L'età fragile
Letteratura italiana
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Cadute, traumi, contusioni
Come è noto, questo è il romanzo vincitore del prestigioso Premio Strega 2024. Chapeau, nulla da eccepire, si tratta in effetti di una lettura piacevole.
Una discreta prova di una autrice che ha già avuto modo in precedenza, con i suoi lavori, di farsi apprezzare da molti, sia in termini di critica che di vendite.
Un testo scritto con uno stile tutto suo, inconfondibile, leggibile in breve, mai i suoi libri contano troppe pagine. Una scrittura essenziale, un linguaggio asciutto, preciso. Donatella Di Pietrantonio va subito al dunque, magari anche in modo spiccio, forse eccessivamente sintetico, qualcuno direbbe una prosa scabra, però efficace, e anche efficiente per il suo voler dire. Tuttavia, a mio modesto parere, il premio più che a questo libro in sé, è stato dato, come dire, alla carriera, al complesso dei suoi elaborati e non specificamente a “L’età fragile”. Un premio meritato sì, ma alla scrittrice, al complesso della sua produzione. “L’età fragile”, in sé e per sé, non mi convince in pieno; per esempio “ L’Arminuta”, colei che ritorna, la riportata a forza, partita e rimandata indietro quasi fosse un campione deteriorato, che è il suo testo forse più noto e di buon successo, e a ragione, mi piacque tantissimo, molto di più dell’ “Età fragile”, era veramente un piccolo gioiello. Una storia di abbandono, molto incisiva, commovente ma terribilmente reale, raccontava un ritorno coatto che però si tramutava in una occasione, una opportunità di riscoperta delle proprie radici, e di un affetto unico, quello che solo una sorella può darti. Anche il sequel di questo, “Borgo sud”, mi è parso di una spanna superiore all’”Età fragile”, e dire che è appunto una continuazione, e si sa, la puntata successiva, l’opera seconda, non riesce mai bene come quello che lo ha preceduto, sarà perché il lettore si aspetta inconsciamente il “già visto”, il rischio di deluderlo è alto. Insomma, finanche i più datati “Mia madre è un fiume”, storia di una anziana che si perde nella nebbia dei suoi ricordi che svaniscono e di una figlia che se ne prende cura aiutandola a ricostruirli, o “Bella mia”, un testo attualissimo, non tanto perché ambientato all’epoca del terremoto all’ Aquila, ma per il tema, quella della maternità per interposta persona, mi sono apparsi, come dire, superiori. Di molto superiori. Intendiamoci, la penna è la sua, pregevole; però a mio parere, “L’età fragile” è appunto fragile, si ferma in superficie, non incrina la linea piatta delle acque, si limite alla trasparenza anziché tuffarsi per esplorare, e descrivere, al meglio i fondali. Che pure sembrerebbero meritevoli di più accurata osservazione: per me, non è la sua opera meglio riuscita. Detto questo, Donatella Di Pietrantonio prende spunto per questo suo ultimo da un tragico episodio di cronaca nera realmente avvenuto sulle pendici boscose della Maiella anni fa. Vittime, povere ragazze, giovani turiste, un femminicidio commesso a scopo di libidine da un individuo in cui erano incappate del tutto casualmente. L’assassinio, un giovane slavo, era un pastore confinato in estrema solitudine nell’assolvere il suo miserabile servizio, davvero in assoluto isolamento, mal retribuito e in condizioni miserevoli, uno schiavo, letteralmente, che l’esistenza di stenti e privazioni aveva desensibilizzato di ogni umanità regredendolo ancor di più alla condizione di bestia selvaggia. Ancora più bestia erano da etichettare però coloro che, persone cosiddette “civili”, avevano pensato bene, tra l’altro, di provvedere certosinamente ai propri meschini interessi, e cioè di armare la bestia perché meglio custodisse le greggi affidategli, infischiandosene delle conseguenze, salvo poi negare ogni responsabilità, scaricando tutte le colpe su quel disgraziato, ancora più colpevole perché un bruto, un diverso, una bestia selvatica, giustappunto. Ecco, tutto questo è preso a pretesto, sullo sfondo agisce il vero protagonista di questo romanzo, la terra natale della scrittrice, l’Abruzzo, il luogo vero protagonista, il personaggio principe e ambivalente, il solo che ha una grande età ma non è per niente fragile, reso a perfezione, e con orgoglio, nei suoi due aspetti precipui: la durezza e la magnificenza. Questa la location, e il pretesto narrativo: poi il romanzo è una storia di famiglia, un rapporto madre figlia. La madre, Lucia, che quel tragico evento che abbiamo detto lo ha vissuto, e la figlia Amanda che, tra un lockdown da covid e accidenti vari, ritorna alla casa natale abbandonando improvvisamente gli studi, e si rinchiude in se stessa, oltre che nella sua camera. In ambedue i casi è una storia di dolori, di cadute, di traumi, ma così è la vita, né più né meno, è quanto succede a tutti, a tanti, a molti, quello che differenzia gli uni dagli altri è il modo come reagisci al dolore, ti rialzi dalla caduta, ricomponi i traumi. Quello che non ti uccide, non è detto che necessariamente ti rafforzi: ma certamente ti insegna che, se vuoi vivere, sarai pure fragile per età o per altro, ma devi darti una mossa, in qualche modo, devi raccogliere almeno i cocci più grandi, e ricostruire un manufatto più o meno funzionante, almeno alla meno peggio. Qualcuno ci riesce, spesso più di uno, e talora davvero bene proprio quelli insospettabili, creduti meno capaci, che al momento utile sanno tirare fuori tutto quello che hanno, capacità volitive ignote finanche a se stessi, e bene o male ce la fanno. Perché è così che si fa, siamo tutti fragili, e forti a un tempo, se solo lo vogliamo. Il che significa che possiamo farcela tutti, a volerlo. Serve però…parlarne.
Ecco, è questo che non funziona. È un romanzo di silenzi, d'interruzione delle comunicazioni, quelle tra madre e figlia protagoniste, ma anche tra coppie, tra amici, tra le vittime di eventi tragici. Un libro che dice, non a parole, con i silenzi, troppi però. I vuoti silenzi non sono utili a indurci alla riflessione, resta un distacco tra libro e lettore, le emozioni ci sono, ma appena accennate, in superficie.
Così però non ti coinvolgono, non evolvi, resti fragile, a prescindere dall’età.
Libro compreso.
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Spigoli vivi
E’ una storia di incontri e scontri generazionali, che prende vita da un fatto di cronaca e, liberamente, ne viene costruita attorno una storia, di una mamma e di una figlia, di una mamma che è anche figlia e di una figlia che è anche nipote. Al centro c’è una terra, fatta di semplicità, di umiltà e di buoni valori e sullo sfondo c’è una città, fatta di luci che possono abbagliare e far brillare gli occhi, ma che possono anche ferire e lasciare segni. Ci sono parole che possono fare male, ma anche silenzi che possono essere ancora più taglienti. Come gli spigoli vivi che fanno attrito fra queste tre generazioni così diverse e così altrettanto fragili, perchè le età fragili sono tre. Tutte e tre. Spigoli vivi che è la realtà poi a rompere o a smussare. I personaggi sono molto belli, soprattutto la protagonista. E’ bello il vissuto che si portano dentro, la gestione dei loro rapporti. Perchè il destino delle madri è non poter più proteggere i figli, a un certo punto. Ma esserci sempre se i figli tornano da loro. E vedere, vivere questa donna anche nel suo ruolo di moglie e, soprattutto, di figlia, mi ha fatto riflettere. Romanzo moderno, molto ben scritto, profondo, sincero, schietto, anche un po' crudo, ma molto vero.
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Le età fragili
«Mi ha offerto una liquirizia e l’ho presa, ma poi non riuscivo a metterla in bocca. Siamo rimasti lì, io con il tocchetto nero nella mano, e tra noi la piccola luce puntata verso il cielo. Eravamo giovani, ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all’altro che potevamo cadere, perderci, e persino morire.»
Siamo in Abruzzo, in un piccolo paese a pochi passi dal Gran Sasso. La voce narrante di questo romanzo è una donna di mezza età, Lucia, fisioterapista e madre di una ragazza di circa vent’anni, Amanda. Dalla voce essenziale ma anche dolce, fragile ma anche forte nel mostrare questa fragilità della narratrice, emerge il racconto di un momento difficile. La figlia, che era partita un anno e mezzo prima per frequentare l’Università a Milano, è tornata precipitosamente a casa. Certo, c’è il covid. Ma Amanda non è tornata per studiare a distanza. È stanca, non si alza dal letto, ha difficoltà a mangiare, non esce più di casa. Che cosa le è successo? E, soprattutto, come può aiutarla Lucia?
Intanto l’anziano padre della protagonista ha intenzione di donarle i suoi terreni e le proprietà in eredità. Sente che la fine sta arrivando, Fra i beni del padre c’è anche il terreno sul quale sorge un vecchio campeggio abbandonato da decenni. Lucia e suo padre si ritrovano di nuovo in quel luogo, dove molti anni prima è accaduto un fatto tremendo. Mentre Lucia è costretta a assistere, relativamente inerme, alla perdita della vitalità e della felicità della figlia, inizia anche a ricordare e ripercorrere la drammatica esperienza che aveva vissuto, anche se non direttamente, durante i suoi vent’anni al Dente del Lupo, sulle montagne abruzzesi.
Veramente un bel romanzo “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio, vincitore del premio Strega 2024.
Qual è l’età fragile? È quella che ci sorprende mentre siamo giovani, pieni di energia e di mille progetti per il futuro, quella in cui ci illudiamo di essere forti e invincibili e che poi ci tradisce brutalmente mostrandoci chiaramente che basta un niente per atterrarci? Oppure l’età fragile è quella in cui siamo ormai adulti con un lungo tempo alle nostre spalle, abbiamo imparato un pochino a conoscere il mondo ma non sappiamo come fare per aiutare e sostenere le persone che amiamo di più. Non sappiamo come portarle al sicuro mentre vediamo che si stanno spingendo pericolosamente verso un baratro? Probabilmente sono entrambe età fragili. Probabilmente la stessa vita è una lungo, rischiosa e tortuosa, età fragile.
Siamo di fronte a una scrittura in grado di indagare questi e altri temi, come quello che riguarda il legame tra il luogo in cui siamo nati e la nostra identità, attraverso uno stile scarno, diretto e essenziale ma particolarmente efficace per suscitare introspezione e empatia.
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Fragilità umana
Interessante di questo romanzo è la descrizione del rapporto madre-figlia che sono come sole-luna, giorno -notte e dei rapporti di vicinato. Però il fatto di cronaca è così ingombrante da sovrastare del tutto i fili più esili della trama. E anche se si parla di un delitto efferato non c'è mistero nè nella soluzione del caso giudiziario nè del caso umano, cioè nel capire cosa è passato per la testa del colpevole.
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Fragilità esposta
L’ amore di una madre ( Lucia ) sfociato nella nostalgia, il ritorno della figlia ( Amanda ) nella terra d’ origine, il ricordo di genitori che non hanno amato abbastanza, uno spuntone di roccia, spartiacque tra passato e futuro nel luogo che da’ il nome al bosco e al terreno della propria famiglia, l’ assassinio di due ragazze che da venti anni ha indirizzato una vita.
Ciascuno è e conserva le cicatrici del proprio passato, un prima e un dopo, traumi irrisolti, un’ incomunicabilità di fondo che è sofferenza e paura di esporsi, soffrire, riaprire vecchie ferite, sensi di colpa ancora presenti, per tutto quello che si poteva fare, per quello che non si è stati, aggrappandosi a una forza inespressa per ricomporre i cocci di una fragilità esposta.
Amanda, abbandonati gli studi, è tornata in Abruzzo, spenta, demotivata, depressa, rinchiusa in un silenzio enigmatico, abbracciata a un sonno protratto, nessuna voglia di fare, l’enigma di un passato recente in una Milano che avrebbe dovuto assecondarne il futuro.
Lucia a sua volta è stata una figlia inascoltata e ribelle in una società patriarcale indecifrabile e inscalfibile, rivolta al futuro e al cambiamento prima che quell’ atroce delitto l’ abbia cambiata per sempre, oggi è una donna stanca, logora, tradita, con un matrimonio esaurito e un marito altrove.
Da madre riconosce la sofferenza di Amanda, si interroga sulla propria assenza, debolezza, noncuranza, sull’ impossibilità di dialogo, incolpandosi di averla lasciata sola, figlia di un passato di sopravvissuta, terribile, gravoso, logorante.
Due fragilità esposte, una figlia che non racconta il proprio vissuto altrove e una madre che rievoca i tragici eventi passati, ignare l’ una dell’ altra, tenute a distanza da confidenze inespresse, un dolore attutito negli anni e ancora da metabolizzare, certe violenze non se ne vanno con la condanna, ti riempiono dentro svuotandoti, incatenati al ricordo di giorni spensierati che non torneranno.
Ciascuno esprime il dolore a modo proprio, conoscere la verità sarebbe un passo importante, comunicare e’ complicato, talvolta impossibile, troppe assenze, vuoti, paura. Rimane un amore materno inarrivabile e non corrisposto, la paura di una solitudine affettiva inaccettabile, la più terribile delle condanne, nel silenzio coperto di indifferenza e nel ricordo di una insensibilità genitoriale ancorata nell’ unico luogo possibile, la propria terra, un’ altra madre schiava della necessità.
Un luogo la cui bellezza non ci riguarda, figli di una natura che nutre e che affama, che si deve combattere, archetipo della memoria, che allontana e avvicina i protagonisti diretti e indiretti di una storia atroce da raccontare.
C’è un coro che rievoca e accoglie il passato funesto, un canto che introduce un rituale mentre una voce si alza, due fanciulle escono leggere dalla parte più scura del bosco, incontrano una cara amica e ascoltano sorridenti.
…” il coro di stasera è una sorpresa, rompe il silenzio degli anni. Cade nel cielo sopra il Dente del Lupo l’ ultima stella dell’ estate”…
“ L’età fragile “ è un condensato non sempre armonico di un mondo che accoglie e separa i propri protagonisti, al centro una voce che da’ voce a un atroce fatto di cronaca, e una narrazione che, in un coro di presenze, rievoca assenze protratte e definitive proiettando la propria dissolvenza nella vita di una figlia ritornata all’ ovile.
Uno schermo di silenzio che sembra impossibile da scalfire e da decifrare, la cui porzione di storia è solo presunta nella fragilità che la riguarda, perché Amanda sembra essere una semplice appendice materna e la proiezione di se’, auspicando una fine diversa.
Quanto il passato ha determinato il presente, la propria fragilità richiede ascolto, quanto le ferite costituiscono la nostra essenza più vera, come comunicare con il dolore silente dell’ altro?
In una scrittura sincopata, essenziale, tagliente, dura, attraversiamo la durezza scolpita e selvaggia di un luogo immutabile nel respiro di una donna e di una madre, le cui risposte riguardano solo una parte e si scontrano con le decisioni dell’ altra.
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Non convince
Non completamente convincente questo nuovo lavoro di Donatella di Pietrantonio. Protagonisti una madre, Lucia, una figlia, Amanda, e un terribile fatto di cronaca realmente avvenuto, l’omicidio di due ragazze.
Da questo fatto la storia prende spunto e lo immagina successo nell’età della giovinezza di Lucia. Tania e Virginia, le due vittime, erano ospiti di un campeggio costruito non lontano dal Dente del lupo, la montagna al centro di quella zona d’Abruzzo immaginata di proprietà del padre di Lucia. Solo la terza ragazza, Doralice, amica di Lucia, era riuscita a scampare all’assassino.
La storia si svolge all’epoca del primo lockdown, quando Amanda, che era andata a studiare a Milano, torna a casa con uno degli ultimi treni disponibili, senza libri, e si chiude in un potente mutismo nei confronti della madre che non riesce a trovare la strada per riprendere a comunicare con lei che ha, evidentemente, interrotto gli studi.
Quando andrà a Milano a sgomberare la casa affittata dalla figlia Lucia capirà che qualcosa lassù è successo, e che forse la figlia avrebbe avuto bisogno di lei che invece, per rispettare il suo bisogno di indipendenza, forse le è stata poco vicina. Dove passa il confine tra necessità di far camminare i figli con le proprie gambe, di dar loro autonomia e capacità di affrontare anche la parte brutta e difficile della vita e vicinanza con loro? Lucia se lo domanderà, chiedendosi se alla figlia non sia mancata la presenza materna quando forse le sarebbe stata più necessaria.
Il libro alterna la storia del rientro a casa di Amanda a lunghi racconti del passato: dal delitto delle due ragazze ai processi, soffermandosi anche sull’amica di Lucia, Doralice, figlia dei gestori del campeggio che dopo il delitto non è più stata quella di prima, rosa dai sensi di colpa e dalla difficoltà di ricostruirsi. Andrà per questo a lavorare lontano.
Il racconto della di Pietrantonio è in realtà un racconto di silenzi e di incomunicabilità tra tutti i protagonisti: tra Lucia e suo padre, tra Lucia e Amanda, tra Lucia e l’amica Doralice, e anche con il marito da cui è separata. Nessuno qui riesce a parlarsi davvero, a confrontarsi con sincerità, a dire quelle parole che aiuterebbero a vivere meglio, ad essere più vicini, a capirsi. In questo racconto delle diverse incomunicabilità il romanzo mi è piaciuto molto: l’autrice lo sa rendere davvero bene.
La storia nel suo complesso invece mi ha convinta poco. Le due vicende, passato e presente, si incastrano poco tra di loro e gli spazi destinati alle due storie sono forse poco equilibrati. Amanda ci rimane in fondo estranea, difficile empatizzare con lei, forse è difficile per il lettore capirla davvero. Ben presente invece lo smarrimento di Lucia nel suo rapporto con la figlia.
La tematica della necessità di un rapporto compiuto genitori e figli all’interno di un percorso di autonomia non è approfondita come dovrebbe. Gli altri personaggi sono sullo sfondo.
La scrittura è funzionale al racconto, non suscita reazioni, non scalda.
Un romanzo, per me, riuscito a metà.
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Lucia, Amanda e Doralice
«[…] Ho addomesticato la paura che avevo all’inizio per lei. Un posto che aveva tanto desiderato non poteva farle del male.»
Nota al grande pubblico per il suo “L’Arminuta”, Donatella Di Pietrantonio torna in libreria con “L’età fragile”, uno scritto che tra i tanti intenti si propone anche di sensibilizzare il lettore su un tema oggi molto attuale; il femminicidio. Per farlo ella torna indietro nel tempo, ci riporta al 1997 e più precisamente nella sua terra dove si perpetrò il delitto del Morrone. Due ragazze, mentre erano in escursione sulla Maiella, furono trucidate.
Ma procediamo con ordine. Conosciamo in primis Lucia e Amanda, una madre e una figlia che vivono in un paesino vicino Pescara e che nella finzione narrativa si fa protagonista del locus commissi delicti di un tempo trascorso. Sappiamo che Amanda si è trasferita nel milanese, che sta inseguendo il sogno della grande metropoli, che sta studiando per il suo futuro. Sappiamo ancora che tra Lucia e suo marito le cose non vanno più e che la separazione ufficiale è ormai l’ultimo tassello. La madre vorrebbe proteggere la figlia, tenerla al riparo, ma non può. C’è un momento nella vita in cui i figli devono essere lasciati andare, devono crescere, cadere e sbagliare ma anche imparare a rialzarsi. Siamo a ridosso dello scoppio del periodo pandemico e dei vari lockdown quando Amanda riesce per un soffio a prendere il treno che la riporta a casa. Con sé porta tutto, come se fosse un ritorno definitivo, tranne i libri. Lucia cerca di leggere oltre, di capire cosa si cela dietro il suo mutismo, dietro quel chiudersi in se stessa. Intuisce che qualcosa è accaduto ma non riesce a percepirne la vera portata, la vera devastante conseguenza. Amanda è taciturna, si trova un lavoretto in zona, trascorre il tempo chiusa in camera senza rispondere al telefono.
«[…] Nel rispetto della sua libertà, le sono mancata quando aveva bisogno di me.»
A questa prima narrazione del presente, si aggiunge quella del passato. Sotto a quello che è conosciuto come il Dente del Lupo, un terreno che appartiene loro e che un tempo ospitava un campeggio, tanti anni fa è successo un qualcosa di terribile. Oggi è oggetto di speculazione edilizia, ma quel che è stato non può essere dimenticato. Torniamo così agli anni della giovinezza di Lucia, conosciamo Doralice e le altre due ragazze, Tania e Virginia. Ricostruiamo tra presente e passato quello che è stato, dalla scomparsa, al delitto, alle udienze con la sopravvissuta.
«[…] La ferita era superficiale, si sarebbe presto rimarginata. Non vedevo il danno più duraturo, la fiducia nel mondo che le avevano strappato insieme alla borsa.»
E forse è vero, la nostra unica verità sono proprio le ferite. Ferite che sanguinano oggi, che sanguinano domani perché forse non è possibile una vera guarigione. “L’età fragile” è uno scritto che trasporta in una dimensione narrativa nuova della Di Pietrantonio, è anche uno scritto coraggioso per i temi che affronta e quel che si prefigge. Si noti bene che il libro non si prefigge di trattare nel dettaglio le fasi del delitto del Circeo, ne prende spunto, ricostruisce una storia che vi si ispira per molteplici aspetti, ma non si tratta di una cronaca dettagliata dei fatti.
Manca qualcosa, qualcosa sfugge nella dimensione complessiva a livello di emozione, forse perché nella totalità tende in parte a perdere il centro, ma nell’insieme “L’età fragile” è un romanzo che può offrire molto a livello di riflessione.