Il sale sulla ferita
Letteratura italiana
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Una storia di radici e un autore indimenticabile
All’inizio pensavo si trattasse di una storia d’emigrazione, una di quelle che, da figlia curiosa di un ex "Gastarbeiter", mi sento in dovere di leggere. Ben presto però mi è apparso chiaro che i discorsi della notte berlinese non conducevano ad altro luogo se non in Sardegna e al piccolo paese dove attendeva una tomba, chiusa e vuota, al pari di una vecchia ferita, aperta e piena di domande che devono essere fatte, “anche quando non sperano risposta”.
"Il sale sulla ferita" di Giulio Angioni (1939-2017) una storia di radici e di un mondo contadino fatto di padroni e servi, di occupazione di terre, di contrapposizioni da secondo dopoguerra e di rapporti umani che sapevano andare oltre queste ultime.
Una narrazione emozionante, coinvolgente, ammaliante che procede attraverso un passo avanti e due indietro, un dire e non dire, chiacchiere e ricordi che non sempre s’incastrano perfettamente come i pezzi di un puzzle.
Un mondo per buona parte svanito, perso nella colonna di fumo avvistata all'improvviso una sera d’estate dalla collina delle ombre o dietro il volo libero dei falchi che tanto amava il giovane Benito Palmas, martire consacrato tale dalle distorsioni della memoria collettiva e personaggio che non è più possibile dimenticare.
E che cosa rimane dunque alla fine? Un morto male, come afferma qualcuno, e un grande romanzo che induce a riflettere.
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La ferita
Ho amato intensamente questo libro, oltre le cinque stelle. Per me questo è il più denso, serio, dolente e intelligente libro sulla fine del mondo contadino in Europa. Che questa fine sia vista in Sardegna, dove troppi vanno ancora a ricercarla, lo rende ancora più interessante. Ne porto dentro la commozione, insieme con la vertigine da mutamento epocale. Forse chi non coglie questo e altro quanto me, è perché è troppo cittadino. Ma qui c'è anche la città, tutta la città, che senza la campagna non c'è mai stata. L'ambiguità dei ricordi intorno al personaggio principale (il giovane che muore) è giocata con amorevole acume, mai visto prima, almeno non io. E certi momenti di poesia, come il bue che muore, sono struggenti, evocativi di millenni di civiltà contadina mediterranea, indimentucabili. E ha ragione Goffredo Fofi. Questo è sale, dale vero, che fa male sulla ferita, per chi ce l'ha. E io, modestamente, ce l'ho.
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Risvolti
Un bel risvolto di copertina di Goffredo Fofi per questo romanzo che racconta con ironia e commozione certi risvolti della storia recente che ha visto la fine in Italia, e altrove, del cosiddetto mondo contadino o civiltà contadina, quella "cantata" da Verga e da Levi, che però andava raccontata anche così, dal di dentro, e da un dentro vero e vissuto.