Narrativa italiana Romanzi Il male oscuro
 

Il male oscuro Il male oscuro

Il male oscuro

Letteratura italiana

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Un padre, un figlio e una famiglia. Il romanzo di Berto racconta il male oscuro di vivere attraverso la storia dell'io narrante, un intellettuale mancato che sogna di scrivere un capolavoro e finisce ai margini del mondo del cinema. Una vita sociale segnata dalla "lunga lotta col padre", da paure e nevrosi che il protagonista prova a superare con la psicoanalisi. Un libro che giunge a toccare il fondo della coscienza mettendo a nudo i meccanismi dell'umano dolore e che ha precedenti illustri nella nostra narrativa, come La coscienza di Zeno di Svevo e La cognizione del dolore di Gadda.



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Il male oscuro 2020-03-24 14:40:42 enricocaramuscio
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    24 Marzo, 2020
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Uno spaventoso intrico di terrore

"E mentre io come essere pensante e ragionevole mi lascio trascinare da alcune migliaia di millenni di cattive abitudini e faccio di tutto per costruirmi un’immagine melata e falsa del padre mio il mio inconscio sa benissimo che questo padre era un cane maledetto che tutti i giorni mi rubava la madre mentre io ero nel pieno della mia situazione edipica ossia per la madre morivo d’amore, onnipotente cane contro il quale io piccolo non avevo difesa all’infuori dell’odio, un odio smisurato come quello dei bambini che non hanno limiti nel voler bene e nel voler male sicché questo mio padre io l’ho ammazzato infinite volte con la mia volontà e il mio desiderio e in altre parole io nel mio inconscio sono infinite volte parricida, e può anche darsi che sia vero". Un po' Svevo, un po' Gadda, molto autobiografico, Giuseppe Berto presenta un lungo monologo interiore in cui il protagonista, palese alter ego dell'autore, racconta il male oscuro che lo tormenta dalla nascita e che trova angoscioso e definitivo sfogo in seguito alla morte del padre, figura a dir poco ingombrante nella vita del nostro eroe. I pensieri, i ricordi, le ipotesi, i dubbi, le certezze diventano un fiume impetuoso che scorre tra pagine prive di punteggiatura travolgendo il lettore e trascinandolo, attraverso vortici, rapide, cascate, verso gli abissi più profondi in cui l'animo umano, sopraffatto da un male di vivere che non risparmia nessuno, può ritrovarsi risucchiato. Attenzione però a non pensare di essere davanti un pesante mattone psicoanalitico. Berto è straordinario nell'affrontare un argomento spesso difficile e spinoso con una consistente quanto inaspettata dose di ironia, dimostrando una sensibilità che non sfocia mai in autocommiserazione, una lucidità che non arriva mai al cinismo. Analista e analizzato al tempo stesso, il protagonista riesce a staccarsi dal suo corpo e dalla sua mente tormentata e a raccontare il suo calvario come se lo vedesse da fuori. La prosa forbita, elaborata, a tratti tortuosa, richiede una buona dose di attenzione ma nel complesso non stanca mai, nonostante i lunghissimi e vorticosi periodi, escamotage singolare ma perfetto per rappresentare al meglio il tumultuoso flusso di pensieri della voce narrante. Altra singolarità dell'opera è l'assenza di nomi, a partire dallo stesso narratore continuando con "la vedova francese", "la ragazzetta" poi divenuta "la moglie", "il padre", "la sorella maggiore" e così via, con l'unica eccezione della figlia Augusta, specchio del rapporto figli-genitori che tanto lo ha tormentato. Tradito in tenera età da un padre che gli ruba sempre la madre e da una madre che lo abbandona troppo spesso per andare dietro al padre, soffocato dall'ipocrita perbenismo di stampo religioso imperante negli anni della sua adolescenza, deluso dalle disattese promesse di gloria del regime fascista, oppresso dal senso di responsabilità verso una famiglia che non risparmia i sacrifici per farlo studiare senza mai dimostrargli la minima fiducia, il protagonista decide di allontanarsi da tutto ciò abbandonando la provincia veneta per trasferirsi a Roma. Dopo aver mantenuto per anni freddi rapporti con la famiglia, nei confronti della quale non ha mai risparmiato aiuti economici, ritorna nel paese natale a causa delle precarie condizioni di salute del padre. Tuttavia, spaventato dal cancro che rode il genitore, disgustato dal cattivo odore che questi emana, rassicurato dalle speranzose spiegazioni dei medici, decide di rientrare nella capitale poco prima che la morte porti via con sé il malato. Il senso di colpa assalirà così il nostro uomo, riportando alla luce vecchi traumi e generando nuove paure, mettendolo davanti ad un impietoso faccia a faccia con se stesso, ad un magro bilancio della sua esistenza, ad una nevrosi in cui fobie, attacchi di panico, ipocondrie diventano pane quotidiano. Sarà "il vecchietto", analista minuto e meridionale, a dargli l'aiuto necessario ad uscire da questa impasse, guidandolo per mano attraverso un lungo percorso interiore attraverso il quale, a piccoli passi, si arriverà a quello che dovrebbe essere un completo e definitivo ristabilimento. Ma può mai esserci una vera guarigione al male di vivere quando si è costretti ad avere a che fare con un mondo cattivo, subdolo, infido? "Ecco ciò che sono non esiste mia moglie, non esiste donna e neppure figlia se si eccettua un residuo di volontà che non ci sia, oh mai fosse nata mai, e questa donna qui piange e mi implora e dice dimmi cosa posso fare dimmi, e io voglio andare in manicomio dico portami in manicomio da qualcuno, e lei piange ancora di più e dice questo no se vai in manicomio non ti vedo più guardami almeno, e io la guardo con un certo sforzo ma anche sopra di lei vedo il mio cervello matto e penso cosa ci vuole perché uno muoia cosa ci vuole, dimmelo tu padre mio vedi come sono in agonia con sudore di sangue e tremore di morte e non ancora morte liberazione, oh non resisto più voglio diventare matto proprio matto se ho mia moglie qui inginocchiata davanti a me che piange e mi scongiura, ed ecco che comincio grazie a Dio a sentire un po’ di pietà per lei, e anche per me si capisce, ecco che è finita la speranza finito il lavoro, mi ucciderò lascia che mi uccida ma non dire niente alla bambina, giurami che non verrà mai a saperlo le dirai che sono morto ma non morto così, ed ora mi viene da piangere infine, comincia a sciogliersi in lacrime questo spaventoso intrico di terrore".

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Il male oscuro 2019-07-30 08:44:17 siti
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siti Opinione inserita da siti    30 Luglio, 2019
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Vox populi

Il gusto del narrare, a dispetto di una materia autobiografica difficile da governare perché frutto di quello che viene avvertito come un fallimento esistenziale che altro non è che uno stato di malattia, in questo romanzo bello, fresco e originale non viene mai meno. Direi anzi che è l'essenza che regge la materia narrata meglio e più delle contingenze legate al puro contenuto. Uno stile dallo stesso Berto definito psicoanalitico, un libero fluire di parole per associazioni che non portano al pericolo di far perdere la bussola al lettore come avviene con la tecnica del flusso di coscienza ma che, al contrario, aprono nuovi quadri narrativi che si comportano come tasselli di un medesimo puzzle, ogni bordo coincide giustappunto con altri e si regge in un tutto grazie ad essi. Un gusto del narrare che la stessa malattia ha messo in crisi non fossero bastati un'altra serie di elementi concomitanti: Berto è inviso agli ambienti letterari dell'epoca, è stato fascista, ha scritto opere di facili successi, non si allinea anche quando, e lo fa più volte ma a modo suo, riconosce deleterie le sue precedenti simpatie politiche situandole nel mero dato biografico - ecco perché bisognerebbe conoscerlo un uomo prima di giudicarlo (e non parlo di non giudicare affatto, pratica secondo me misconosciuta a qualsiasi esemplare di essere umano) – e si comporta ora come un non allineato. Certo sono i tempi della dolce vita, quella felicemente ritratta da Fellini, ma lui viene da Mogliano Veneto sebbene risieda nella capitale. Insieme a lui a Roma c'è anche l'ombra paterna, quella dalla quale è sfuggito e che anche dopo la morte lo assilla al punto tale da far esplodere una nevrosi che covava da tempo. La narrazione si apre appunto nel pieno del conflitto familiare nel momento della morte del padre, siamo subito allineati alle bellissime pagine del romanzo di Svevo, La coscienza di Zeno, e Berto ne è pienamente consapevole ma lo stacco è immediato, l'impronta c'è ma il solco ora tracciato vivrà di un altro respiro. Concomitante all'evento tragico la narrazione procede impietosa a inanellare i molteplici episodi in cui il male si manifesta e tutti hanno una precisa collocazione nel corpo e nelle sue manifestazioni dolorose, è il dolore la spia prima del malessere, dolore localizzato nelle vertebre lombari, e nello stomaco se non negli intestini. Si arriva perfino ad un intervento urgente per sospetta peritonite: si taglia e si cuce senza nulla trovare. Forse è l'ulcera duodenale il vero male... Esilarante, divertente oserei dire e non abbiatene a male, a me questo Berto sta proprio simpatico, al limite tra il tragico e il comico. Ha avuto la capacità di esorcizzare il suo male con un'infinità di espedienti, e qui ci si ritrova tutti, non necessariamente perché nevrotici, basta un banale attacco di emicrania o anche l'herpes simplex, che tutto è tranne che semplice se recidiva. Ha inoltre avuto il coraggio di sperimentare l'analisi e con buoni risultati fidandosi del transfert e traendone indubbio beneficio e soprattutto non ha del tutto messo a tacere il suo super-Io che ambendo, con buona dose di narcisismo, al capolavoro e alla gloria imperitura, non ha avuto tutti i torti. Leggetelo per riappacificarvi con Zeno, per incuriosirvi verso Gadda, a cui si deve da “La cognizione del dolore” il titolo stesso del romanzo, o se per caso siete passati per Pomella e il suo “L'uomo che trema”. Leggetelo anche per dare uno schiaffo morale a chi non credeva alla voce di uno scorbutico, non allineato e molto critico verso i salotti buoni, gli unici che potessero partorire buona letteratura, naturalmente con il gioco di rimandi interni fatti di recensioni, amicizie nell'editoria e buoni divani.

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La coscienza di Zeno
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Il male oscuro 2017-08-21 07:23:29 pierpaolo valfrè
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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    21 Agosto, 2017
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L'ombelico del mondo

Di questo romanzo mi ha colpito innanzi tutto lo stile.
E’ un lunghissimo monologo nel quale i periodi, già piuttosto lunghi fino a circa metà del volume, man mano che ci si addentra nella psiche del protagonista-narratore diventano un fluire continuo, aumentano progressivamente di lunghezza e si può arrivare a leggere quasi cinquanta pagine prima di trovare un punto e tirare il fiato.
In qualche modo mi ha ricordato l’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, quello con i pensieri di Molly, scritto completamente senza punteggiatura. Niente paura: Berto le virgole le mette, ma ugualmente ci fa fluttuare in una continua corrente di pensieri, parole, ripetizioni, ossessioni, che richiede grande padronanza di scrittura e soprattutto un’intensità di contenuti fuori dal comune.
E infatti la seconda cosa che mi ha molto impressionato è come si possano scrivere trecentocinquanta dense e fittissime pagine guardando continuamente il proprio ombelico, anzi descrivendo centimetro per centimetro il proprio intestino e allo stesso tempo raccontare lo smarrimento di un’intera generazione, di un ambiente sociale, per certi versi persino di una nazione.
“Anche narrando la propria vita uno può narrare la vita umana” dichiarò Berto in un’intervista all’uscita del romanzo, nel 1964.
Giuseppe Berto, classe 1914, era figlio di un carabiniere “nei secoli fedele” al Re, poi divenuto cappellaio nella provincia veneta ma con scarsissima attitudine al commercio, data la natura di uomo tutto d’un pezzo che l’esperienza militare, l’ambiente provinciale, le ristrettezze economiche e i valori imbevuti di retorica patriottica tardo risorgimentale non avevano contribuito ad ammorbidire.
L’inquietudine di Berto, la ribellione al clima soffocante familiare e provinciale (abbondantemente assimilato nei principi e nei valori, dunque la ribellione è un po’ contro una parte di se stesso) lo porta ad arruolarsi in Africa con le camicie nere, a spendere in guerra gli anni migliori, cercando anche la bella morte come estrema forma di gloria e liberazione, per poi tornare sfinito, vinto e disilluso in una società ormai trasformata, estranea e aliena, popolata da uomini nuovi dai quali si sente lontanissimo, ragion per cui coltiva la vocazione, e anche un po’ il gusto, di restare ai margini.
Non a caso, Berto ebbe tra i suoi primi estimatori Indro Montanelli (classe 1909) con il quale condivise alcune esperienze e stati d’animo: dalle frequenti crisi depressive all’Abissinia vissuta con giovanilistico anelito di fuga e avventura, alla ricorrente polemica contro la nuova cultura dominante affermatasi dopo la Liberazione.
I personaggi principali e le figure chiave di questo romanzo non hanno un nome e si riconoscono come “il padre”, “la sorella maggiore”, “la vedova”, “la ragazzetta”, “la moglie”, “il vecchietto”, “il luminare” etc.
Il male oscuro che lo ha così tanto tormentato, sembra volerci dire Berto, è comune a molti, ma pochi ne hanno parlato direttamente e senza finzione poetica.
Eppure, come recita Eschilo in una delle epigrafi scelte per il romanzo “il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”. Dunque Berto si racconta e lo fa talmente impudicamente che solo grazie ad un’arguta ed efficacissima ironia riesce a non farci distogliere lo sguardo, anzi a farsi seguire tra ospedali e lettini per terapia psicoanalitica neanche si trattasse della fuga del Corsaro Nero nella foresta di Maracaibo.
E poi, vuoi mettere che soddisfazione vincere il Campiello, a Venezia, lui nato a Mogliano Veneto da un carabiniere nei secoli fedele che gli profetizzava un futuro di galera e fallimenti…
“e così scavo nella mia solitudine e nel mio avvilimento pensando che un giorno gliela farò vedere a tutti questi veneziani chi sono io”.

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Come già ricordato in precedenti recensioni, Berto stesso elesse Svevo e Gadda a suoi espliciti modelli e numi tutelari. Di Gadda (La cognizione del dolore) è anche la prima epigrafe che apre il romanzo. La seconda è di Freud, imprescindibile, visti i continui (anche divertenti) riferimenti alla psicoanalisi. La terza di Eschilo, dal Prometeo: la ribellione verso il proprio microcosmo e le aspirazioni negate.
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Il male oscuro 2017-07-03 08:33:00 Roleg
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Roleg Opinione inserita da Roleg    03 Luglio, 2017
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La paura di avere paura

Non so bene per quale ragione, ma prima di iniziare a leggere questo romanzo mi ero fatto l'idea che si trattasse di un cupo, pesante e deprimente resoconto della vita di una persona affetta da depressione. Un mattone insomma. Un libro che bisogna leggere lontano da lamette e barbiturici.

Mi sbagliavo, di grosso.

E' un uomo, Berto, che con un monologo senza respiro, con frasi lunghissime e con la punteggiatura risicata all'osso, si apre. Svela ogni aspetto della sua vita, della sua mente, ogni aspetto positivo e negativo, ogni pensiero puro e impuro. Berto ha il coraggio di mettere in mostra pubblicamente tutti quegli aspetti che normalmente tendiamo a nascondere. E lo fa perché comprende che quando il dolore rimane al nostro interno cresce, si ingigantisce, ci manda in crisi.

"Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore"

Forse a causa di un rapporto non risolto con la figura autoritaria del padre, inizia presto ad avere crisi di panico, veri e propri attacchi di paura incontrollata che in alcuni casi lo costringono a fare azioni inconsulte, come abbracciare terrorizzato le gambe di un vigile urbano per strada. Queste crisi di panico se da una parte gli rendono la vita estremamente difficile, dall'altra non gli impediscono di vedere il mondo, le persone, i fatti, con una estrema ironia. Più di una volta ho riso di fronte a battute fatte con disarmante candore. Una ironia senza la quale sarebbe difficile leggere il libro; una ironia invece grazie alla quale il libro diventa lieve acuto e stimolante. Ironia che con tutta probabilità non è altro che una difesa dello scrittore contro la vita deprimente.

"la paura della paura è arcana e ubiqua, sfugge sia ai raggi che agli esami istologici sicché nessuno al di fuori può capire se ci sia o non ci sia fino a che non diventa pallore o tachicardia o diarrea e allora anche il più asino dei medici riesce a capire che qualcosa c’è, ma purtroppo questa paura spesso rimane astratta o va a finire nel caldo lombare o nei giramenti testicolari e in questi casi è facile trovare medici che dicono che il caldo è una mia impressione e che i coglioni in fondo girano a tutti"

Queste crisi, o meglio la paura di avere queste crisi (la paura della paura) se da una parte gli impediscono di avere una vita normale, dall'altra lo costringono ad attaccarsi alle persone che gli sono più prossime. E' un egoista, Berto, pensa solo per sé. Si lega agli altri principalmente per bisogno. E' misogino, nevrotico, avaro e ossessionato dal tentativo di raggiungere la "gloria". E ha paura, paura di tutto. Paura della morte, della pazzia, della gente, della solitudine, dei viaggi, del futuro, di scrivere.

Il suo scritto non ha una direzione predefinita, non cerca di raccontarci qualcosa in particolare. Segue il filo dei suoi pensieri guardandosi dentro. Ma pian piano ci accorgiamo che i pensieri di quest'uomo non sono così dissimili dai nostri. La valenza dei discorsi di Berto è generale. E qui sta la grandezza del libro.

E il male oscuro del titolo pian piano si trasforma in un generale "male di vivere", la presa di coscienza della nostra impotenza, l'incapacità di uscire fuori dai propri fallimenti e dalle proprie angosce. Incapacità che si risolve poi alla fine con l'accettazione, la presa d'atto della sua condizione. E infatti la parte iniziale del libro mi ha ricordato spesso lo Svevo di Senilità, che aveva trattato abbondantemente in precedenza più o meno gli stessi temi.

Giuseppe Berto è un autore ben poco famoso e ben poco letto. Onestamente, non sono riuscito a capirne le ragioni. "Il male oscuro" è un gran bel libro da leggere. Perché è interessante, ironico, intelligente, acuto, a tratti brillante e che ci costringe a riflettere su molte cose della nostra vita. Perché è l'approfondita analisi di un uomo che, senza veli e senza abbellimenti di sorta, mostra le sue paure e debolezze. Che spesso sono uguali alle nostre.

Bisogna essere delle grandi persone per mettersi a nudo in questo modo.

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Il male oscuro 2015-04-19 18:10:04 Bruno Elpis
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    19 Aprile, 2015
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Dallo psicanalista bisogna togliersi le scarpe?

Il male oscuro è un’opera acclamata (premio Campiello e premio Viareggio nel 1964), nella quale con la tecnica del flusso di coscienza Giuseppe Berto analizza il conflitto edipico con il padre (“Niente riesce a togliermi dalla mente il pensiero del padre mio che sta prendendosi la sua legittima vendetta”): dopo la morte del genitore (“Proprio l’abbandono del padre in punto di morte avrebbe determinato il conflitto morale che mi ha condotto alla psiconevrosi”), compare una malattia difficilmente classificabile, che mina la vita del protagonista, uno sceneggiatore sempre assediato dalle necessità economiche (“Io sono povero non ce la farò mai a diventare ricco e neppure celebre”), procurate sia dal ricorso a costosi consulti e ricoveri, sia da una moglie (“Riesco a caricarle su una vettura letto del direttissimo per il Brennero o Brennero Express come propriamente si chiama”) che ha scarso senso dell’economia domestica (“Attraverso le spese particolarmente inutili lei manifesta una specie di volontà di potenza o qualche altra cosa di parimenti diabolico che a mio avviso potrebbe anche ravvicinarla a Stalin”).

La lotta contro l’insidioso morbo (“Questa malattia spaventosa che mi ha bloccato l’energia creativa insieme al gusto di fumare e al beneficio di andare di corpo senza angoscia…”) e le sue ramificazioni (“Non sono privo di una certa fisima chiamata agorafobia”) è alterna (“Quelle capsulette nuove che il medico mi aveva consigliato e si chiamavano psicoplegici”), a tratti spassosa (“l’Alpe di Siusi dove manicomi non ce ne sono”) perché ingenera situazioni grottesche (“Pare che io sia l’unico esemplare di analizzando che si fa analizzare senza le scarpe”), talvolta sofferta nella ricerca dell’evento o del peccato (“Se fossi morto sarei andato dritto ad arrostirmi nelle fiamme dell’inferno…”) scatenante una patologia che assume sempre più le sembianze della nevrosi da complesso edipico (“Ho l’impressione che il lavoro da fare sia togliermi di dosso per quanto è possibile il rimorso dei numerosi parricidi”), per la quale si rivelano determinanti le sedute psicanalitiche (“Pur non credendo nella psicoanalisi credo sconfinatamente in quest’uomo”).
In questo contesto, è naturale ripercorrere il passato, utilizzando una memoria vivacizzata da impulsi estemporanei (“Quando mi chiedevano che mestiere avrei fatto da grande avevo vergogna di rispondere che avrei fatto l’uomo del latte, rispondevo invece che avrei fatto il prete”).

L’esposizione ironica delle teorie freudiane – memorabili le pagine che descrivono la triade es/ego/superego (“Noi siamo composti di tre parti, una delle quali si chiama Es…”) e la classificazione in tipologie (“Il tipo coattivo, a differenza del tipo erotico dove prevale l’Es e del tipo narcisistico dove prevale l’Io…”) – fa di questo romanzo la naturale evoluzione de “La coscienza di Zeno”, in una narrazione che sfiora anche “Il malato immaginario” pur mantenendo un’originalità stilistica di grande impatto.
Lo stile (“Spoleto… festival dei Due Mondi ci sarà un concerto in piazza, ossia una Messa in non so che cosa di Frescobaldi.. stupenda piazza del Duomo con le rondini che girano stridendo da matte… è costruita in collina il che significa che è un po’ mossa e piuttosto carente di linee rette in tutti i sensi, sicché vado in giro mezzo stordito”) è lo stesso che ritroviamo in alcuni scrittori dei nostri giorni, quindi ha fatto scuola: la prosa non conosce segmentazione in periodi e rappresenta con efficacia il libero flusso dei pensieri, sino a un finale tragicomico, nel quale si frantumano i sogni di gloria inseguiti nell’inconcludenza creativa della pagina bianca (“Per non andare avanti col quarto capitolo verso la mia gloria…”), ove si è arenato il romanzo che il protagonista sta scrivendo. Quello che dovrebbe essere un capolavoro (“Una storia d’amore tra due ragazzi e in più senza fatti”) e che in realtà è soltanto motivo d’afflizione... Non così nella realtà, perché Giuseppe Berto il suo capolavoro è riuscito a scriverlo, proprio con “Il male oscuro”.

Bruno Elpis

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Il malato immaginario
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Il male oscuro 2015-04-16 20:32:23 Rollo Tommasi
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    16 Aprile, 2015
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Tre capitoli

L'analisi della propria vita, per il protagonista di questo romanzo, inizia quando si ritrova di fronte al proprio padre fattosi larva in un letto d'ospedale, destinato a morire o alla scoraggiante alternativa di vedersi ricostruito dai medici un ano artificiale sulla pancia.
E' allora che vengono a galla i lati più nascosti del protagonista-narratore, o forse solo quelli che non ha saputo interpretare prima: l'ingombro che la figura paterna ha sempre rappresentato e le ripercussioni che ha avuto sulla sua personalità in crescita; il perché dell'abbandono della casa di famiglia per cercare fortuna a Roma; il riemergere di determinati episodi di gioventù... Una riflessione sulla propria esistenza resa ancor più difficile dall'intrecciarsi di ulteriori vicende disturbanti: lo scontro con una petulante compagna francese (già vedova) negli stessi giorni in cui il padre giace in corsia; i fastidi e i dolori provocati da quel rene abbassato con cui deve forzatamente convivere; i dubbi per la sua relazione con una ragazza giovanissima, che alla prima buona evenienza si augura di mollare; la somatizzazione di tutti questi problemi in altre malattie, magari immaginarie. E altro ancora.

Nel 1964, Giuseppe Berto vince il premio Campiello e il premio Viareggio con questo romanzo i cui personaggi sono dei paradigmi senza nome (il papà, la mamma, le sorelle, la vedova francese, la ragazzetta innamorata, lo psicologo). Il protagonista – alter ego dello scrittore – si destreggia tra essi e contemporaneamente con i propri umori altalenanti. Tutto scaturisce dal complesso rapporto tra un padre borghese (carabiniere e, dopo la pensione, cappellaio) e un figlio instabile (che si arrangia scrivendo soggetti e sceneggiature per impresari cinematografici di mezza tacca).
La particolarità di questo libro è costituita senza dubbio dallo stile di scrittura: in esso si sente l'eco di Saramago ma – visto il tono costantemente ironico, che non si addice allo scrittore portoghese – è forse più esatto dire che richiama il linguaggio parlato. Se è vero che oggi uno stile del genere è piuttosto usuale, negli anni '60 deve aver fatto la fortuna di questo libro (costituendo con tutta probabilità anche l'ispirazione per autori successivi).
E' proprio la scelta dell'ironia e dell'autoironia (che a volte finisce per rendere caricaturale il personaggio) a dimostrare come questo non sia un libro sulla depressione o sull'esaurimento nervoso; ciò contrariamente a quanto affermato sulla quarta di copertina di alcune edizioni del libro (che – per pigrizia? – si lasciano adescare dal titolo dato dall'autore). E' invece un libro sul conflitto interiore, che nella parte finale trova sponda nella psicanalisi e nelle teorie freudiane, richiamando la continua opposizione tra Io, Es e Super-io: sotto questo aspetto l'ultimo capitolo costituisce la bella autoanalisi di un uomo che prova a far pace con se stesso (dunque ad accettarsi per quello che è), salvo poi tornare a scontrarsi con la vita presente invece che con il passato.
In conclusione “Il male oscuro” non è seriamente proponibile quale studio della psicologia umana, bensì – in un'ottica meno pretenziosa, e comunque più “giusta” per un'opera letteraria - come resoconto “diaristico” sorretto da abbondante arguzia: non a caso il libro è da molti avvicinato a “La coscienza di Zeno” di Svevo (opera, ad un certo punto del volume, direttamente citata) e a “La cognizione del dolore” di Gadda (che per Berto accettò di scrivere una prefazione a questo lavoro).

“ (…) ciò che importa raggiungere è una serena valutazione di se stesso nei confronti della realtà, cosa tuttavia più facile da dire che da fare dato che velocemente cambiamo noi e insieme ovverosia contemporaneamente cambia anche la realtà...”

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"La coscienza di Zeno" di Italo Svevo, "La cognizione del dolore" di Carlo Emilio Gadda
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Il male oscuro 2014-10-11 14:31:36 ferrucciodemagistris
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ferrucciodemagistris Opinione inserita da ferrucciodemagistris    11 Ottobre, 2014
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Ironia della psicoanalisi

La prima “anomalia” che si nota quando ci si accinge a leggere questo romanzo, è la particolarità e originalità dello stile narrativo: in pratica non esiste punteggiature e il tutto procede come un flusso di parole senza soluzione di continuità.

La vicenda è narrata in prima persona; il protagonista è uno sceneggiatore che in seguito alla morte del padre, malato di tumore, entra in una fase di depressione acuta che sconvolge la sua vita affettiva e lo induce alla sindrome ipocondriaca. E’ ossessionato dalle malattie, tra cui le neoplasie, che lo portano a continui controlli medici senza che gli stessi riescano a trovare e diagnosticare alcun segno di malore e malanni; quindi il risultato è una salute perfetta.

Ecco, allora, interiorizzarsi il famoso “male oscuro”, un male non fisico ma ancor più subdolo in quanto devasta l’anima. La decisione di intraprendere un percorso psicoanalitico fa scorgere al protagonista l’ombra del mal di vivere che ha come base il senso di colpa e il rimorso inerenti accadimenti e vicissitudini creati dal suo inconscio.

La lettura scorre veloce, quasi a perdifiato, in maniera, a volte grottesca, e con frequenti sfumature ironiche; la terapia psicoanalitica mette in luce un forte senso della morale, instauratosi fin dall’adolescenza, che è una delle cause degli attuali malori dell’anima scatenati dall’evento traumatico della morte paterna.

Il romanzo è stato scritto e pubblicato mezzo secolo fa, nel 1964, ma penso che possa ancora essere di estrema attualità.

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"La coscienza di Zeno" di Italo Svevo
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