ci sia tu e ci siano “le storie”. Charlot va sempre via, dal primo posto accogliente che trova, il negozio di caramelle, dove “non era una brutta vita” e “le storie andavano come caramelle”, e da tutti i successivi, fino a decidere di andare via dalla vita.
Ma ponendo l’accento sull’andare e non sulla vita.
Sul viaggio piuttosto che sul punto di partenza o sulla meta.
In questa chiave vedo anche il viaggio con Arléquin (volutamente non metto né “ultimo” né “finale”, vicino a “viaggio”).
E allora, forse, pensi che il signor Nicolò Ugo Foscolo, aveva ragione quando scrisse quella cosa meravigliosa che sono I Sepolcri, dove dice che l’unica immortalità che ci è concessa sia la memoria.
E, per come l’ha interpretata Charlot, la memoria e l’eternità sono il cinema.
E che quindi, alla fine, il nonno Charlot ha vinto.
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La vita romanzata del famoso “vagabondo”
L’ultimo ballo di Charlot è uno di quei libri che si leggono con piacere e vengono incontro a diverse aspettative: c’é chi desidera conoscere la vita di Charlie Chaplin e verrà accontentato con una bella biografia, per quanto sia romanzata; ci sono quelli che apprezzano molto i toni poetici e lirici e qui ne trovano un bel po’; ci sono infine coloro che sono sensibili ai problemi delle disuguaglianze sociali, alle miserie che da sempre affliggono il nostro mondo e pure essi saranno soddisfatti.
Stassi in effetti ha scritto un’opera dai molteplici aspetti, inserendo nella biografia di Charlie Chaplin una vena di fantasia accompagnata da toni romantici, insomma per dirla breve ce n’è in abbondanza affinchè questo libro possa raggiungere e interessate variegate tipologie di lettori.
Se é originale l’invenzione della morte che concede una dilazione alla dipartita purchè Chaplin la faccia ridere, c’è anche il mondo estremamente interessante del circo e del nascente cinema che riescono a dare il quadro di un’epoca in rapida evoluzione e in cui progressivamente viene sostituita la realtà effettiva con quella virtuale. Lo stile dell’autore è snello, per nulla greve, la sua capacità di ricostruire ambienti e atmosfere è fuori discussione, perfino la struttura dell’opera è riuscita, con questa sorta di autobiografia con cui Charlie Chaplin, in una lunga lettera, narra la sua vita al figlio minore l’ultimo Natale della sua vita, ultimo perché è consapevole del fatto che la morte questa volta non riderà e che quindi lo porterà via con sé.
In tutta sincerità mi sono accorto che, mano a mano che procedevo nella lettura, si accompagnava al piacere un vago senso di corroborante serenità; inoltre ero teso di continuo ad andare avanti, a mettere dietro di me un bel po’ di pagine, pur sapendo che l’ora della morte del protagonista si avvicinava e con essa la fine del romanzo. Ero quasi tentato di gridare al capolavoro, preso com’ero in un turbine di sentimenti che l’opera mi aveva sollecitato, se non che l’ultimo appuntamento con la Morte mi ha risvegliato da questo bellissimo sogno, tanto è incongruente e spiazzante il finale, di chiara ispirazione esoterica in un romanzo peraltro non impostato in tal senso e quindi, a mio avviso, fuori luogo. Mi è sembrato come una pessima cravatta su un abito di eccellente confezione, ma quel che è peggio mi ha indotto a riconsiderare l’intera opera, con il risultato che ho rivisto il mio giudizio e così, secondo me, non si tratta senz’altro di un capolavoro, ma solo di un libro di buona fattura che sembra scritto proprio per venire incontro a ciò che i lettori chiedono. Quindi c’è un aspetto commerciale – che è giusto che ci sia -, ma che mi sembra preponderante, tanto che a ripensarci a mente serena posso solo dire che mi sono sì divertito, ma che in fin dei conti questo romanzo non ha aggiunto nulla di nuovo alla mia conoscenza, non mi ha stimolato riflessioni su temi importanti, in pratica ho lamentato che non ci siano opportuni approfondimenti.
Di conseguenza è finito con il rimanermi dentro solo il piacere di averlo letto, che comunque non è poca cosa, ma che influisce inevitabilmente sulla valutazione complessiva; é insomma un buon libro, ma nulla di più.
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La triste saggezza di un attore comico
Di Charlot ricordo alcune scene di interpretazione nei suoi maggiori film quali Il Grande Dittatore, e Tempi moderni; inoltre quale regista e anche protagonista di “Luci della ribalta” con l’impareggiabile Buster Keaton.
Ho voluto, quindi, leggere questo romanzo in cui l’autore, Fabio Stassi, rappresenta il grande Charlie Chaplin nella stesura di una lettera indirizzata al suo giovane figlio Christopher, avuto alla veneranda età di oltre 70 anni, in cui descrive la sua biografia romanzata e aneddotica dall’infanzia fino a un attimo prima che la Morte, anch’essa protagonista nella trama, lo vada a trovare la vigilia di Natale, nella sua casa in Svizzera, per accompagnarlo nell’ultimo ineluttabile viaggio dopo che lo stesso attore comico è riuscito a posticipare tale appuntamento per ben sei anni grazie a un “simpatico” patto stipulato con la vecchia Signora consistente di rimandare ogni volta di una anno la data finale qualora l’avesse fatta ridere (sic).
In questa lettera, da considerare quale testamento spirituale, Charlie Chaplin racconta la sua strabiliante vita con tutte le sue variegate sfaccettature dalla povertà al successo; descrive in maniera particolareggiata i vari mestieri che ha svolto e l’abilità di passare dall’imbalsamatore, al vetraio, al tipografo e all’incassatore di pugni nella boxe dilettantistica e a scommessa, prima di varcare la soglia dell’allora neonata arte cinematografica. La lettera è ammantata da pillole di saggezza su come comportarsi nelle circostanze sfavorevoli e sulla caparbietà di riuscire negli intenti con sacrificio e fiducia in se stessi. Molto suggestivo l’incontro con Stan Laurel, della famosa coppia comica Stanlio e Ollio, con il quale attraversa l’oceano Atlantico su un piroscafo che li porta in America nella prima decade del XX secolo.
E’ una lettera piena di particolari, all’apparenza, insignificanti, ma che raccontano i lati più profondi dell’interiorità del grande Charlot la cui comicità è basata su un meccanismo sovversivo, con il trucco di far apparire il mondo rovesciato dove il debole e l’emarginato abbiano sempre la meglio; tutto il contrario di ciò che realmente accade nella vita.
Un libro che trasuda tristezza anche nella gioia di vivere e di andare avanti senza farsi trascinare dallo sconforto; come il pagliaccio del circo che deve far ridere la platea nonostante abbia l’animo distrutto. Uno stile elegante che commuove e che ci induce a pensare qual è la felicità! Forse nelle piccole cose di ogni giorno che passano inosservate in quanto di routine…le ricordiamo, poi, con una punta di nostalgia quando intraprendiamo il sentiero che non ha ritorno.
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il Circo e il Vagabondo
I libri sono fiumi di parole che possono entrarci dentro, nell’anima, arricchendoci solo se noi permettiamo loro di farlo. Penso perciò sia colpa mia se questo romanzo non mi ha colpito, probabilmente l’ho letto nel momento meno indicato. Pensare che le premesse ci sono tutte; Charlot è da tutti noi considerato un’icona di comicità, le sue gag, la sua “camminata”, i suoi baffetti, i suoi pantaloni tanto larghi quanto corti sono emblema di ilarità. Viene da se poi la curiosità nel sapere cosa si nasconda effettivamente dietro quella maschera che sa farci ridere rappresentando la crudeltà che la miseria e la fame possono nascondere.
Questo romanzo indaga sulla personalità di questo attore attraverso le esperienze incontrate nella sua vita; il nascere in un circo da genitore pressochè assenti, la miseria, la fame, la continua ricerca di una lavoro, la forza nel mettersi continuamente in gioco sfruttando ogni occasione, la voglia arricchirsi non accontentandosi mai di ciò che la vita gli offre, sfidando continuamente il destino sentendosi scorrere nelle vene il sangue di un circense.
Eppure non sono riuscita ad emozionarmi. Ho trovato lo stile di questo autore bello, ma non coinvolgente. Non sono riuscita a sentirmi attrice di questa vicenda, non sono riuscita a “sentire” mia questa storia. Per questo penso sia stato il momento sbagliato per leggere questo romanzo, penso di non aver colto appieno il significato che questo libro vuole dare.
Mi è chiaro che alla cavallerizza Ester è legato il tema della perdita, ma penso che questo romanzo volesse dire altro. Scorrendo le pagine attendevo di capirne appieno il significato e questo è stato solo in parte chiarito dal finale. Non so, penso mi sia mancata quella sensibilità nel cogliere questo romanzo.
Poi però ho trovato alcuni aspetti molto belli: ad esempio geniali i dialoghi tra Charlot e la Morte, duri e canzonatori proprio come forse la morte attende ognuno di noi.
Il mondo del Circo come tema ricorrente anche attraverso i personaggi che lo popolano mi ha ricordato le vicende di un altro romanzo (che ho letteralmente adorato) “Nomadi” di Jennings Gary. Ne ho ritrovato le avventure e le disavventure che si nascondo dietro un mondo che è solo apparentemente festoso.
Nel complesso non me la sento di bocciare questo romanzo, probabilmente è una mancanza personale, ma non posso comunque dire che mi abbia emozionata come vorrei facesse un romanzo di questo genere.
Danzare con la morte
“Ti propongo una scommessa (lo dice sofferente, dalla sua scomoda posizione): tu verrai ogni Natale, e se ti farò vivere ancora, mi lascerai vivere fino al Natale successivo…”
Ne “L’ultimo ballo di Charlot”, opera finalista al premio Campiello 2013, Fabio Stassi alterna gli “Interno notte” del 24 dicembre 1971, 1972 … 1977 a capitoli intitolati “Primo rullo”, “Secondo rullo”…
Negli “Interno notte” si riportano i metafisici colloqui tra Charlot e La morte (“Non devi farmi ballare, Charlot, devi farmi ridere…”) e le circostanze grazie alle quali l’uomo per ben sei volte procrastina l’appuntamento estremo.
Nei “Rulli” Charlot scrive un’immaginaria lettera a Christopher, il più piccolo dei suoi figli, che nel 1971 ha soltanto nove anni e rappresenta la ragione principale per la quale Charlot chiede alla morte di ripresentarsi l’anno successivo.
Nella lettera, Charlot rievoca dettagli sconosciuti (secondo l’autore “inventati”) della sua vita e il passato circense (“Lì imparai le capriole, i salti mortali, a camminare sulle mani”) disseminato da personaggi come Frida la donna cannone, Marceline il mimo o il ventriloquo, sul quale aleggia la leggenda di Arlequin (“Quel tipo più nero della notte che pulisce la sabbia degli elefanti e toglie gli sgabelli dalla pista”): “la commovente storia del montambanco che inventò il cinematografo per amore” di “Eszter, la cavallerizza ungherese”, fuggita in America per cadere vittima di un terribile incidente durante un’esibizione.
Nella “compagnia di Fred Karno, la Fun Fantasy… solo uno era più bravo di me, anche se doveva farsi le ossa: un ragazzo magrolino dall’aria pasticciona, i capelli dritti e gli occhi perennemente sul punto di lacrimare. Allora usava ancora il suo nome: Arthur Stanley Jefferson, ma tutti l’avrebbero conosciuto come Stan Laurel”.
Proprio con il futuro “Stanlio”, Charlot intraprende un viaggio in America, ove i due si introducono clandestinamente. Poi le tappe si susseguono: New York, San Francisco, Los Angeles Chicago, sulle tracce dell’equilibrista a cavallo… talvolta tirando la monetina per decidere la tappa successiva.
Con le tappe del viaggio, le esperienze si infittiscono. A San Francisco diviene imbalsamatore (“Ho scuoiato parecchie carcasse, gli ho svuotato le vene, strappato budella e nervi, cucito bocche, maneggiato la formalina e ogni tipo di unguenti e resine”) presso il signor Archibald (“Mi esaltava la possibilità di sfidare la Morte fino in fondo”), lavora in una fabbrica di candele, è tuttofare in una palestra di boxe, diviene apprendista tipografo e conosce il mondo dei libri…
A Los Angeles con un espediente si procura un impiego come “scrittore di didascalie in un cinematografo”: è l’occasione per realizzare il suo primo cortometraggio (David Copperfield), anche se svolge il suo ruolo sulla scia dell’improvvisazione (“Andavo a braccio, sperando che quel mestiere fosse talmente nuovo che nessuno sapesse ancora in cosa consisteva”).
Ne seguono altri: “Quei cortometraggi duravano più o meno un quarto d’ora ciascuno. Ne finivamo anche tre alla settimana, ma nessuno uscì con il mio nome.”
Sino al successo: “Fu quel giorno che diventai Charlot, the Tramp, il vagabondo con la bombetta e il bastone di bambù…”
“L’ultimo ballo di Charlot” è un romanzo particolare, di nicchia, soffuso com’è della malinconia che campeggia nel mondo dello spettacolo e del circo, colorato dalla varietà di personaggi anomali e tragici, nostalgico nel ripercorrere il ventesimo secolo che saluta ai suoi albori due “invenzioni” rivoluzionarie: il cinematografo e l’aeromobile…
Bruno Elpis
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L'ultimo ballo di Charlot
E’ la notte di Natale, Charlie Chaplin ha ottant’anni e la Morte, puntuale come la profezia di tanti anni prima, viene a prenderlo. Il grande personaggio spinto dal desiderio di vedere crescere suo figlio ancora bambino, stringe un patto con la Morte: se riuscirà a farla ridere guadagnerà un altro anno di vita. E così di anno in anno Chaplin indossa bombetta e bastone e mette in scena il suo irresistibile personaggio beffando il destino. Nel frattempo inizia a scrivere una lunga lettera al figlio in cui descrive la sua vita sempre all’ordine del trasloco. Ne viene fuori un dipinto di un personaggio intriso di umanità, ricco di talento, il cui motore dell’esistenza è sempre stato il desiderio. Intorno a Charlot si muovono nani, acrobati zoppi, si vive l’invenzione del cinematografo, si viaggia sulle ferrovie dell’America, si tira di boxe, si vive all’addiaccio. “Solo nel disordine dell’amore ogni acrobazia è possibile”.
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Lacrime e sorrisi
E' una scelta coraggiosa e talora pericolosa, quella di dare come protagonista al proprio romanzo un personaggio illustre.
Ma la scelta di Fabio Stassi è stata premiata.
Questa non è un'opera che nasce solamente dalla creazione e dall'inventiva narrativa, ma si percepisce un enorme lavoro di preparazione sotteso per potere dare forma ad un uomo come fu Chaplin.
E' magnifica e prorompente la figura dell'attore che la penna di Stassi ricrea, agganciando l'attenzione del lettore e coinvolgendolo in un viaggio nel tempo.
Sono gli albori del XX secolo quando Charles approda in America alla ricerca di fortuna; ad aspettarlo tanta gavetta, vita di strada e incontri con variopinti personaggi.
Una vita in salita per un uomo nato da una famiglia allo sbando, un giovane avvezzo ad una vita raminga, senza radici, attratto dalla vita da artista, perché è l'unica ad aver conosciuto fin dalla nascita.
E' la stessa voce di Chaplin, oramai al capolinea terreno, a narrare in prima persona spaccati di vita, ricordi preziosi come l'oro, a ricordare volti di uomini e donne che il destino ha posto sul suo cammino.
Charles non è solamente un artista di fama mondiale, ma è anche un uomo ed un padre che rievocando la propria lunga e travagliata esistenza, può raccontare cosa sia il dolore, il sacrificio, l'amore, l'amicizia, il successo e la sconfitta.
E' accattivante ciò che riesce a fare Stassi con la voce di Chaplin; giunge a sviscerare l'anima di un uomo illustre con perizia e credibilità, facendo di lui simbolo di un vagabondo in cerca di fortuna, di un uomo oppresso dalla solitudine, personificazione della voglia di lottare e sperare.
“L'ultimo ballo di Charlot” è un romanzo originale, curato e genuino che non ambisce a divenire racconto biografico o saggio. E' un lavoro denso di contenuti e di introspezione psicologica del personaggio, che fluisce in un costrutto narrativo elegante, in cui la prosa si adatta ad accogliere tra le proprie trame episodi realmente accaduti e nomi conosciuti della storia del cinema.
Fabio Stassi ha dato prova di grande maturità stilistica, confezionando un lavoro interessante e carico di calore umano, togliendo la maschera di Charlot al grande Chaplin per provare a catturarne il vero volto.