Il nostro grande niente
Letteratura italiana
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Sospensione relazionale
…” Sarebbe bello se una volta morti si potesse uscire da se’ stessi per sedersi nel cinema deserto in cui è stata proiettata la propria vita. Sarebbe bello potere piegare il tempo in due, come se fosse un pezzo di carta, farci un buco e congiungere il presente con il passato”..
Lo scorrere di una vita può assumere colorazioni difformi, insidie, imprevisti, legami costruiti faticosamente, la felicità condivisa di un amore, la fine di un amore, un lutto improvviso, l’ inizio di altro, il dolore della perdita, rifiuto, rabbia, un processo di auto annientamento in una solitudine protratta, la nostalgia del ricordo, un’ abulia del presente in giorni ricoperti di niente.
Fotogrammi del passato in una quotidianità fatta di gesti e di parole condivise, la progressiva elaborazione della perdita, una progettualità ridefinente in un tempo scandito dalle sfumature della dimenticanza e ora indirizzato al nuovo, matrimonio, famiglia, figli, il ritorno alla vita, all’ amore, del passato solo pochi dettagli sfumati.
…” Non è più la mancanza tagliente dell’ inizio e non è neanche il dolore della perdita. È qualcosa di più diffuso, è una vaga malinconia”..
Che cosa ci appartiene e ci è appartenuto, ci ha uniti, resta di noi, giorni riempiti di un’ armoniosa presenza, cosa sarebbe se tutto improvvisamente finisse e ci trovassimo, post mortem, a osservare e a indagare la vita senza la nostra presenza, spettatori del proprio ricordo?
È questo il destino infelice che investe i due giovani protagonisti, una coppia alla vigilia delle nozze, lui vittima di un incidente stradale mortale, lei improvvisamente sola, incredula, anestetizzata nel dolore, impossibile porvi rimedio. È un lutto vivido, viscerale, lacerante, un punto esclamativo che richiama il passato condiviso caratterizzando il presente, un’ assenza ingiustificata, nessuna idea di futuro.
Non resta che constatare la propria mancanza dialogando con il ricordo, con se stessi e con l’altro in una vita che ormai non ci appartiene se non nei sentimenti più veri, convivere con un ego ferito, che nega la propria insostituibilità riversando una gelosia ingiustificata.
E se, un giorno, si potesse ritornare azzerando il passato, ripartendo da dove si aveva lasciato, tutto sarebbe come era o in qualche modo diverso e che cosa rimarrebbe di noi, del nostro essere, del passato, nel presente, quale futuro?
Che il proprio destino infausto abbia determinato la svolta, sostando nel proprio io più profondo, ridiscutendo se stessi e il proprio sistema relazionale, oppure l’ osservazione, l’ ascolto, l’ elaborazione indotta rivelano una constatazione evidente, che nessuno è così insostituibile da indirizzare una giovane vita per sempre?
Un ego ferito, affranto, destabilizzato, un’ interiorità frammentata, l’ idea che nulla sarà più come prima, una neo dimensione cosciente sospesa tra vita e morte in una elaborazione filosofico- esistenziale per nulla soddisfacente, il sentimento sostituibile di un amore che forse non aveva niente di speciale.
Chi siamo realmente, che ne sarà di noi, come ci relazioniamo con l’ altro che rischiamo di perdere, abbiamo già perso, assentandoci in una solitudine sentimentale sospesa tra sogno, illusione, certezza, mentre non resta che un silenzio parlante nella certezza di una fine.
Un romanzo lieve nel proprio mostrarsi, greve nei temi proposti, lineare nella trama definente. Se la prima parte elabora il lutto e il ritorno alla vita con una certa timbrica vivacità espositiva, nella seconda si prospetta una forma inversa, giorni inquieti e funesti macchiati da un senso insensato e da un’ idea della morte impregnata di un egoismo fagocitante sfociato in un eccesso teorico e in un caos poco definente ma definitivo.
Indicazioni utili
Il nostro grande tutto?
«[…] Sarebbe bello poter piegare il tempo in due, come se fosse un foglio di carta, farci un buco e congiungere il presente con il passato. Io potrei essere ancora vivo, nel passato e attraverso quel buco potrei allungare la mano e stringere la tua, nel presente.»
Lui e lei. Un uomo e una donna, due amici. Poi un giorno come un altro quell’essere semplicemente amici diventa altro. Si sviluppa un’attrazione che porta al maturare di un sentimento che diventa sempre più specifico e che si trasforma in un amore specifico per una persona specifica. E poi, come in un brutto sogno, il niente. Stanno per sposarsi quando lui, a causa di un incidente, muore. Cosa resta di lei? Cosa resta di lui? Cosa resta di loro? È possibile andare avanti? Come vivere e come affrontare il dolore della perdita tanto per chi resta tanto per chi se ne va? E se tutto ciò che stato venisse dimenticato? Sarebbe più facile accettare il pensiero della morte se vi fosse la consapevolezza che una volta morti il tempo per gli altri si fermerebbe?
«[…] Non perché ci abbia trovato un senso, ma perché quando ci stringiamo forte prima di dormire, nella nostra tipica posizione, è come se le stringhe che compongono il tuo corpo si aprissero per unirsi a quelle del mio. E le mie a quelle del tuo. Non siamo più solo due post-scimmie unite in una relazione sentimentale-copulativa, ma qualcosa di più: tu vivi un po’ attraverso di me e io vivo un po’ attraverso di te.»
Ed è proprio sulla continuità dopo la morte che si sviluppa e basa “Il nostro grande niente”. Il nostro eroe è morto in queste pagine a firma di Emanuele Aldovrandi, ma continua a sentire e vedere. Osserva la fidanzata, osserva il suo dolore, osserva la sua rinascita. Sente le sue lacrime, sente le sue parole, sente i suoi bisogni. Perché un evento traumatico può cambiarti lasciandoti delle cicatrici indelebili e anche quella che può essere una storia sulla perdita di un amore e sulle sue conseguenze, può rivelarsi ben altro.
Se nella prima parte dell’opera il lettore tende ad empatizzare con l’amore perduto, la malinconia, la realtà che avanza, nella seconda sono le domande a cui dare risposta le vere sceneggiatrici e le vere attrici della pièce teatrale. Esistono verità assolute? Che valore ha davvero il “per sempre”? Che valore ha l’attimo, il godere dell’istante, il sentirsi vivi in quel momento ora e adesso? E non è forse l’amore l’unica vera chiave con cui poter dire di aver concretamente vissuto?
«[…] Noi esseri umani abbiamo sempre combattuto contro quello che la natura aveva previsto per noi. Pensaci. Verrete mangiati dagli animali più grandi di voi – e noi abbiamo inventato le armi. Verrete schiacciati dagli agenti atmosferici – e noi abbiamo costruito le case. Verrete uccisi dalle malattie – e noi abbiamo inventato la medicina. Le nostre tappe evolutive si sono fondate su questo, sul rifiuto del nostro destino naturale, cioè la morte. E anche adesso gli uomini più ricchi della Terra non si accontentano di vivere fino a novant’anni, ma investono miliardi per studiare.»
Dal ritmo rapido e le sequenze velocissime il titolo ci prende per mano e ci conduce in una riflessione sulla nostra vita, su quelle che sono state le occasioni e le possibilità perse, su quelle che sono state da sempre le nostre certezze. O almeno così credevamo. Ci invita, ancora, a riflettere sulla morte. Perché quello che più dovrebbe farci male non è tanto lasciare la vita quanto abbandonare tutto ciò che per noi le ha dato un senso. E non è forse proprio la morte, alla fine, a dare un senso alla vita?
Al tutto si aggiunge uno stile fresco, dinamico, ironico e intelligente che sulla falsa riga della leggerezza narrativa porta il lettore a interrogarsi sulla profondità del vivere, dell’esistere e del sopravvivere. Questo per mezzo non dei nostri occhi ma per mezzo di una prospettiva esterna e più oggettiva.