L'innocente L'innocente

L'innocente

Letteratura italiana

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Alle volte non è facile stabilire il confine tra colpa e innocenza. Che cosa succede quando il male ci viene inferto da chi dovrebbe difenderci? Chi è colpevole: colui che produce il male coscientemente oppure chi, in buona fede, crea danni e dolore anche maggiori? Il male è tanto più brutale quando si presenta dietro l’alibi del bene, tanto più violento quando è in- consapevole. È l’estate più torrida del secolo. Matteo, un ragazzino di dodici anni orfano di padre e grande appassionato di musica, è seduto in auto al fianco della mamma nel breve viaggio da un paese di campagna alla città vicina, dove sarà interrogato dal Giudice per un presunto abuso subito due anni prima. Un viaggio di formazione, un crescendo emotivo fino all’incontro fondamentale in quella che lui chiama la “Stanza delle parole”. Giudice e Psicologa svolgono il loro necessario compito, ma proprio questo forse è alla radice del male che infliggeranno al “minore”, come lo chiamano. Minore, appunto. Quasi fosse un dettaglio marginale di una storia tra adulti, in cui lui non è che una voce. Il viaggio di ritorno sarà breve, e segnerà per Matteo il vero spartiacque tra il mondo dell’infanzia e il suo trovarsi troppo presto “grande”. Con questo strappo il ragazzo troverà dentro di sé la capacità di reagire e di riconoscere finalmente l’ambivalenza delle parole, come della vita.



Recensione della Redazione QLibri

 
L'innocente 2018-09-07 14:44:09 Antonella76
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    07 Settembre, 2018
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MISURARE, SCAVARE...E POI DIMENTICARE



Franzoso ci parla nuovamente dell'infanzia, di un bambino...non "indaco" stavolta, ma un bambino in difficoltà.
Un bambino che lotta contro il mondo degli adulti, contro le loro parole che non capisce, parole che smettono di essere leggere, parole in grado di modificare per sempre la vita delle persone, anche pronunciandole  una volta soltanto.
Da alcune parole non si torna indietro.

Ci mostra subito Matteo, dodici anni, a letto, in preda ai crampi, ad un malessere che lo attanaglia e il desiderio che quella giornata non abbia inizio.
Matteo si porta dentro un dolore...e nessuno degli adulti che lo circondano riesce davvero a superare il muro che lo divide da lui, da quello che gli è successo.
Non sua madre (donna troppo ansiosa e insicura), non i nonni (così poco empatici), non la psicologa (ingabbiata nel suo ruolo), non l'avvocato (troppo autoriferito) né tantomeno il Giudice (il cui unico obiettivo è la verità "a qualunque costo").
Loro vogliono soltanto le sue parole, quelle che lui non vuole e non riesce a dire...mentre lui desidera solo andare a pescare alle chiuse, o sdraiarsi nei campi di mais, o pensare a suo padre che non c'è più.

Franzoso affronta il tema dell'abuso sui minori in un modo particolare, senza raccontare davvero, ma attraverso tutto quello che Matteo non riesce a dire, attraverso il suo disagio, attraverso dialoghi minimi, essenziali, pieni di contraddizioni tra ciò che si dice e ciò che si pensa, ma potentissimi.
Lo fa attraverso le lacrime di sua madre, con le sue frasi spezzate, che dicono tutto e non dicono niente...
Lo fa attraverso il tic-tac di un orologio/sveglia a forma di trattore che segnerà la fine del "tempo dell'infanzia" e l'ingresso nel mondo degli adulti.
Eppure i pochi accenni che ci dà,  sono sufficienti a farci entrare nella storia, a farci tremare al pensiero che il male s'insidia sempre dove non dovrebbe, che il pericolo è troppo spesso nascosto sotto gli abiti della "protezione".

Un romanzo rapido ed efficace, che non giudica e non condanna, ma apre una finestra sul mondo dell'infanzia violata, sottolineando come la violenza e l'abuso possano arrivare anche da altre porte, magari proprio quelle chiamate in causa per "curare" le ferite.
Molto bello.





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L'innocente 2018-09-18 16:56:57 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Settembre, 2018
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Tic. Tac.

«E infatti, il tronco, dopo le ultime resistenze, aveva ceduto, e ne sarebbero caduti altri, di alberi, e l’autunno si sarebbe trasformato in inverno, e il sole sarebbe sorto e sceso sempre, non si potevano fermare i temporali, o le piogge, o il susseguirsi delle stagioni, né si poteva spostare il corso degli eventi. [...] A ciascuno la propria battaglia. Le due facce. Uomini e alberi.» p. 19-20

Marco Franzoso torna in libreria con un romanzo di grande attualità che parla di infanzia, che parla di un bambino in difficoltà. Un bambino schiacciato dai silenzi, dalle insicurezze della madre, dalle circostanze, dagli avvenimenti. Un bambino che rivive e non ricorda, o almeno cerca di non ricordare più. Un viaggio, con la mamma e l’avvocato, un incontro con gli assistenti sociali e una giudice, il dover affrontare quelle due facce della stessa medaglia. Il suo nome è Matteo, ha dodici anni, fa la seconda media e deve dare agli adulti quel che loro vogliono: le parole.
Non può far affidamento su alcuno: Enrica, la madre, è troppo insicura e indecisa, i nonni non hanno empatia ma giudicano, in particolare la nonna, la psicologa che suona falsa sin dalle prime battute, finisce con l’essere ingabbiata in quel che è il suo ruolo, l’avvocato viene sminuito nelle sue funzioni e a sua volta pecca di mancanza di empatia, la Giudice, infine, cerca quella verità “oltre ogni ragionevole dubbio” e “ad goni costo”, a prescindere da quel che può significare per l’innocente.
Silenzi, sprazzi di pensieri e parole. Fatti raccontati senza raccontare davvero ma semplicemente affidandosi al disagio provato dallo stesso fanciullo. Ed è proprio dai silenzi, dalle parole pronunciate diverse dal pensiero, dai minimi dialoghi, dalle contraddizioni, che il testo esce fuori con tutta la sua forza dirompente. Si apprende dell’abuso sul minore mediante l’intuizione. Si comprende quel che è accaduto, si stenta a crederci, si rileggono i passi per essere sicuri di aver capito bene. Si è sopraffatti dai pensieri e dalle riflessioni. Si è sopraffatti dai perché. Significativi, ancora, i passaggi in cui Matteo si guarda da fuori tramite la piccola Sofia, i passaggi in cui riconosce il suo sguardo, il suo sentirsi fuori luogo, sporco, sbagliato, colpevole.
Un piccolo capolavoro che arriva rapido nelle sue 154 pagine, che non giudica e non condanna, ma che apre la finestra su un mondo di violenza che invita all’immedesimazione, alla consapevolezza, alla disamina.

«Le parole hanno due facce, una visibile e una nascosta, perché tutto è doppio, non ci possiamo fare niente. E soprattutto si vergognava di avere capito solo dopo essere entrato lì dentro che certe parole e certe frasi e certi discorsi detti dagli adulti avevano un senso definitivo che non concedeva ripensamenti, o riparazioni, o cura, perché il senso rimaneva incassato davanti a chi aveva parlato come un masso di pietra. Alcune parole, certo non tutte, non quelle che anche gli adulti usavano per farsi capire dai bambini, o che i bambini amavano scimmiottare quando parlavano con i grandi, appartenevano a un universo differente e fino a poco tempo prima sconosciuto. Prima c’era un mondo, lì fuori. C’erano il papà e la mamma, c’era la nonna, c’erano i professori di scuola, c’era la preside, c’era il sindaco, c’erano il parroco, il farmacista, il pediatra. C’erano persone che sarebbero rimaste per sempre al loro posto in ambulatorio, in municipio, o a scuola e, per quanto un bambino potesse arrabbiarsi o piangere, quel mondo definitivo non ne sarebbe mai stato sfiorato. C’era il mondo e c’erano anche i bambini, e i grandi erano lì per aiutarli a vivere senza capire.» p. 88

«Si sentì molto orgoglioso di sé stesso e, ora che aveva visto lo scatto, era anche pronto per capirlo. Sì, adesso era grande abbastanza per vedere il movimento delle lancette e sentire il tempo passare, senza paura dei ricordi o di quello che sarebbe venuto poi. Tic. Un po’ dimenticare, un po’ ricordare. Tac. Mondo e parole. Ciò che passa e ciò che resta per sempre, anche se nascosto dentro di noi. Tic. Le due facce della stessa medaglia erano una cosa sola, ce l’aveva fatta, e anche suo padre sarebbe stato molto orgoglioso di lui. Tac.» p. 154

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