Il nome della rosa
Letteratura italiana
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LA BIBLIOTECA DEL MISTERO
E’ Medioevo e nell’abbazia di Melk, in Austria, succedono fatti indicibili: in una settimana, quattro omicidi di quattro monaci fanno sprofondare l’ordine Francescano in un clima di disagio, di paura e di grave danno.
Il monaco Guglielmo, arrivato in abbazia insieme al suo novizio Adso, è incaricato di indagare sulla questione e con la sua arguzia, astuzia, perspicacia, furbizia e dottrina, ricostruendo fatti, indizi, indagando su cause, interrogando sospetti come un perfetto detective, riesce ad arrivare al colpevole di questi omicidi, a capire le intenzioni e le motivazioni che sembra girino tutte intorno a delle informazioni contenute nella biblioteca dell’abazia, opportunamente protetta dal bibliotecario e dall’abate stesso.
Romanzo storico cult della letteratura italiana del 900 molto potente ed interessante in cui immergersi nelle nozioni storiche più pure, nei ragionamenti filosofici sulla vita e sulla morte, sulla miseria e la povertà, in cui il lettore può appassionarsi alla narrazione e nel contempo immagazzinare nozioni di teologia, storia, storia delle religioni, nozioni sulle principali eresie sorte in quel tempo che causarono atti di contrasto alla vita monastica che fecero sprofondare molti religiosi, sui rapporti tra papato e impero in quel periodo.
Gli argomenti che riguardano il romanzo possiamo altresì dire che si concentrano sulla mancanza di rispetto dei principi e dogmi della cristianità e dell’ordine stesso che avrebbe causato azioni impure, tra cui anche la lussuria fisica e di sapere, perpetrate da parte di chi avrebbe dovuto assumere un atteggiamento austero e non peccaminoso come scelta personale.
Le citazioni in latino che si possono notare nella lettura di questa opera dimostrano l’immensa cultura e acume dell’autore che inserisce all’interno del romanzo elementi di svariata natura oltre quelli citati prima, tra cui anche nozioni di erboristeria (nella misura di proprietà benefiche e malefiche delle piante), di architettura (nella descrizione dei luoghi e dell’abbazia) e di biblioteconomia.
Sicuramente d’ispirazione per tanti autori di best seller thriller, per l’alta tensione di mistero e avventura, imprescindibile la lettura almeno una volta nella vita.
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Scritto a mano
Uno di quei libri, purtroppo rari, che per impulso naturale fa esclamare: tutti in piedi, giù il cappello! e poi a seguire ci si innalza in una unanime e spontanea standing ovation.
Sono trascorsi 40 anni dalla sua prima pubblicazione, ma tuttora ne abbiamo ennesima conferma.
Non è un libro qualsiasi, nemmeno un capolavoro, ma è il Romanzo, è il Libro, è il Capolavoro.
Direi di più: è la Cultura, è l’Istruzione, è un Patrimonio di conoscenze.
In una sola parola, “Il nome della rosa” è la Civiltà Letteraria.
Non è un’ opera solo da commentare, da recensire, da esporne la trama, individuarne la morale.
Questo è un testo che prima di ogni altra cosa si deve leggere, che si deve avere, al limite lo si può condividere, consigliare spassionatamente, discuterne per apprezzarne altri aspetti non ancora avvertiti, e che il confronto a più voci rivela.
Soprattutto, più di ogni cosa, è da leggere, è il romanzo che conferisce un nome, il più appropriato, all’arte di scrivere, accessibile a pochi, e a quello di leggere, accessibile a molti, ma non a tutti.
Non è per tutti, non piacerà a tutti quelli che lo avranno tra le mani, non è un testo per il lettore, per chi sfoglia libri, per chi i libri li deve scorrere, è dato e destinato al Lettore con la maiuscola.
A chi i libri li ama, ci si sprofonda nelle pagine, li possiede in ogni senso, con loro si inebria, si incanta, si estranea, se ne fa dipendente, vive mille vite e mille volte mille leggendo e rileggendo.
Redatto dalla penna di uno dei più grandi intellettuali nostrani, un uomo colto, distinto, uno studioso sapiente, erudito ed eruditosi attraverso l’attenta osservazione dei tempi, degli usi e dei costumi di popoli e linguaggi, un semiotico insigne, un illustre accademico, specialista eccelso dei fenomeni di significazione e di comunicazione.
Più di tutto, un cultore della conoscenza intima dell’animo umano, così come progredita nel corso dei tempi, apprezzando la metamorfosi e l’evoluzione dell’uomo, mai tanto variegata, in verità, così come traspare attraverso le opere della letteratura negli anni.
Pervenendo alla conclusione ineluttabile che l’uomo è uomo, uguale e fedele a sé stesso, costante nei modi e nelle reazioni, quali che siano i tempi in cui vive, con i suoi slanci formidabili di genio e le sue miserie stucchevoli, noiose e moleste, foriere di invidie e litigi.
Unico elemento salvifico, la Cultura, anche questa una costante, lo sola che non porta all’Ideale, che per essere tale deve essere pure imperfetto, ma a questo si avvicina più di tutti, assai più delle religioni e delle filosofie, della morale e dell’etica.
Solo la Cultura conduce al riso, al sorriso, alla lievità dell’esistenza così come dovrebbe essere, perché è con il Sorriso che si ottiene efficacemente e indissolubilmente tutto quanto succedaneo alla Cultura: l’educazione, l’erudizione, il sapere, la formazione intellettuale, le esperienze spirituali e le espressioni artistiche, in una parola la Gioia.
Non c’è chi non intende quanta sia efficace per il docente trasmettere il sapere divertendo i discenti, la gratificazione insigne di vedere chi apprende divenire convinto alla sapienza con riso e gioia.
Il sapere, che comprende la scienza e la morale, portano al bene, alla giustizia, all’onestà, alla rettitudine, e ne discendono da queste tutto quanto di positivo è insito naturalmente nell’animo umano: la gentilezza, l’amabilità, la solidarietà.
Il sapere concilia scienza e religione, fede e logica, credenza e fanatismo, scioglie i nodi, affina la dialettica, amplia e condivide il numero di nomi, vocaboli, fenomeni noti, costruisce il dialogo costruttivo e non l’insulsa logorrea, supera gli ostacoli e le differenze.
Il paradiso in terra.
Poiché però la maggioranza degli uomini anelano al potere per il potere, e intende esercitarlo senza sapienza ma con sordido egoismo, ecco che sorge l’ignoranza, e questa per definizione stessa esprime il bieco possesso a prescindere, il fare senza chiedere conto e permesso, l’agire senza rispetto e con protervia, la prepotenza nell’affermare e la violenza nel fare rispettare le iniquità imposte a forza, ad esso si accompagnano sempre la malvagità, la perfidia, la meschinità, la bassezza.
L’inferno in terra.
C’è dunque anche tra i presunti savi chi ciecamente, e facilmente per millantato credito, giunge al massimo dell’empietà, appunto il diffondere e perpetuare volutamente l’ assenza della Cultura, e da qui fa discendere di proposito e diffusamente l’ignoranza, il nascondimento, il celare, l’inganno, la mistificazione e via via sempre più in basso nella scala degradante verso le tenebre più fitte con cui è più facile tenere soggetti i privi di cultura, arrivando alla messa all’indice dei testi proibiti o alle veline dei ministeri di cultura popolare.
La Storia insegna, è monito di ripetizione, dai tempi dei tempi.
Il potere è bieco, in definitiva, e non ama il riso, il sorriso, la leggerezza: da Aristotele in poi questi caratteri sono sempre stati osteggiati, il potere vuole certezze e dettami rigidi e inscalfibili, vuole obbedienza e non discussioni, sempre, e nel suo nome è lecita ogni aberrazione.
In estrema sintesi, questo è “Il nome della rosa”, di Umberto Eco, un viaggio nel Medioevo, e non solo, un percorso diretto ma con vari rivoli, un fiume che scorre in un alveo potente, e intanto effonde nei canali e irrora le terre fertili.
Un libro che è un inno al novellare, e le buone storie quando sono buone davvero concimano, lo scrittore si fa acqua, ma la sua abilità non è preservata in una cisterna, la cultura come la bellezza e la gioia vanno condivise perché abbiano un senso, la storia è immessa invece nei canali a disposizione dei lettori, perché la usino, la riciclino, la effondano, perché la leggano, la diffondano, la discutano, soprattutto la critichino, per forgiarla, arricchirla, migliorarla.
Come si dovrebbe fare con l’umana esistenza.
“Il nome della rosa” è un romanzo appagante, ottimista, brillante e radioso come il suo titolo, affatto casuale; è infatti una storia serena, molto ben costruita, documentata, placida nel suo scorrere, avvincente e articolata, con molte spine, così che può apparire ardua da apprezzare, ma è invece prediletta dai Lettori, poiché il racconto contempla, si svolge e comprende tutto quanto concerne l’edificazione del maniero favorito dai cultori delle lettere: una biblioteca.
E che biblioteca: un monastero medievale che vede all’opera schiere di copisti e scrivani, monaci incisori e amanuensi, un deposito immenso di un patrimonio librario tra i più importanti, antichi e preziosi del tempo, che contiene migliaia di volumi, quasi tutti quelli conosciuti e che abbraccia l’editoria mondiale allora conosciuta, dalle colonne d’Ercole al finis Africae.
Questo è un romanzo che sembra letteralmente scritto a mano su pergamena, con tanto di piuma d’oca e inchiostro tratto dal carbon fossile, comprende tutto, ed il contrario di tutto, con svariate chiavi di lettura, tutte quelle che si possono richiedere ad un romanzo, giacché giustamente è il Romanzo.
Non la Bibbia, o un qualsiasi testo sacro, è un signor Romanzo, un racconto dove un qualsiasi Lettore ritrova facilmente tutti i generi che predilige, dal romanzo epistolare a quello giallo, dal thriller al racconto di viaggi e peregrinazioni varie, tutti i temi del narrare, misfatti e misteri, pozioni e veleni, cibo e digiuno, ricchezza e miseria.
Rinviene i temi del grand guignol e della lussuria, la violenza e le torture, il sesso e l’astinenza, rievoca i misfatti dell’Inquisizione, vi compare finanche la tecnologia, vale a dire le prime applicazioni pratiche degli studi scientifici, manco a farlo apposta perché parliamo di libri e di chi sui libri gli occhi li consuma, ecco protagonisti un paio di grossolani, stupefacenti occhiali da lettura, manufatto misterioso per l’epoca, se non un sortilegio o un maleficio, poco ci manca.
È un romanzo storico, ambientato in anni bui, tanto bui che furono contraddistinti dalle costruzioni delle grandi cattedrali, dal sorgere delle prime scuole e delle prime grandi università, tanto oscuri come possono essere i tempi illuminati vividamente dalla Cultura, anni contraddistinti dal sorgere di ordini religiosi antichi e modernissimi ancora oggi, i Francescani, per esempio.
O meglio ancora, i Benedettini, che con la loro regola e con la loro operosità, il loro mantra “ora et labora” conducono il mondo intero a lasciarsi alle spalle quanto prima le devastazioni barbariche.
La barbaria, ancora oggi, si supera con la Cultura, con i libri: e da qui, l’opera degli amanuensi non è casuale, salva l’umanità impegnandosi a custodire e trascrivere a mano quanto resta, quanto salvato dell'antichità classica.
È un romanzo sul potere, detenuto più da ecclesiastici, che da Re e regine e Cavalieri, ma il potere corrode anche gli ecclesiastici, di qui l’ insorgere delle eresie, e non solo.
Ma “Il nome della rosa” è anche un romanzo divertente, perché è volutamente fuorviante.
In apparenza ha una patina di antico, come se l’autore fosse un contemporaneo dell’epoca di cui scrive o poco più, come era Manzoni con gli sposi promessi e contrastati, o padre Dante con la sua Commedia.
Invece, Eco è un autore che scrive alla perfezione di millenni prima, ma è moderno e attuale, lo rivela in pieno, con tutta la sua arguzia e la sua facezia, tramite la ricchezza di rimandi intertestuali, il continuo ricorrere a colte citazioni, dai classici latini alla letteratura medievale, dai romanzi ottocenteschi alla cultura dei mass-media, non è un caso che il nome del protagonista principale, il monaco colto, logico, scientifico, credente e però non immune da libertà di pensiero e di giudizio, l’arguto alter ego dello scrittore, è Guglielmo da Baskerville.
Richiama in maniera sfacciata il titolo del noto romanzo di sir Arthur Conan Doyle, “Il mastino dei Baskerville”, una delle più famose indagini di Sherlock Holmes.
E come Holmes, Guglielmo ha una spalla un po' imbranata, che non è il dottor Watson ma il novizio Adzo, non un medico e però Eco lo nobilita innalzandolo a livello di voce narrante.: dopotutto, il giovane sprovveduto è la giusta e necessaria spalla, colui che permette al docente di esporre il metodo deduttivo, che un po' una sapienza omnicomprensiva, che concilia scienza e religione, il visibile con l’imponderabile.
È un romanzo che è un sunto di generi, quindi, e proprio per questo soddisfa tutti, induce emozioni e riflessione in ogni specie di lettore, ha un nome per tutto e a tutto dà un nome, non so cos’altro dovrebbe fare un romanzo per riuscire gradito a chiunque.
Il suo stesso titolo è esemplificativo, esauriente, esaustivo, dichiarativo dell’amore dell’autore per la pagina scritta.
La pagina scritta altro non è che un foglio che riporta concetti, e i concetti si esprimono con nomi.
Alla fine del libro, sta l’origine della specie, una frase darwiniana, oserei dire:
“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”
Tradotto: "la rosa primigenia esiste solo come nome, noi possediamo nomi nudi".
Come dire…tutto passa. Alla fine della nostra esistenza, restano solo i nomi.
Serve preservarli, magari precipitandosi a salvare i libri in fiamme in una biblioteca.
A mani nude. Libri scritti a mano, con caratteri belli e brutti: rose con le spine.
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La rosa che non appassisce mai
Novembre 1327, Italia settentrionale. Papa Giovanni XXII, insediato a Avignone, è in lotta con l’Imperatore Ludovico che è invece sostenuto dai francescani, desiderosi d’una Chiesa più austera. Frate Guglielmo e Adso, suo allievo, si recano in un monastero benedettino, sede d’un incontro tra francescani e delegati papali.
- 1° giorno. L’abate Abbone comunica a Guglielmo la recente morte del miniatore Adelmo, precipitato da una rupe, e lo prega di indagare sull’accaduto. Guglielmo visita il monastero e l’Edificio, una costruzione con una ricca biblioteca, intricato labirinto svelato solo al bibliotecario e al suo aiuto. L’atmosfera è tesa: dei monaci insinuano sulla condotta dei compagni, altri credono vicino l'Anticristo. Si conoscono alcuni monaci: il medico erborista Severino, l’estremista Ubertino, l’ambiguo Berengario, il severo Malachia e Venanzio, un traduttore dal greco che difende le ironiche miniature del defunto Adelmo contro gli attacchi dell’austero Jorge, convinto che ridere sia opera demoniaca che distoglie il popolo dal timor di Dio. Venanzio insinua vi siano stati strani rapporti tra Adelmo, Bencio e Berengario, che arrossisce.
- 2° giorno. Si scopre il cadavere di Venanzio a bagno nel sangue dei maiali. Bencio e Berengario vengono interrogati: Berengario dice d’aver visto Adelmo, la notte prima, aggirarsi sconvolto nel cimitero, farneticando d’essere condannato all’inferno; Bencio rivela che Berengario era innamorato di Adelmo, cui avrebbe rivelato un segreto in cambio di favori sessuali. Guglielmo fruga nel tavolo di Venanzio, trova degli appunti con frasi in codice e ipotizza che egli avesse appreso i segreti della biblioteca da Adelmo. Di notte, Guglielmo e Adso entrano in biblioteca: trovano versetti apocalittici sui muri, erbe allucinogene e specchi deformanti, e escono a fatica.
- 3° giorno. Guglielmo decifra il brano in cui Venanzio parla del “finis Africae”, una stanza della biblioteca contenente libri pericolosi per la cristianità, celandone la posizione e l’entrata dietro un enigma. Adso disegna un’approssimativa piantina della biblioteca. Ubertino racconta ad Adso la storia dell’eretico Fra’ Dolcino, sostenitore della libertà sessuale, e insinua che Remigio ne sia stato un seguace. Adso torna in biblioteca per perfezionare la piantina e incontra una ragazza con cui conosce i piaceri della carne; al risveglio, sconvolto, si confessa con Guglielmo. Alle piscine dell’ospedale si trova il cadavere di Berengario, annegato.
- 4° giorno. Severino e Guglielmo esaminano i corpi di Berengario e Venanzio, entrambi con lingua e polpastrelli neri, forse dovuti a un veleno. Messo alle strette, Remigio confessa d’intrattenersi con la ragazza in cambio di cibo. Con l’arrivo dei delegati, tra cui l’inquisitore Bernardo Gui, il congresso inizia. In biblioteca, Guglielmo capisce che le iniziali dei versetti sui muri indicano la provenienza geografica dei libri e trova il settore africano, ma non l’ingresso del “finis Africae”.
- 5° giorno. Gui scopre la ragazza col monaco Salvatore, che accusa Remigio di commercio sessuale. Severino trova uno strano libro nel suo ospedale e ne parla a Guglielmo in chiesa. Poco dopo, l’erborista viene trovato morto, con Remigio intento a frugare negli scaffali, da cui il libro misterioso è sparito. Interrogato, Remigio confessa il suo passato dolciniano, di cui stava eliminando le prove da delle lettere lì conservate. Gui condanna Remigio, Salvatore e la ragazza per eresia e omicidio.
- 6° giorno. Finito il congresso, Gui torna ad Avignone. Malachia stramazza al suolo in chiesa, con dita e lingua nere. Guglielmo nota che tale morte ha accomunato chiunque conoscesse il greco e deduce si tratti d’un libro avvelenato scritto in greco; finalmente, decifra l’enigma di Venanzio e, di notte, torna con Adso in biblioteca.
- 7° giorno. I due accedono al “finis Africae”, dove finalmente tutto si rivela al lettore. Nella lotta tra il Bene e il Male giunta ormai al capolinea, sembra che le stesse fiamme dell'Infermo vogliano inghiottire l'Abbazia, immobile teatro di vendette, invidie, gelosie e inconfessabili peccati.
Un libro che è capolavoro assoluto, scritto con stile acuto, tagliente, alternando vari registri narrativi e sovrapponendo diversi piani di approfondimento, permettendo allo stesso lettore di leggere la storia seguendo differenti chiavi di lettura. Alcuni capitoli si dilungano un po', ma nel complesso la lettura è piacevole.
Molte anche le frasi memorabili: “Tale è la forza del vero che, come il bene, è diffusivo di sé”- “Se mai fossi saggio, lo sarei perché so essere severo” – “Se un pastore falla, deve essere isolato dagli altri pastori, ma guai se le pecore cominciassero a diffidare dei pastori” – “Non tutte le verità sono per tutte le orecchie” – “Mancò il coraggio di inquisire sulle debolezze dei malvagi perché scoprii che sono le stesse dei santi” – “Quando i veri nemici sono troppo forti, bisogna pur scegliere dei nemici più deboli” – “Nulla effonde più coraggio al pauroso della paura altrui” – “La logica poteva servire molto, a condizione di entrarci dentro e poi uscirne” – “O ribellarsi o tradire: è data poca scelta a noi semplici” – “Non rispose, ma il suo silenzio era abbastanza eloquente” – “Temi coloro disposti a morire per la verità, perché di solito fanno morire moltissimo con loro, prima di loro, al posto loro.”
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Al di là del nulla … un romanzo.
Il lascito maggiore di questa lettura alla mia persona è saggiamente contenuto nella citazione del mistico Tommaso da Kempis che chiosa la prefazione al romanzo datata 5 gennaio 1980: “In omnibus requiem quaesivi, et nusquam inveni nisi in angulo cum libro”. Paradossale, quasi, nella finitezza, nella piccolezza, che mi distingue come lettrice: rifuggire, se posso, da quelle letture che è dato per certo essere impegnative perché, è sicuro , lasciano con la netta consapevolezza di non aver capito tutto, di non essere all’altezza culturale di poterle cogliere nella loro totalità. Ma, se è vero, che un’opera letteraria, direbbe il dotto magister, è per sua natura un’opera aperta, sia allora di consolazione sapere che anche questa non può sottrarsi all’esposizione del giudizio del lettore, al suo gusto personale e anche ai suoi limiti culturali. Buona pace per Eco, il quale, per divertirsi così con il suo lettore, ha richiamato nella sua nassa pesci grandi e piccoli, per cui la sua opera è stata fatta oggetto di infinito studio, di competizione culturale, impari, con un uomo dalla conoscenza enciclopedica, dalla memoria prodigiosa, dalla consapevolezza teorica che assomma discipline le più diverse, il tutto gestito dalla sapiente regia di uno studioso di semiotica. Non solo, è nota a tutti la trasposizione cinematografica che come sempre, a mio avviso, tradisce l’opera scritta: tutte le categorie narratologiche spazzate via da tecniche cinematografiche che, se da un lato materializzano l’iconografia dei luoghi ( non bastasse la mia immaginazione di lettore così abilmente supportata dai diversi strumenti messi in campo da Eco) dall’altro azzerano la gestione del tempo narrativo scandito da Eco a rendere una necessaria e ardua coincidenza tra tempo della narrazione e tempo della storia. Azzerati inoltre i meccanismi diluiti del giallo, il lento procedere dello svelamento degli indizi, la messa in gioco dell’abilità del lettore. Potrei continuare ancora su questa falsa riga ma in realtà mi preme molto di più chiarire e chiarirmi perché ancora una volta un’opera di difficile lettura, inarrivabile nella sua complessità, mi faccia al contempo sentire così piccola e insieme così “in pace”. Seguirebbe una lunga riflessione sull’atto della lettura, sul suo significato, sull’essere lettori mentre mi limiterò dopo questa inutile introduzione a dare una mia personale sensazione di lettura.
Gradevole fin dall’inizio è stato il richiamo al genere del romanzo storico, la strizzatina d’occhio dell’ironico Eco alla trovata, immancabile, del manoscritto, il gusto per il topos letterario, il divertimento intellettuale a richiamare moduli narrativi noti. Consolatorie, fin da subito, quando già minacciosi comparivano i primi riferimenti culturali per me sconosciuti, subdorati ma non indagati al fine di non perdere continuità nella lettura, l’alternasi delle sequenze puramente narrative e la tecnica di presentazione dei personaggi. Irresistibile già nell’ora terza del primo giorno il richiamo alla semiotica, al valore dei segni, alla loro decifrabilità e alla loro comunicabilità. E lì, volente o nolente, la trappola ha funzionato e ancora prima di imbattermi nelle successive, naturalmente solo in quelle che il mio limite culturale rendeva intellegibili, ho iniziato a rincorrere gli indizi: non i fatti contingenti alla soluzione del giallo ma i segnali di un disegno altro, quasi di un messaggio subliminale consegnato a quest’opera. E invece, bravissimo Eco, mi sono ritrovata ad attraversare le diverse fasi di appagamento che sono necessari al lettore: la progressione della trama, il senso della scoperta, la meraviglia che l’accompagna, l’ammirazione per la mimesi stilistica e per la ricostruzione storica. E poi il climax continuo, la lotta tra il bene e il male, il conforto delle vecchie care antitesi e perché no il dirottamento verso una sorta di immedesimazione e di edificante protagonismo, la catarsi finale, senza né vinti né vincitori ma solo lo sprofondare nell’assoluto trionfo del caso e nell’annullamento di ogni categoria, la pace dell’assenza di qualsiasi segno …”stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”.
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La seduzione della conoscenza
“Trascrivo senza preoccupazioni di attualità. Negli anni in cui scoprivo il testo dell'abate di Vallet circolava la persuasione che si dovesse scrivere solo impegnandosi sul presente, e per cambiare il mondo. A dieci e più anni di distanza è ora consolazione dell'uomo di lettere (restituito alla sua altissima dignità) che si possa scrivere per puro amore di scrittura.”
Così affermava Umberto Eco nella prefazione a “Il nome della rosa”, il 5 gennaio 1980: “scrivere per puro amore di scrittura”, senza preoccuparsi dell'attualità, e consegnarci così un'opera che è diventata un classico della nostra Letterarura.
La voce narrante è quella di Adso da Melk, un monaco ormai anziano che, mentre sente approssimarsi l'ora della fine della sua vita terrena, rievoca, scrivendoli sulla pergamena, dei fatti che si svolsero nel 1327, quando era un giovane novizio e viaggiava per l'Italia insieme al suo maestro Guglielmo da Baskerville. Adso accompagna Guglielmo, un frate francescano di origini inglesi, in una delicata missione diplomatica che si sarebbe svolta in un'abbazia benedettina dell'Italia centro-settentrionale, della quale non viene riferito il nome, celebre soprattutto per la sua ricchissima biblioteca. L'abbazia sarebbe stata infatti il luogo d'incontro tra un gruppo di francescani seguaci dell'imperatore Ludovico il Bavaro e una delegazione proveniente dalla corte avignonese di papa Giovanni XXII. Ma quando Adso e Guglielmo arrivano sul posto scoprono che il monastero è stata funestato di recente da una morte violenta: un monaco giovane ma già famoso come maestro miniatore, Adelmo da Otranto, era stato trovato morto qualche giorno prima, precipitato in fondo ad un burrone. L'abate, avendo constatato le grandi doti logico deduttive di Guglielmo, gli chiede di indagare sull'accaduto. Ben presto il francescano si rende conto che tutto il mistero ruota attorno alla biblioteca del monastero, alla volontà di renderla inaccessibile e alla sete di conoscenza che invece divora i monaci. Le morti violente intanto continuano a susseguirsi durante i sette giorni della permanenza di Adso e Guglielmo all'abbazia. Il giovane novizio vivrà un bel po' di avventure memorabili, parteciperà a dibattiti teologici, filosofici, storici, conoscerà eretici, mistici, uomini di potere ed inquisitori e riuscirà anche ad innamorarsi in modo carnale e terreno.
“Il nome della rosa” è sicuramente una di quelle opere che è in grado di parlare al lettore ogni volta che la si legge o rilegge, al di là del tempo storico in cui è ambientata. Si tratta di un romanzo molto complesso, che presenta vari livelli di lettura: c'è la trama investigativa, il mistero da risolvere secondo deduzioni logiche, ci sono le dissertazioni e divagazioni sulla storia e sulla filosofia medievale, che in certi punti possono risultare un pochino troppo lunghe, ma che rendono questo romanzo unico e non paragonabile ad altri romanzi storici coevi, c'è un continuo gioco di citazioni colte ed erudite predisposto dall'autore. Su tutto però mi sembra che prevalga l'amore e il desiderio verso i libri, verso la cultura: la seduzione della conoscenza. Questo è il tema centrale del romanzo: il desiderio di apprendere, di sapere, di comprendere, di imparare: di leggere.
“ «Il bene di un libro sta nell'essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto. […]”
Il bene supremo è poter accedere alla conoscenza, il male supremo è costituito da chi la impedisce, da chi, pensando di essere l'unico portatore della verità, impedisce agli altri di poter liberamente conoscere.
“«Era la più grande biblioteca della cristianità,» disse Guglielmo. «Ora,» aggiunse, «l'Anticristo è veramente vicino perché nessuna sapienza gli farà più da barriera. D'altra parte ne abbiamo visto il volto questa notte.»
«Il volto di chi?» domandai stordito.
«Jorge, dico. In quel viso devastato dall'odio per la filosofia, ho visto per la prima volta il ritratto dell'Anticristo, che non viene dalle tribù di Giuda come vogliono i suoi annunciatori, né da un Paese lontano. L'Anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall'eccessivo amor di Dio o della verità, come l'eretico nasce dal santo e l'indemoniato dal veggente. Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro. […]”
Come non riconoscere un'estrema attualità in queste parole proprio nei nostri tempi storici?
Eco voleva scrivere una storia lontana da noi, ma una storia di libri non può che riguardarci ancora.
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la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediam
"Il sapere non è come la moneta, che rimane fissamente integra anche attraverso i più infami baratti: esso è piuttosto come un abito bellissimo, che si consuma attraverso l'uso e l'ostentazione. Non è così infatti il libro stesso, le cui pagine si sbriciolano, gli inchiostri e gli ori si fanno opachi, se troppe mani lo toccano?"
Un inquietudine intensa pervade l'ascoltatore, il quale resta profondamente coinvolto durante l'ascolto di IL NOME DELLA ROSA, letto da Tommaso Ragno. Il tono della sua voce è particolarmente incisivo e rigoroso e riesce ad accrescere l'interesse del lettore-ascoltatore, mentre segue il dipanarsi delle vicende del giovane novizio Adso da Melk in quello che è il suo percorso di formazione.
IL NOME DELLA ROSA è un interessante giallo medievale con personaggi ottimamente costruiti. Accanto ad Adso, pericolosamente unito dalla volontà di far luce sulle misteriose vicende legate all'antica abbazia benedettina, c'è frate Guglielmo da Baskerville.
La loro indagine procede attraverso l'ingegno, l'intuito, l'intelligenza personale, ma soprattutto grazie all'erudizione, quella già posseduta e quella progressivamente appresa.
È un libro sulla potenza del sapere, su quanto sia importante la conoscenza e quanto possa sedurre la possibilità di apprenderla, escludendone gli altri.
È un romanzo di cui si è sempre molto parlato, il capolavoro di Umberto Eco, un autentico libro formato mattone (più di 500 pagine), ma che risulta piacevole da leggere (o, in questo caso, da ascoltare, grazie a Tommaso Ragno) e da scoprire, pagina dopo pagine, nella sua complessità, nella struttura narrativa, dove la suspense si fonde al ragionamento, lento e meticoloso.
È un autentico capolavoro della letteratura italiana contemporanea che tutti dovrebbero leggere (o ascoltare).
"L'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità."
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Lussuria del sapere
" In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.”
L’umile , incessante salmodiare dei monaci dovrebbe ripetere l’unica verita’ incontestabile, senza dissipare beatitudine in empieta’.
Correva l’anno del Signore 1327 e l’antica abbazia benedettina nascondeva tra le sue mura segreti di sapienti e peccati di mortali, ogni pestilenza necessita di un corpo da infettare e per condurre il peccato serve il peccatore .
Così fu che la delegazione imperiale composta dal francescano Guglielmo da Baskerville ed il novizio Adso da Melk si ritrovo’ , su ordine dell’abate, ad indagare sull’omicidio di frate Adelmo.
Sette giorni lunghissimi, l'otre del tempo e’ satura , e' satollo lo stomaco di chi ha masticato le pagine per cinquecento e piu' volte sfogliando.
Un romanzo storico accattivante e complesso , a tratti colmo di dottrina ecclesiastica, a tratti lento, a tratti ridondante. L’abilita’ di un grande scrittore e l’agilita’ dell’uomo dotto fanno sì che cio’ che normalmente aggravia sia promosso da tara a pregio e caratterizzazione.
Proprio nel linguaggio forbito riscontriamo infatti il realismo che riporta al modus esprimendi dei monaci eruditi di quei tempi. Esattamente il cavilloso filosofeggiare ci concede di insediarci tra le stanze in cui il volere ed il potere ecclesiastico si confrontavano.
Umberto Eco ricostruisce il Medioevo e lo fa in maniera transitiva, trasportando il lettore nell’epoca stessa. Ecco perche’ il contenuto e la forma debbono essere rigorosamente consoni, per marcare il confine tra mero intrattenimento e fedelta' storica.
Si argomenta cosi’ nel lento e piacevole scorrere delle pagine dell’attrito tra potere imperiale e potere papale, del confronto tra i sostenitori della poverta’ francescana e l’opulenta gerarchia ecclesiastica. Il tutto alleggerito da un giallo di non semplice risoluzione, dal fascino misterioso di una inestimabile libreria celata nei meandri di un labirinto, dall’inquietudine inferta alla platea dalla gogna inquisitoria .
Di noi probabilmente restera’ solo il nome. O forse nemmeno. Buona lettura.
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Un libro sulla potenza dei libri
“E quindi una biblioteca non è uno strumento per distribuire la verità, ma per ritardarne l’apparizione?” chiesi stupito.
“Non sempre e non necessariamente. In questo caso lo è.”
Un libro sulla potenza dei libri. Penso che questa potrebbe essere una definizione calzante per Il nome della rosa di Umberto Eco.
La storia è ambientata nel novembre del 1327 in un’abbazia dell’ordine benedettino situata su un monte dell’Italia settentrionale e famosa per l’immensa biblioteca (colma di manoscritti introvabili), le splendide ricchezze accumulate dai remoti tempi della sua fondazione e le stupefacenti reliquie gelosamente conservate nella cripta della chiesa. Qui la vita dei monaci cammina da secoli secondo gli austeri e consolidati ritmi della regola, e all’apparenza nulla di maligno sembra insidiarsi all’interno delle mura del vecchio monastero, fino a quando la morte misteriosa e terribile di alcuni monaci turba profondamente l’animo di tutti e rischia di mettere in pericolo l’esistenza stessa di quel luogo consacrato alla preghiera.
Per la sua fama di uomo arguto e il lungo passato da inquisitore, Guglielmo da Baskerville, un dotto frate francescano di origini inglesi, riceve dall’abate l’incarico di indagare sugli atroci ed inspiegabili delitti. Deve fare in fretta, però, perché negli stessi giorni l’abbazia accoglierà due delegazioni, una pontificia ed una imperiale (di cui egli stesso è parte) per un incontro di fondamentale importanza ai fini del futuro dell’ordine francescano, da molti ad Avignone considerato in odore di eresia per i ripetuti richiami alla povertà.
Ad accompagnare Guglielmo c’è il novizio Adso da Melk, un giovane benedettino tedesco tolto alla tranquillità del proprio monastero in Germania per assistere il frate inglese nella sua difficile missione. Sarà proprio lui che ormai ottantenne deciderà di raccontare per iscritto la storia degli avvenimenti di cui è stato testimone in gioventù nell’abbazia maledetta.
La narrazione quindi corre su un doppio binario, con Adso anziano che dall’alto dei suoi anni può ragionare attentamente sulle vicende che Adso giovane ha vissuto con innocenza e scarsa esperienza del mondo. In questa dialettica tra io-vecchio e io-giovane, ricordi straordinariamente nitidi e ricche riflessioni si alternano continuamente in un racconto che non perde mai il suo interesse.
La nebbia fitta che sul tramonto dell’autunno avvolge le possenti mura del monastero, i meandri bui ed umidi dell’Edificio, i luoghi sacri e inaccessibili dell’abbazia, i passaggi segreti, la misteriosissima biblioteca, le terrificanti ed apocalittiche figure scolpite sul portale della chiesa, l’oscuro passato di alcuni monaci, le torbide e proibite vicende amorose che si consumano di notte, il secolare cimitero dove pare si aggirino degli spettri: tutto contribuisce a conferire alla narrazione quella luce opaca, inquietante ma incredibilmente affascinante che nella nostra immaginazione siamo soliti attribuire al Medioevo e che, nel contempo, tanto si addice a quello che può benissimo definirsi un romanzo thriller.
Umberto Eco è superlativo nella precisa e particolareggiata rappresentazione degli ambienti e dei luoghi di quest’abbazia italiana del XIV secolo (come dimenticare le congetture dei protagonisti per capire come muoversi nel labirinto o la descrizione del portale della chiesa contenuta nelle prime pagine del libro?) ma non si limita a questo. In quello che è unanimemente riconosciuto come il suo capolavoro, riesce infatti ad intersecare tra loro trame di politica e religione (senza mai annoiare, anzi) e trame molto più minute, che riguardano i rapporti personali dei monaci e la storia remota dell’abbazia.
Il risultato è un’opera appassionante, che lascia il lettore in sospeso tra mille ipotesi per centinaia di pagine e lo trascina in preda alla curiosità sino ai capitoli finali, che catturano per profondità ed intensità.
Indicazioni utili
Nel buio del Medioevo, un incendio
Ci sono dei romanzi che è bello gustarsi lentamente, pagina per pagina, parola per parola, forse perchè in completa sintonia con l'autore o forse perchè si avverte che quel libro ha qualcosa di vero da insegnare e si prova dispiacere ad avviarsi verso la fine.
Certamente uno di quelli è "Il nome della rosa", prima opera del noto Umberto Eco.
Si tratta di un romanzo multiforme un po' atipico, e ciò è evidente già dalle prime righe.
"Il nome della rosa" infatti non è altro che un diario in cui un monaco benedettino vissuto nel XIV secolo, Adso da Melk, raccoglie, in maniera quanto più lucida e imparziale, una movimentata avventura in un'abbazia dell'Italia Settentrionale vissuta in qualità di novizio a fianco del suo mentore, Guglielmo.
Adso racconta la propria vicenda da vero uomo del Medioevo, con espressioni, lessico, metodi di ragionamento, e mentalità pienamente medievali, oltre a un latino che ne arricchisce le pagine qua e là. Eco riesce a rendere il tutto quanto più naturale possibile, senza neppure trascurare un particolare, a partire dalle misure utilizzate al tempo, fino alla suddivisione della giornata in base alla preghiera e al riferimento alle lenti ad legendum, che altro non sono che gli occhiali da vista. Anche la chiusura del romanzo-diario è palesemente presa in prestito dai monaci addetti alla stesura dei manoscritti: "Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole".
E ciò che colpisce è che niente appare mai forzato o artificioso; al contrario, la naturalezza con cui Umberto Eco riesce a immedesimarsi in tempi lontani come quelli del buio Medioevo è ammirevole e alla fine ci si chiede se davvero chi ha scritto l'opera non sia un uomo del XIV secolo.
Se attenersi al lessico, alle espressioni idiomatiche, alle abitudini di questa epoca può apparire un'operazione , non dico semplice, ma comunque fattibile, ben più arduo è riuscire a mantenersi coerenti in tutto ciò che si va scrivendo con la mentalità di fondo di un qualsiasi uomo di Chiesa del 1300. L'autore in questo romanzo eccezionale riesce a farlo in modo magistrale, mettendo in luce le debolezze e i pregi di questo periodo tanto accattivante.
Il basso Medioevo è un periodo definito buio dalla maggior parte degli storici. Malattie, carestie, disoccupazione e analfabetismo falcidiano la popolazione. Il sapere è in mano a una cerchia di "eletti", gli ecclesiastici, che nei loro monasteri manipolano la sapienza, decidendo per gli altri ciò che è lecito o meno conoscere. E' inevitabile che ci si concentri principalmente su testi sacri o su pergamene che rafforzano tesi coerenti con quelle della Chiesa e il resto finisce per essere censurato.
Si abbandona l'interesse per la poesia e per le humanae litterae oltre che per le scienze intese come studio della natura, vista come luogo di tentazione, una valle di lacrime in cui l'uomo deve resistere in attesa della venuta di Cristo. Da questa visione escatologica deriva una certa chiusura mentale ma soprattutto sospetto e resistenza alla novità che Umberto Eco non perde mai di vista, mettendo in mostra tutta la sua abilità di storico.
Ma questo in capolavoro ,che già ho definito appunto multiforme, non si intrecciano solamente storia e religione; le pagine sono permeate di filosofia platonica e aristotelica , chiave di risoluzione degli intricatissimi arcani di fronte ai quali Adso, con il suo maestro, si trova.
Infatti, come se non bastasse, "Il nome della rosa" è anche un sensazionale giallo che ruota intorno a una serie di omicidi, o meglio, suicidi scatenati dal desiderio di un manoscritto proibito, la seconda poetica di Aristotele, incentrata sull'esaltazione del riso come arte, odiato dalla maggioranza degli ecclesiastici in quanto esalta uno strumento come il riso il quale permette all'uomo di liberarsi dalla paura della morte e del giudizio di Dio.
E il mistero dello spietato killer è legato ad antiche questioni dell'abbazia che Guglielmo, spiccante per il suo acume e il suo ricorrente uso della ragione, riuscirà a svelare una per una, attingendo spesso e volentieri alla logica aristotelica e al rigore in generale tipico della filosofia.
Si tratta, insomma, di un capolavoro vero e proprio, in cui si alternano momenti in cui la lettura è rapidissima e concitata, e altri in cui è piacevolmente lenta, lasciando il giusto tempo al lettore per respirare tutta la sapienza che esalano le pagine.
Degna di nota la citazione finale, da cui deriva il titolo dell'opera, che , apparentemente insensata, permette un'ampia interpretazione: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus ("la rosa che è all'origine, esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi").
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un fenomenale giallo enciclopedico
Ho letto le recensioni e sono rimasto veramente basito. Mi chiedo come si possa trovare "Il nome della rosa" un romanzo pesante, pretenzioso e noioso. Io lo ho trovato avvincente e piacevolissimo, certo è un po' impegnativo, ma la Letteratura alla fin fine lo deve essere. Ad ogni modo non è sicuramente ostico, "Ulisse" di Joyce, "L'arcobaleno della gravita" di Pynchon, "L'uomo senza qualità" di Musil, il romanzo seguente dello stesso Eco "Il pendolo di Focault" lo sono! Quello che mi ha colpito di più è stato lo stile, elegante, enciclopedico, complesso, personalmente lo trovo perfetto. Anche le varie digressioni sono molto interessanti. La trama, o meglio, il giallo che sostiene tutto è magistrale, costruito benissimo, crea suspence ed ha una notevole verve narrativa. I personaggi sono ben costruiti. Il mio preferito è stato Jorge, il cieco, una bellissima parodia dello scrittore argentino Borges, il cosiddetto 'omero del novecento', la biblioteca dell'abbazia poi è un'evidente citazione ad un celebre racconto borgesiano, contenuto nelle "Finzioni". Le parti che mi son piaciute di più sono state la scena dell'inquisizione ed il potente finale. "Il nome della rosa" presenta inoltre un grande apparato storico-filosofico, che induce profonde riflessioni sull'etica, la moralità e l'ipocrisia ecclesiastica (almeno a me). Concludo dicendo che essendo un romanzo d'esordio il risultato mi pare eccezionale. Qui vorrei sfatare un mito, non è vero che i romanzi d'esordio o le opere prime sono sempre mediocri o imperfette, basta pensare al "Viaggio al termine della notte" di Céline o al "Tamburo di latta" di Günter Grass, capolavori ineguagliabili, soprattutto il primo.