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Il dono di Antonia Il dono di Antonia

Il dono di Antonia

Letteratura italiana

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Antonia vive a Bologna e ha una figlia adolescente, Anna, che da qualche tempo ha problemi di alimentazione. Il loro rapporto è teso e Antonia si domanda se, rifiutando il cibo, Anna non stia tentando di svincolarsi dalla sua devozione materna. Poi, un giorno, arriva la telefonata di un ragazzo americano e con lui il passato torna a galla. Ventisei anni prima Antonia viveva negli Stati Uniti e donò un ovulo a un’amica che desiderava diventare madre ma non poteva. Da quell’ovulo fu generato Jessie, che ha appena scoperto di essere nato anche grazie a lei, e perciò ha bisogno di conoscerla, di sapere perché lo ha fatto, e perché a un certo punto è scomparsa. Mentre sua figlia sembra volersi liberare di lei, qualcuno che non può chiamare figlio invece cerca Antonia, e la interroga sui motivi di quel dono offerto come un atto di generosità del quale poi non si è sentita all’altezza, un gesto da cui deriva una responsabilità che lei non può più ignorare. Perché, per ciascuno di noi, la domanda «chi sei» implica sempre anche «di chi sei».



Recensione della Redazione QLibri

 
Il dono di Antonia 2020-09-06 19:25:15 Bruno Izzo
Voto medio 
 
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Stile 
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    06 Settembre, 2020
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La scelta responsabile

Questo è un testo potente, che parla di un potere, quello talora più grave da gestire tra le facoltà umane, sebbene sia il più straordinario, e perlopiù meraviglioso, eccelso ed eminente insieme: la virtù di essere origine, radice, madre.
E perciò, inderogabilmente, trattasi di una prerogativa di donna.
Cosa significa concedere la vita? Quando e dove si inizia a divenire madre?
Questo il tema de “Il dono di Antonia”, un bel libro, l’ultimo in libreria, di Alessandra Sarchi.
Un libro difficile, in verità, per l’argomento trattato, a prima vista presenta anche una certa resistenza alla lettura, malgrado sia ben scritto, con stile elegante e prosa ricercata, mostra una sorta di pudore, una qualche ritrosia a estrinsecare tutto il suo potenziale, che è notevole, credo a causa di una certa delicatezza, più che riserbo oserei dire tenerezza, con la quale l’autrice affronta di straforo un tema attuale come la maternità suffragata.
Forse solo in questo è il suo unico neo, che ne frena forse la scorrevolezza.
In realtà il suo è un discorso più ampio, sussurrato più che esclamato, espresso con timidezza e finezza insieme, una garbata conversazione su cosa significa davvero divenire madre, come lo sente in sé questo sentimento una donna conscia e consapevole che ogni mese, per un periodo della sua vita, è depositaria della possibilità di effettuare un dono, o più spesso un rifiuto, di cui sottilmente e inconsciamente prova sempre una lieve frustrazione.
Antonia è una donna, una moglie, una madre, gestisce una piccola azienda agricola con caseificio annesso sulle colline intorno a Bologna.
Vive una vita come tante, apparentemente tranquilla, serena, forse anche monotona, le sue giornate trascorrono secondo orari dettati dai ritmi naturali, scanditi dai tempi della mungitura, del governo degli animali da latte, della produzione di ricotta e formaggi, della cura della casa e dell’orto.
Come tanti, nelle pause dal lavoro cerca nello sport e nell’attività fisica fine a sé stessa, supporto e conforto allo stress quotidiano dell’esistenza, inanellando vasche su vasche nella piscina annessa all’azienda.
Per benefica produzione di endorfine, certo, e catarsi in una parvenza di protettivo liquido amniotico.
Uno stress quotidiano il suo, in verità, un po' più accentuato che in altre famiglie: l’unica figlia, la diciottenne Anna, infatti, soffre di un disturbo alimentare insolito per le passate generazioni ma purtroppo in auge oggi nei tempi moderni, è anoressica.
L’esistenza della famiglia si regge quindi per il tramite di un filo assai fragile che lega le esistenze dei membri della famiglia, padre, madre e giovane impiegato, ruotano tutti intorno al problema evidente, mai negato e però nemmeno conclamato apertamente.
Tutti sono alla ricerca di un continuo equilibrio, in una atmosfera instabile, da un lato le blande e caute strategie dei familiari, la mamma Antonia in particolare, volte a convincere in qualche modo più spesso maldestro la giovane ad alimentarsi, ad introdurre un numero maggiore di calorie nella dieta quotidiana, dall’altro il sottrarsi della ragazza a quelle che considera pressioni ed intrusioni sgradite nella propria sfera di scelta e di azione.
Il tutto attraverso un gioco di finzioni, un senza parere, un gioco di convenzioni, di compromessi, di trattative, perché le insistenze, seppure dettate a fin di bene, non diventino ossessioni nefaste, o ritornelli e sproni compulsivi, e non diano la stura ad autentiche crisi isteriche di panico, così come caldamente raccomandato di evitare dai professionisti sanitari, e dai gruppi di supporto e di aiuto, costituito come tipico in certe patologie, dai familiari dei pazienti, tutte ragazze, afflitte da tale disturbo.
Una simile evenienza, il fatto stesso che tale disturbo sia a sola diffusione femminile, conduce inevitabilmente ad orientare lo spot sulla madre, sul rapporto madre- figlia, dai più ritenuto origine dello squilibrio emozionale che si estrinseca nel rifiuto di nutrirsi.
La protagonista del romanzo quindi è giocoforza sospinta a ridiscutere e a riconsiderare il suo ruolo di madre, e questo naturalmente la porta anche a ricordare gli eventi della sua vita trascorsa.
Perché è inevitabile: ognuno di noi è la conseguenza di quello che è stato, degli eventi che ha vissuto, delle scelte compiute o subite, e quello che è stato prepara il presente, e questo a sua volta è l’input del futuro.
Antonia ricorda quindi, o meglio è costretta a rinvangare quello che considera, o si è convinta a considerare, un errore di gioventù, il frutto di una leggerezza, una mossa tanto superficiale quanto istintiva e frettolosa, compiuta in assoluta buona fede e nobiltà d’intento in un’età quando ancora necessariamente difettano maturità e capacità di scelta giudiziosa.
Un evento di cui nessuno, se non il marito, è al corrente, una circostanza che in qualche modo ha forse lasciato memoria genetica in lei, e lo ha trascritto malignamente nei geni della figlia
In tal modo condizionandone il rifiuto ad assimilare energia vitale, quasi la ragazza intendesse punire come una nemesi storica-genetica Antonia, che le è madre ed è l’origine del suo primo cibo, la poppata da lattante, ripudiandolo e rifiutando ogni altra forma di alimento offerto.
Antonia infatti, ancora ragazzina, ventisei anni anni prima, fresca di studi universitari, aveva usufruito di una borsa di studi universitaria, trascorrendo un anno in California.
Era stata la sua una scelta accademica ricercata e voluta, sentiva il bisogno di evadere, di continuare gli studi il più lontano possibile da casa sua e specialmente dalla propria madre, con la quale aveva un rapporto di timore e disagio, di staccarsi dai luoghi natali, quasi intendesse sradicarsi e cancellare il ricordo di sé.
La giovane aveva provocato involontariamente una delusione cocente, lei unica figlia, all’autorità manifestatamente unanime della sua famiglia, la mater familias.
Una madre costei ben diversa di carattere dalla dolce e timida Antonia, una donna d’altri tempi, potere unico e assoluto, dotata di carisma e autorità congenita data la sua difficile, e ammirevole in verità, storia di emancipazione sociale.
Antonia era stata una tremenda delusione per sua madre, ne era stato motivo di umiliazione e forse sottile derisione di quanti la detestavano. Le aspettative della madre, e dei familiari, tutti infermieri e tutti occupati nelle professioni sanitarie, furono vanificate dalla scelta di Antonia di dedicarsi ad altro negli studi e nella professione, a causa di una sua innata e sconcertante repulsione per tutto quanto consono al sangue e alla medicina, addirittura perdendo incredibilmente i sensi in caso di prelievo di sangue, e ovvio conseguente rifiuto di divenire donatrice di sangue, come invece ruolo consolidato in tutti i familiari, da ferrea tradizione di famiglia instaurata appunto dalla madre.
A Los Angeles Antonia, semplice e ingenua, mal si adatta allo stile di vita e alle incongruenze anche atroci dell’opulenta, e assurdamente contraddittoria, società americana.
Di giorno vede gli americani bene riempire a dismisura i grandi carrelli dei supermercati di ogni sorta di cibo e di ben di Dio, la maggior parte del quale finirà sprecato; e di notte, gli stessi carrelli sono sospinti di nascosto, e con vergogna, carichi di povere cose, dagli homeless sbucati dal nulla in cui si nascondono nelle ore di luce e che con il buio gironzolano in giro in cerca di avanzi alimentari nei bidoni della spazzatura.
Questi sconvenienti controsensi turbano la giovane, la portano a insicurezze ed errori di vita che sfociano in un rapporto superficiale con un uomo più grande, e più immaturo di lei, che si conclude con un tragico, e doloroso, aborto spontaneo.
Salva il suo equilibrio e la sua sanità mentale, restituendole una parvenza di serenità, la sua amicizia, intensa e disinteressata, con Myrtha, una donna di poco più grande di lei, sposata e di famiglia agiata, con cui condivide la passione per il nuoto, e che le insegna come a lei, e a lei sola, spetta il compito di scegliere come essere felice, nessun altro al mondo può sostituirla in questa scelta responsabile, meno che mai la propria madre.
Per questo Antonia, grata all’amica del cuore, poiché questa per qualche motivo è sterile e desidera fortemente avere un figlio, le propone prima spontaneamente e poi la costringe ad accettare il suo dono, un pegno d’amicizia e di amore, il più grande, una maternità surrogata, le dona d’impulso, e con gioia, anche con un pizzico di incoscienza giovanile, un proprio ovocita, per cui tramite la fecondazione eterologa, l’amica possa esaudire il proprio desiderio di maternità.
La gravidanza procede, e Antonia capisce, con dolorosa coscienza, che non può più restare vicino all’amica: il suo dono non è come una donazione di sangue, non è un colmare una carenza momentanea di sostanza, è un creare ex novo, è un dono che non può essere donato, è una scelta responsabile ed irresponsabile insieme, magari giusta ma a cui non è preparata.
Pertanto, parte, anzi fugge, torna in Italia decisa a lasciarsi indietro tutta questa esperienza, e soprattutto la gelosia nel vedere una vita, che è anche sua, crescere in un’altra madre.
Sa che i figli appartengono a chi li cresce, li nutre, li cura, li segue, certo; ma appartengono.
Per essere, sono di chi li ha messi al mondo. Di più, di chi li ha creati. L’input primordiale.
Perciò torna in Italia, si rifà un’esistenza, provando a relegare nell’oblio una parte di sé.
Ed ecco, quell’ovocita non è più un gamete, è un giovane di nome Jessie, per una serie di circostanze ha saputo di sua madre biologica, e viene a cercarla perché…perché:
“Ogni culla chiede: da dove?”
Conoscere il passato per comprendere il presente e preparare il futuro, è una grande lezione di Storia. Anche della Storia degli umani.
Ognuno di noi necessita di sapere da dove viene, chi è, come è diventato quello che è, è scritto nel nostro patrimonio genetico, che ha un numero pari di cromosomi, perché ciascuna metà viene da un genere diverso, e combinandosi forma un tutt’altro che è sé e viene anche da due.
Conoscere i due, per avere coscienza di sé, è istintivo nella razza umana.
La concretezza di Jessie che la viene a cercare a Bologna è salvifica per Antonia e, come pare assai probabile, per la giovane Anna, la sorella almeno in parte di Jessie.
Poiché ambedue le donne sembrano recuperare qualcosa, riempiono una carenza che si era instaurata tra loro e che Anna manteneva volutamente vuota, evitando di riempirla di cibo, comprendendo che solo un certo tipo di Amore aveva il diritto di colmare tanta lacuna.
Amore fatto di chiarezza, apertura, sincerità e senza alcun timore di essere giudicati.
Perché i figli possono essere giudici severi, ma quasi mai sono attendibili, e nemmeno i genitori.
Bisogna saper affrontare le scelte, comprendendole e accettandole senza condizioni, nell’uno e nell’altro senso.
Antonia sia con Jessie che con Anna, ha fatto quello che poteva e sapeva fare in quel momento, del suo meglio, non altro. Perché una donna nell’arco della sua vita produce parecchie uova, e tutti le spiegano presto tutto al proposito, come fecondarle e come evitare la gravidanza.
Ma fare la madre, non te lo insegna nessuno, mai. Meno che mai la propria madre.
Ogni donna lo apprende da sé, è una scelta responsabile.
La sola che permette per esempio ad Antonia di ritrovare sé stessa, e la parte di sé che credeva persa.
Questo il senso del dono della maternità, il più grande dei doni, che neanche i tre Magi.

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A chi è madre, a chi desidera esserlo, e a chi ci pensa.
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