Il futuro di una volta
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
La paura che attanaglia il vivere.
Elena ha trentasette anni, lavora alla Softy, la più grande azienda di distribuzione di software in Italia con il beneficio ed il tanto auspicato nonché raro “contratto a tempo indeterminato”, e vive anestetizzando le emozioni. Si sente come un astronauta che vaga nello spazio aperto, legato alla sua navetta solo tramite quel tubo bianco e sottile tanto noto grazie alle pellicole cinematografiche. Ha paura di disperdersi in una galassia sconosciuta dove il primo buco nero disponibile è pronto ad ingurgitarla. Nemmeno lei sa come e quando ha iniziato a sentirsi così ne tanto meno come e quando ha deciso che schermarsi con la sua muraglia invisibile di meticolosità, precisione, ordine, praticità, linearità e assoluto distacco dall'empatia sarebbe stato meglio di rischiare, di buttarsi, di vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo senza il timore di quel che sarebbe potuto succedere o delle ferite che avrebbe di poi dovuto e potuto leccarsi.
Laury, è esattamente l'opposto della nostra impiegata modello, e pensare che non è altro che sua madre. Settant'anni, tanta voglia di vivere, di non privarsi di niente ma soprattutto di non crescere. Perché la donna non ci riesce proprio a vestirli questi panni dell'adulta, lei che nella sua parentesi di vita sulla Terra non ha fatto altro che godersi tutto, fare di testa propria, circondarsi di amici bio, veg, e hippy persin nel midollo. Anche quando quella sentenza giunge inesorabile l'eclettica anziana non riesce ad abbattere quel muro che si è costruita, si perché anche lei esattamente come la figlia, ha eretto una barriera silenziosa di parole non dette, legami perduti, incomprensioni maturate. Quanti lemmi vorrebbe dire ad Elena, quante emozioni vorrebbe confidarle, quanto ancora vorrebbe condividere con lei, eppure la discendente si comporta esattamente come lei si atteggiava con la sua di madre, controcorrente e testarda sino alla fine; assolutamente incapace di ascoltare, immedesimarsi, di capire la non assurdità di quegli universi poi non così paralleli..
L'uomo delle caverne Yves Chalup, sessantacinque anni, domicilio la Berthe imbarcazione classe 1935 sita in quel della Senna, coppia di fatto con il cagnolino Chien, per tempo immemore si è rifugiato nella solitudine, nella sua brontolosità, scudo e corazza di un uomo ricco di essere ma pur sempre intimorito da quell'inequivocabile ed ipotetico “no”. Quanto ci ha messo per farsi coraggio con la cara e vecchia amica Béatrice, un passo avanti e tre indietro, un passo avanti e cinque indietro, alla ricerca di quell'ardimento che avrebbe potuto donargli quella felicità tanto sperata ma mai timorosamente auspicata.
Tre storie sono quelle che ci presenta Serena Dandini, tre avventure apparentemente disconnesse l'una dall'altra ma in realtà necessariamente ed inevitabilmente interconnesse ed avvalorate dalla presenza di tanti amici e coprotagonisti dell'opera nonché ambasciatori di quella morale che si articola dietro queste pagine scritte sotto la falsariga di un tono leggero e fluente che, tra una parola e l'altra, sussurra al lettore di non aver paura della vita, di non temere quel che sarà, di non preoccuparsi del dover crescere.
Nella vita si procede a strappi e ricucite, perdite si alternano a nuovi incontri, il tutto in un mix di colori ed avvenimenti dove alcuno è in grado di calcolare in anticipo la dose di dolore che gli spetta né tanto meno quella della felicità perché non c'è logica e non c'è matematica a cui attenersi.
Un romanzo che è fotocopia della quotidianità, dell'attualità, dove vi è spazio per il superfluo della vita (twittare, taggare, smaltarsi le unghie) nonché per riflettere sulle nostre paure, sui nostri dubbi, sulle nostre incertezze, sul nostro io. Un testo dove con semplicità l'autrice ci invita ad interrogarci, a guardarci intorno, a crescere, ad imparare a volerci bene e ad accettare noi stessi, così come gli altri, per quel che siamo e per quel che sono. Un componimento dove il futuro di oggi ed il futuro di una volta si scontrano con inesorabile crudeltà nonché realtà.
“La causalità era una categoria vergognosa che toglieva spessore e importanza al nostro viaggio sulla Terra. Se la partita era truccata allora tanto valeva buttare le carte all'aria. Ma la beffa più grande per chi rimane è accorgersi che il mondo andrà avanti incurante di chi si è perso per strada e ci ha lasciato per sempre. Tutto verrà impastato di nuovo, come se uno schiacciasassi divino passasse sopra ai tuoi ricordi e alla tua sofferenza, frullando il passato in piccoli pezzi inafferrabili. Un lavoro minuzioso e implacabile che trasforma le persone amate in particelle infinitesimali di memoria, che si mischiano al nuovo ossigeno che sei costretto a respirare. “Tutto passa” e altre frasi irritanti come “il tempo è la medicina migliore la facevano infuriare. [..] Se la sarebbe cavata, non c'era altra possibilità. Lo sapeva ed era proprio questo a farla impazzire di rabbia”.
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L’uomo è il passato della donna
Serena Dandini ci ha fatto tanto ridere ai tempi di Avanzi. Oggi torna in veste di romanziera e rischia di strappare qualche lacrima (“La mamma… aveva previsto tutto, ma non la varietà della pianta. Elena fu felice di sceglierla per lei”) con “Il futuro di una volta”.
Perché i protagonisti del romanzo sono i reduci del Sessantotto (“Erano figli di un dio minore, ma di un pantheon psichedelico”), quei giovani che hanno sognato l’amore libero e una società fondata sull’immediatezza dei rapporti, magari vissuti nell’utopia e nella magia esotica delle spiagge di Goa. Quei giovani (“Non si sa come, erano riusciti a passare attraverso le forche caudine del terrorismo e dell’eroina, scivolando con grazia tra le strette feritoie che la politica e la droga avevano lasciato libere”), oggi ultrasessantenni che ancora vivono ripiegati su un sogno che le dinamiche storiche e sociali hanno negato.
La storia scorre su due binari paralleli: quello italiano della madre Laury e della figlia Elena (“Era stufa di proiettarsi in vite fantasiose che non erano la sua. Forse era arrivato il momento di buttarsi nella realtà”), espressioni di due generazioni contrapposte; il binario parigino di Yves (“Questo francese che possedeva uno yacht sulla Senna”), per il quale “l’uomo è il passato remoto della donna”. Un uomo misterioso, che – sfidando l’anagrafe – coltiva ancora un sogno d’amore (“E noi canteremo allo sposo il nostro cavallo di battaglia… You can’t always get what you want”).
Giudizio finale: nostalgico, moderatamente critico e soffuso d’ironia.
Bruno Elpis