Il partigiano Johnny
Letteratura italiana
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Sapore di eroe
Collana ET scrittori. Introduzione di Gabriele Pedullà (agosto 2021), a corredo, un saggio di Dante Isella, “La lingua del ”
Un romanzo imprescindibile, un’esperienza di lettura impegnativa ma unica. Nonostante l’edizione da me letta sia accompagnata da un’ interessantissima introduzione di Pedullà, la versione proposta è quella di Isella (1992) che, nel lungo percorso filologico che ha accompagnato la stampa di queste carte, ora chiamiamo “Il partigiano Johnny” . In particolare è un montaggio delle due redazioni del romanzo ritrovate presso le carte dello scrittore; i primi venti capitoli sono quelli presenti nella prima redazione, i restanti nella seconda; per chi non lo sapesse la prima redazione è quella più ancorata all’originaria lingua inglese in cui tutto il romanzo fu scritto, la seconda invece è quella maggiormente sottoposta a processo di revisione e riscrittura, una riscrittura che spesso, ci dicono i critici, interessò non solo l’aspetto strettamente linguistico ma anche quello più strutturale, con rivisitazione di interi episodi. Abbandonando le questioni meramente filologiche, dalle quali in realtà non si può prescindere, si può parlare di questo romanzo in termini di esperienza di lettura e tentare di condividere le sensazioni provate e le emozioni suscitate. Pur essendo un testo non licenziato dal suo autore mi sento di annoverarlo tra i capolavori della letteratura italiana e non solo di quella strettamente resistenziale, e non per pura simpatia ideologica ( posizione davvero difficile da sostenere senza avere contezza del complesso fenomeno resistenziale che dovrebbe essere maggiormente studiato da tutti prima di farne una bandiera da sventolare o una questione divisiva ancora oggi, pur ribadendo una mia ferma posizione antifascista) quanto piuttosto per il suo valore strettamente letterario. Ho letto la storia di Johnny gustandomi ogni singola pagina, ogni parola, ogni gioco linguistico, nonostante le difficoltà dovute alla mia scarsissima conoscenza dell’inglese e armandomi di tutta la pazienza necessaria per colmare il gap linguistico che interrompe, soprattutto nella prima parte, il filo narrativo a più riprese. Questo è stato possibile perché si è creato un forte meccanismo di compensazione dettato dall’arditezza linguistica in lingua italiana, molto spesso ho dovuto ricorrere al dizionario per introiettare lemmi mai incontrati prima, scoprendo sovente, oltre alla mia ignoranza lessicale, le acutezze linguistiche fatte di neologismi, latinismi, vere e proprie fusioni linguistiche. Altro motivo di compensazione è stato il perdersi in una prosa arricchita da insolite giustapposizioni di nomi e aggettivi in una sintassi mai pesante, a titolo esemplificativo potrei citare l’incontro del protagonista con il professor Chiodi: “Chiodi si era alzato, nella sua orsina massiccità di montanino corretto da anni di esistenza pianurale. Gli diede un abbraccio filosofico…”. Quanta immaginazione e quante informazioni passano nel tripudio giocoso di questi accostamenti, mi si sono impressi nell’immaginario, nella loro incisività, più di qualsiasi ricco inserto descrittivo. Una prosa studiata, voluta, capace di amplificare le scarne informazioni in un universo immaginifico tale da farmi apprezzare quasi tutte le pagine del romanzo, non ce n’è più una al netto dei miei ripetuti segni di matita e di note a margine. A ciò si è aggiunta una narrazione avvincente quasi completamente incentrata su Johnny che, rientrato fortunosamente da Roma, dopo lo sbandamento dell’esercito regio, abbandona la comoda tana del coniglio in collina, dove i suoi lo hanno confinato per proteggerlo, per abbracciare la scelta partigiana e inizia la sua peregrinazione tra le colline delle Langhe e del Monferrato. L’incontro con i suoi ex professori del liceo, Chiodi e Cocito, già segna il passo della narrazione: diventare un partigiano non sarà una questione semplice, a detta di Cocito non è solo una questione legata alla difesa della libertà ma necessita di un’ideologia precisa, comunista per la precisione, altrimenti si rischia di essere dei Robin Hood. Nonostante queste premesse, la forza di Johnny sarà la sua continua incapacità di adattarsi a situazioni eticamente non condivisibili, il suo tormento interiore, parte verso le colline “la terra ancestrale che lo avrebbe aiutato, nel vortice del vento nero, sentendo quanto è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana”.Trova le prime formazioni partigiane ma subito capisce che si trova dalla parte sbagliata: “Really, I’m in the wrong sector of the right side”, le formazioni comuniste sono improvvisate, zeppe di ignoranti e di giovanissimi, marmocchi inesperti dal punto di vista militare, votati miseramente all’errore e in bilico sulla corda della vita. Johnny si muove, cerca, non si accontenta, progredisce nel suo percorso umano, interiorizza gradualmente la dura legge della vita partigiana, cambia formazione, si adatta alla collettività per giungere poi a combattere solitario, nell’inverno più solitario della sua vita. La narrazione si snoda in modo avvincente con un ritmo episodico e un andamento cronologico scandito soprattutto nella seconda parte da capitoli titolati che rimandano alla Città, la presa di Alba e la subitanea perdita, al preinverno e al terribile lunghissimo inverno. si è con Johnny sempre e lo si lascia a malincuore.
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Incompiuto
Difficile dire bello, di certo è un libro interessante. Impossibile trascendere dal fatto che l'autore non fece in tempo, o non volle, pubblicarlo finito. Il risultato proposto da Einaudi è il frutto di un lavoro di congiunzione di un paio di racconti e di due versioni del romanzo stesso. Fatta questa premessa il libro è un viaggio nella resistenza; un viaggio romantico e fantastico fatto accompagnati da un uomo che era indubbiamente fuori dagli schemi, che ci racconta e si racconta (il protagonista era forse la visione romantica di sé stesso) attraverso un linguaggio parallelo, in parte inventato, in parte reale, con una grossa componente inglese, e un'altra in "italietto" (italiano+dialetto), che ha dato origine al cosiddetto "fenglese". Ne risente la piacevolezza della lettura, che risulta difficile, concentrata, iterativa. Ma, al contrario, il contenuto è colossale, impareggiabile, visionario.
Mi pare che ci sia tutto... buona lettura
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Un romanzo eccellente, ma...
Ritengo indispensabile una doverosa premessa: questo romanzo è stato pubblicato postumo (Fenoglio era deceduto senza completare l’opera) in una versione che mescolava, in modo del tutto arbitrario, due diverse stesure, con tutte le inevitabili lacune e contraddizioni.
Peraltro l’edizione di Einaudi ha fatto propria delle due la seconda, quella che viene più universalmente accettata come la più coerente con lo spirito dell’autore.
In ogni caso la mancanza di un imprimatur ufficiale da parte dello scrittore finisce con il lasciare un po’ l’amaro in bocca, perché si avverte anche in questa versione l’incompiutezza che si riflette poi in una conclusione che si intuisce, ma non si legge.
Ciò premesso mi sembra di aver ritratto dalla lettura più di un’impressione non legata solo all’aspetto storico della resistenza, ma anche a una sua proiezione negli anni a venire.
Johnny è un partigiano che partecipa alla guerra di liberazione con una visione del tutto individuale delle problematiche e con uno spirito quasi da novello Robin Hood che gli dona immediatamente una naturale simpatia.
Peraltro, se l’aspetto storico è di grande rilievo, non bisogna dimenticare che Fenoglio è riuscito a imprimere alla narrazione una notevole forza immaginifica, in certi momenti addirittura da pellicola cinematografica; inoltre il tema è stato svolto in modo tale da conferire all’opera significati di carattere universale, con la guerra di liberazione che finisce con l’essere il pretesto per ricercare il fine stesso dell’esistenza.
Da molti è stato definito il più riuscito romanzo sulla resistenza, ma in tutta sincerità mi sembra inferiore a La messa dell’uomo disarmato, di Luisito Bianchi, che pure affronta significati universali, ma in modo più chiaro e convincente.
Con ciò non intendo dire che Il partigiano Johhny sia un’opera non riuscita, ma che è solo di eccellente livello, senza raggiungere i vertici propri di un capolavoro.
Se poi aggiungiamo il linguaggio usato (al riguardo il volume di Einaudi riporta un interessante saggio di Dante Isella) accetto termini nuovi coniati dall’autore, pur con riserve per qualcuno, ma non sopporto che ci siano periodi parte in italiano e parte in inglese, quando il ricorso a questa lingua non trova nessuna giustificazione. E’ un sistema che indispettisce e che tende ad astrarre dalla lettura di un’opera che, pur con tutti i limiti sopra accennati, è meritevole della massima attenzione.