L'invenzione della madre
Letteratura italiana
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Troppi spazi bianchi tra le metafore
Per quanto ritenga di essere un lettore dai gusti molti precisi (“esotici” direbbero alcuni, “pittoreschi” commenterebbero altri, “aristocratici” siglerebbero altri ancora), a volta anche io mi lascio sedurre (pentendomene puntualmente) da qualche libro che vedo esposto all’ingresso delle librerie (esattamente in quegli scaffali che tutti noi riconosciamo come trappole-per-lettori-poco-avveduti). Questo (generalmente unico) momento di debolezza annuale mi permette in ogni caso di provare ad avere un polso dei gusti che corrono. Questo libro di Marco Peano è rientrato in un mio autonomo ciclo di letture dedicato ai libri che affrontano il tema della morte della madre. Ciclo - devo dire - che mi ha lasciato abbastanza deluso, anche di autori come Simenon, che mi sono apparsi sempre troppo superficiali o riservati per essere davvero incisivi.
In questo libro Peano affronta la storia semplice di un figlio che deve accettare la morte incombente della madre malata di tumore. Nelle tre parti che lo compongono si alternano i ricordi dei mesi in cui la madre era ancora in salute, agli sforzi quotidiani che Mattia, il figlio protagonista, e suo padre fanno per poter assistere la madre al meglio fino alla fine. Seguono poi le pagine dedicate ai giorni della morte e qualche capitolo su quello che accade dopo, sulle vite da ricomporre, gli spazi da riconquistare.
Il libro, è vero, è molto garbato e si accosta con rispetto e tatto a un’esperienza lancinante, eppure fallisce proprio là dove un libro dovrebbe essere più solido: nella scrittura. La scelta di organizzare la narrazione in brevi capitoli che raramente superano le 2-3 pagine a di suddividere, a loro volta, i singoli capitoli in paragrafi continuamente separati da linee bianche da un lato mi porta a dubitare delle capacità dell’autore di gestire adeguatamente il periodare del testo, dall’altro lato mi fa sorgere costantemente il pensiero che tutto sia finalizzato a redente il libro più appetibile anche da chi teme i muri nero-bianchi di un testo in prosa. La mia personale idiosincrasia per questo genere di scrittura che ammicca da un lato alla poesia, dall’altro all’icastica brevità di twitter e dall’altro ancora a scritture pericolosamente in bilico come quelle di Baricco o De Luca (senza però averne la fluidità) ha continuamente minato una lettura di cui, pur apprezzando la delicatezza, conservo ancora il fastidio.
Discorso a parte meriterebbe la continua metaforizzazione della patologia oncologica che viene perpetrata nel libro e dell’uso insolitamente abbondante di terminologia medica qua e là disseminata nelle pagine: le metafore permettono ai malati di rendere la malattia già vicina e dunque accettabile, ma dall’altro li ingabbiano in esperienze deleterie. Se una malattia è una battaglia, forse chi combatte e muore lo fa perché non è abbastanza forte o coraggioso? Il fatto è che le malattie oncologiche non sono battaglie, ma lunghi e stretti corridoi bui in cui nessuno è eroe di guerra, ma solo un essere umano di fronte alla dura finitezza della vita.
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IL PIU' AGGHIACCIANTE DEGLI HORROR
Le etichettature con cui siamo soliti classificare i libri che leggiamo lasciano davvero il tempo che trovano. Questo per dire che “L’invenzione della madre” è uno dei più agghiaccianti horror che abbia mai letto: qui non c’è il maniaco immaginario, il feroce serial killer che aggredisce fra i fiordi dell’Europa del Nord o in un parco di Londra, qui non esce dall’ombra il mostro che prima o poi il poliziotto comprensivo e filosofo ricaccerà fra gli spettri sempre pronti a risorgere per intrattenerti un paio d’ore. Qui i campione del bene sono i barellieri, la dottoressa piccola, quella con le trecce, il chirurgo dalla mani miracolose, ma essi sono eroi ambigui, paradossalmente complici con le loro cure illusorie del cancro che uccide, massacrandone il corpo, la madre del venticinquenne cinefilo Mattia. Qui l’assassino carnefice è invincibile. Se entra in casa tua, essa diventa la stanza della tortura, dove tu sei condannato a guardare impotente la persona che ami e a seguire attimo per attimo la sua agonia. Allora non esiste più nulla, cose e persone diventano trasparenti, non hanno più un nome né un‘identità: il padre è solo più il padre, la ragazza è solo più la ragazza, la città e il paese diventano uno spazio anonimo, un luogo irriconoscibile, un palcoscenico vuoto ove tu e altri attori privi di talento balbettate le battute scabre di un copione mediocre. E la cosa più spaventevole è che l’incontro con l’assassino è esperienza diffusa, non eccezionale, potrebbe capitare e capita a chiunque. Per l’esordiente Peano, editor per l’Einaudi, non deve essere stato facile raccontare l’esperienza autobiografica che ha segnato la sua giovinezza. Ovvio forse immaginare che il libro nasca dalla necessità di accettare il trauma della morte della madre, necessita tanto più urgente per chi ha fatto della letteratura il proprio mestiere. Allora tecnica e stile ovvero il come raccontare la malattia sono un modo per esorcizzare l’annullamento di sé che nasce dal dolore e dalla devastazione. Ecco dunque la scelta di bandire il racconto in prima persona e di riempirlo a mo’ di documentario con descrizioni particolareggiate di una quotidianità sconvolta dall’obbligo di assistere una persona inferma, destinata a morire: la voce narrante è infatti uno sconosciuto che pedina Mattia passo per passo, ne registra pensieri e sensazioni, inframmezzando l’osservazione oggettiva con parentesi di commento. Una sorta di fotografo/ operatore cinematografico dotato di sonda, capace di penetrare le apparenze e di andare più lontano di coloro che gli eventi li vivono e ne sono vittima. Un narratore che possiede la parola salvifica, quella che inventa la verità scoprendola ( invenzione deriva dal verbo latino invenio che significa scoprire), quella che consente il colloquio a distanza fra il figlio e la madre, ovunque essa sia, qualunque cosa essa sia.
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Il dolore e la clinica
Il romanzo viene dichiarato nelle presentazioni esempio di "grande letteratura". Forse il tempo fa cambiare il concetto di "grande letteratura". Forse una cartella clinica di un ospedale o di un hospice per malati terminali possono diventare "grande letteratura". Forse un testo come "La morte di Ivan Illic" di Leone Tolstoj non è più, oggi, grande letteratura perché non corredato di sufficienti dati su argomenti oncologici, assistenziali, terapeutici, palliativi. Ho letto questo libro perché ho avuto un'esperienza simile a quella del protagonista, e l'idea di "inventare la madre" mi ha sedotto. Tuttavia: il protagonista non è sufficientemente credibile, troppo vecchio per essere "traumatizzato" da un lutto (26 anni), troppo irrisolto per avere un consistente profilo personologico, lavoricchia, si intende un po' di cinema, ha una ragazza quasi magica, ha un debole rapporto col padre, però agisce come un infermiere professionale sperimentato e dispensa termini oncologici da manuale medico professionale. Il rapporto col mondo medico è non troppo velatamente soggetto di critica, i medici sono disumani, i figli, al contrario, capiscono tutto e non sono capiti: questo genera rabbia e aggressività nascosta. Tutta la prima parte del libro e anche parte della seconda sono infarciti di termini medico oncologici e tanatologici. La parte del libro che si salva è nell'ultimo terzo, quando il figlio esprime, sia pure in frammenti, il vero vissuto del lutto. Il finale invece nuovamente non è credibile. Con la morte della madre il figlio in un certo senso "si libera". L'ambivalenza sottesa al fatto che questo possa essere in qualche modo legato alla perdita della madre non viene minimamente analizzata, né lo è stata prima l'ambivalenza legata alla convivenza con un malato gravissimo. Questi dati sminuiscono il valore del libro. Se per fare "grande letteratura" fosse sufficiente sapere usare una terminologia medico oncologica diagnostica e tanatologica, molti potrebbero essere "grandi letterati" senza grosso sforzo. Non ho trovato questo "realismo" né bello né utile. In molti grandi libri si parla della morte e del lutto, senza bisogno di realismo medico, un tempo non se ne sapeva abbastanza, in epoca contemporanea la sapienza dello scrittore dovrebbe sapere evitare le trappole della società medicalizzata.
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La morte di Ivan Illic
Il tempo della vita