Narrativa italiana Romanzi Il desiderio di essere come tutti
 

Il desiderio di essere come tutti Il desiderio di essere come tutti

Il desiderio di essere come tutti

Letteratura italiana

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I funerali di Berlinguer e la scoperta del piacere di perdere, il rapimento Moro e il tradimento del padre, il coraggio intellettuale di Parise e il primo amore che muore il giorno di San Valentino, il discorso con cui Bertinotti cancellò il governo Prodi e la resa definitiva al gene della superficialità, la vita quotidiana durante i vent'anni di Berlusconi al potere, una frase di Craxi e un racconto di Carver... Se è vero che ci mettiamo una vita intera a diventare noi stessi, quando guardiamo all'indietro la strada è ben segnalata, una scia di intuizioni, attimi, folgorazioni e sbagli: il filo dei nostri giorni. Francesco Piccolo ha scritto un libro anomalo e portentoso, che è insieme il romanzo della sinistra italiana e un racconto di formazione individuale e collettiva: sarà impossibile non rispecchiarsi in queste pagine (per affinità o per opposizione), rileggendo parole e cose, rivelazioni e scacchi della nostra storia personale, e ricordando a ogni pagina che tutto ci riguarda.



Recensione della Redazione QLibri

 
Il desiderio di essere come tutti 2014-07-31 11:51:56 silvia71
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    31 Luglio, 2014
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Un italiano allo specchio

Con il suo “Il desiderio di essere come Tutti”, Piccolo ha vinto la competizione dello Strega 2014.
Ha vinto un non-romanzo, un racconto figlio di una stratificazione narrativa tra diario, memorie e saggio.
Piccolo ha trovato una sua chiave espressiva per raccontarsi e per raccontare la crescita di un giovane italiano che oggi sta per raggiungere i cinquant'anni; è la crescita di un uomo in parallelo ed in simbiosi alle vicende politiche italiane degli ultimi quarant'anni.
E' tanta la politica tra queste pagine, dove destra sinistra e centro sono raccontate sempre e solo da un punto di vista unilaterale, quello dell'autore, attraverso momenti di riflessione e di analisi personale e sociale anche complessi.
Piccolo non cela il proprio pensiero ma lo manifesta da subito, inanellando descrizioni particolareggiate sulle correnti politiche e soprattutto sui protagonisti della politica.
Sfilano Berlinguer, Moro, Berlusconi, raccontati attraverso riferimenti di eventi e momenti certamente cruciali e di notevole interesse per la collettività.
Ma l'autore ricerca un'analisi di sé, degli ideali divenuti zoccolo duro della propria formazione, convogliando ricordi, ispirazioni, insegnamenti, momenti privati e pubblici in un unico contenitore.

A lettura terminata è impossibile non soffermarsi su determinate riflessioni.
Apprezzabile il coraggio dell'autore di mostrare il proprio pensiero in maniera diretta con la consapevolezza che le proprie considerazioni, anche forti, possano non risultare gradite ad una fetta di pubblico.
Ottima la capacità di analisi sul piano personale, toccando riferimenti del mondo della psicologia, della filosofia e dell'etica.
Rimane un grosso “ma”; in un momento storico e sociale come quello attuale, il libro di Piccolo rischia di far sorridere o annoiare, dipende dai punti di vista, perchè associare la parola “politica” a valore, esperienza di vita, credo, moralità, amore, sembra un'operazione fuori luogo e fuori tempo.

Il valore letterario di quest'opera è labile, fermandosi ad una penna curata ed ad un linguaggio efficace e raffinato, buone le intenzioni di contenuto ma a tratti logorate da un soggettivismo estremo e monotematico.

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Il desiderio di essere come tutti 2014-11-27 21:28:47 jule
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Opinione inserita da jule    27 Novembre, 2014

FLOP

Ho letto il libro di Piccolo. L'ho trovato di una vacuità imbarazzante ma ho voluto terminare la lettura per vedere dove volesse andare a parare. Mi è parso da nessuna parte alla fine.Ho trovato approssimativa la scelta di certi termini come "superficialità" che assume in questa narrazione un'accezione positiva. Inno alla superficialità che dovrebbe - non è chiaro come- sposarsi alla ricerca, all'impegno, alla'analisi. Non mi sono piaciuti nemmeno i termini "puro" e "impuro" di matrice cattolica. Il ritratto di "Chesaramai", fossi sua moglie, l'avrei trovato piuttosto offensivo. Una persona che reagisce con un "Chesaramai" tanto di fronte ad un bicchiere di latte versato, quanto di fronte alla vittoria di Berlusconi che alla caduta delle torri gemelle, in definitiva non sta bene. Ora, evidentemente Piccolo intende altro: un approccio non drammatico agli eventi, una calma interiore, una capacità di riflessione, una certa ironia e leggerezza, ma lo rende molto male.
Rispetto al percorso politico l'analisi e la narrazione sono molto superficiali (con accezione negativa) e carenti.I passaggi cruciali della sua esistenza hanno prodotto cosa in definitiva? Se questo è il "romanzo della sinistra italiana e un racconto di formazione individuale e collettiva" andiamo proprio bene. Piccolo racconta che nella sua vita si è divertito, è andato alle feste, è stato piuttosto disimpegnato ma tutto nei panni del comunista. Ha scritto, commentato, raccontato, preso parte ad aperi-cene e convegni, partecipato al margine o affatto, fatto l'intellettuale da salotto, badando di non sporcarsi le mani per mantenere la giusta distanza, per restare imparziale salvo poi affermare che "la questione fondante era che non c'è nessun bisogno di essere neutrali per essere imparziali". Boh. Davvero non si comprende cosa sia e sia stato nella sostanza per Piccolo il suo essere di sinistra. Si ha la sensazione che sia stato portato dalle correnti, trascinato dagli eventi, che si sia ritrovato nelle cose per pura casualità e che in fondo tutto sia un pò uguale a tutto. Che tutti si possa essere un pò fascisti, un pò Stuart, un pò disonesti, un pò assenti e da qui il passo è breve a un pò assassini, un pò pazzi, un pò delinquenti.
Al tempo stesso sorprende l'affermazione che ricorre di certe intuizioni illuminanti proprio nell'istante in cui i fatti si svolgevano e non con il senno di poi. Stupefacente capacità di penetrazione e interpretazione della realtà.
Ma non c'è un solo pensiero di sinistra degno di nota. Solo roba vecchia. E il fallimento di quell'idea antica di cambiare il mondo.
Se Piccoli è felice della sua vita trascorsa tra Berlinguer prima e Berlusconi poi, ne siamo lieti anche noi, ma non era necessario che scrivesse questo libro per significarlo.

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Il desiderio di essere come tutti 2014-11-04 15:28:04 Marco Vassallo
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Opinione inserita da Marco Vassallo    04 Novembre, 2014

Commento

L’impostazione che Francesco Piccolo dà al suo Il desiderio di essere come TUTTI (edito da Einaudi) è di natura genealogica. L’io narrante – identificato in larga parte con l’Autore, sia per le indicazioni biografiche sia, specialmente, per diversi passaggi della sua carriera di scrittore e di intellettuale di sinistra, ben più riscontrabili delle prime – ripercorre le tappe fondamentali della propria esistenza – più precisamente i punti problematici di snodo, in seguito ai quali si producono i cambiamenti, le variazioni di prospettiva, la diversità di un modo di vedere se stessi e se stessi nel mondo – in un’apparente cronologia degli eventi rinvenibile dalla prima adolescenza all’età matura, ai giorni in cui scrive il suo libro. Si tratta tuttavia di un taglio genealogico in quanto il vissuto è interpretato attraverso la focalizzazione su quelle discontinuità che ad un tratto hanno incrinato l’unità e la continuità di una vita dall’andamento regolare, con le sue procedure e i suoi tempi, sulla quale si fissa – e che grazie alla quale è fissata - l’identità dell’io. È proprio la questione identitaria ad essere al centro del romanzo – preso nella sua accezione postmoderna, che fonde insieme biografia e spunti letterari, storia privata e storia pubblica, volutamente indisgiungibili e interdipendenti nel loro gioco di corrispondenze e di rimandi continui dal dentro al fuori e viceversa –, un’identità problematizzata fin dall’incipit, con quel «Sono nato in un giorno di inizio estate del 1973, a nove anni», che fissa il primo punto di discontinuità dal quale prende avvio l’articolarsi della vita dell’io narrante. Non ci sono capitoli, né paragrafi titolati o semplicemente numerati, ad interrompere il racconto – che procede per analogie e, appunto, corrispondenze tra la vita del protagonista e quella dell’Italia, presa nei suoi eventi storici più significativi (e drammatici) – ma solo la divisione in due macrosequenze – possiamo chiamarle così – finalizzate a legare a filo doppio il privato e il pubblico.
La prima di queste macrosequenze identifica in Enrico Berlinguer (pubblico) la stella polare per la ricerca di una purezza interiore (privato), una «vita pura» che concili il modo di essere che si è razionalmente (sebbene fortemente spinto da pulsioni emotive di varia natura) scelto di vivere con gli eventi della storia e con le posizioni espresse dal Partito Comunista, cui l’io narrante aderisce con fede, oltre che con passione. L’arco di vita compreso in questa graduale ricerca di purezza, copre il ventennio dell’adolescenza, dal 1974 – precisamente dal gol di Sparwasser al 78° minuto di Germania Ovest-Germania Est, partita valida per i Mondiali, che rappresenta il momento esatto in cui l’io narrante decide, consapevolmente, di essere un comunista, aprendo irreversibilmente il conflitto con il padre, convinto sostenitore della Destra – al 1994, quando trentenne lascia la città natale, Caserta, per trasferirsi a Roma (privato), quasi in coincidenza con l’approdo nella Capitale di Silvio Berlusconi (pubblico), fresco vincitore delle elezioni politiche, che inaugurerà la seconda macrosequenza del romanzo («la vita impura: io e Berlusconi»), e il successivo ventennio dell’io-narrante come dell’Italia. A conferma di quanto le due macrosequenze letterarie siano strettamente connesse, e drammaticamente radicate nella congiunzione tra privato e pubblico, è il rilievo che assume la scultura di Diana e Atteone - il gruppo scultoreo che troneggia nella Grande cascata, in fondo al parco del Palazzo reale di Caserta - nell’ottica non solo della struttura del romanzo ma della vita stessa di chi lo racconta (e lo scrive). Proprio lì, ad un passo dalla cinta muraria – già scavalcata dai suoi due amici, coi quali aveva fatto razzie del frigorifero di vivande – in una reggia chiusa al pubblico, e quindi deserta, tinta dalle ombre del crepuscolo, il novenne protagonista, in quel giorno d’estate del 1973, nella solitudine di un silenzio irreale, increspato esclusivamente dal rumore nitido dell’acqua, percepisce indistintamente, e per la prima volta nella sua vita, che c’è altro, un altro mondo oltre al suo, oltre a quello fatto di casa, scuola, amici, nel quale ha vissuto finora, e che aveva, fino a quella folgorazione improvvisa, ritenuto una monade staccata da tutto il resto, dipendente ed autosufficiente, imperturbabile nei suoi privilegi borghesi, nei suoi ritmi costanti, nella circolarità delle sue abitudini. E sempre davanti a Diana e Atteone, 21 anni dopo, il neo Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, accompagnato dalla moglie e dai Grandi del G7 con le rispettive consorti, preso da un rigurgito di cameratismo, ispirato evidentemente dalla poetica magia dello scenario notturno della reggia - chiusa al pubblico a loro esclusivo privilegio, com’era stato in quella sera d’estate del 1973 per il protagonista - ebbe l’infelice uscita – nelle intenzioni una condivisibile goliardia – di mettere all’erta i suoi inconsapevoli sodali di non lasciarsi troppo coinvolgere dalle bellezze della Diana lunare, stagliata sul fondo della cascata, per non correre il rischio di «aumentare la famiglia».
Non è solo una battuta più o meno riuscita, più o meno consona al ruolo istituzionale di chi l’ha pronunciata, quella che rimane impressa nell’io narrante, ma una nuova discontinuità, un nuovo scarto, una nuova incrinatura del discorso, che sancisce in modo irreversibile (e irreparabile) il travaso del privato nel pubblico, commistione che determinerà lo statuto del discorso politico da lì a 20 anni. L’abbattimento di quel confine, marcato nettamente fino ad allora, tra vita privata e vita pubblica sarà il marchio di fabbrica del berlusconismo, e si tradurrà in una praxis dalla quale nessuno sarà alieno, anche – se non specialmente – coloro che vi si opporranno strenuamente e con convinzione. È l’essere coinvolti in tutto questo, nella deriva presa dall’intera società, oltre che dal discorso politico fortemente caratterizzato dal particolarismo di un Premier-industriale-magnate delle telecomunicazioni (per citare solo qualcuno dei numerosi e tentacolari interessi economici di colui che governa il Paese) e da un’agenda istituzionale concentrata sulle approvazioni di leggi ad personam - finalizzate a garantire la prosperità delle aziende della famiglia Berlusconi e, soprattutto, ad allontanare processi e condanne dal Primo ministro -, è il coinvolgimento in tutto questo che non salva nessuno, specialmente, ancora, coloro che si identificano in quella sinistra che ha tracciato un solco netto tra loro e gli altri, forti dell’intensità di una questione morale che avalla una posizione in tutto e per tutto reazionaria, ispirata ad un senso di purezza che dovrebbe garantirgli l’incorruttibilità da una gestione della vita pubblica così come la vogliono – e la praticano - gli altri, votandosi irrimediabilmente all’isolamento e ad una fiera emarginazione.
La questione morale, appunto, è ciò che la sinistra ha ereditato da Berlinguer, o meglio il lascito di cui frettolosamente – troppo frettolosamente – ci si è appropriati dopo la sua morte improvvisa, dopo l’oceanica folla al suo funerale, dopo quel TUTTI cubitale sulla prima pagina dell’Unità, senza arrivare a capire – per anni – che il significato della condotta politica di Berlinguer non era da rintracciare nella ricerca spasmodica di quella purezza che avrebbe distinto, per dignità e moralità, il Partito Comunista da tutti gli altri coinvolti nel Governo, ma l’esatto opposto: lo sforzo strenuo e costante verso la strada del compromesso, della compromissione, della contaminazione di idee e visioni nell’ottica di un tutti non di parte, che non raggruppasse i “buoni” escludendo i “cattivi”, ma inglobasse l’intero Paese, la totalità della sua cittadinanza. Poi, c’è il caso fortuito, c’è un gruppo di brigatisti che circonda un’auto scura, uccide la scorta e rapisce Aldo Moro, l’interlocutore di Berlinguer per il compromesso. C’è una lettera privata indirizzata a Cossiga che viene resa pubblica (ancora il travaso dal privato al pubblico). C’è la scelta intransigente dello Stato a non trattare – che rischia ancora una volta la confusione dell’interesse pubblico con quello privato, e viceversa -, c’è la morte di Moro e con essa la morte di qualsiasi prospettiva di compromesso che coinvolga il PCI. Da quel momento l’interlocutore della Democrazia Cristiana sarà il PSI di Craxi, e Berlinguer ripiegherà sull’alternativa democratica, chiudendo il Partito e i suoi elettori in un recinto fuori dal mondo, respingendo ogni tentativo di andare avanti. L’eredità di Berlinguer – nella lettura di Francesco Piccolo – è di natura morale, non politica, nonostante la governabilità sia stata la lotta politica di tutta la sua vita. La purezza e la reazionarietà sono state un ripiego, una linea di difesa alla quale il popolo della sinistra ha creduto troppo, calcificando una forma mentale che non si riesce più ad abbattere.
Il desiderio di essere come TUTTI è essenzialmente un romanzo politico, dunque. Ma non – o almeno non principalmente - perché rivive i momenti più significativi dell’ultimo nostro quarantennio di vita pubblica prendendo posizione e non rinunciando ad un’analisi personale dei fatti, bensì perché recupera una semantica della politica primigenia, intesa nel significato più genuino della relazionalità che è la sostanza stessa della sua definizione, una politica che non conosce steccati, confini, argini invalicabili, ma che cerca il dialogo specialmente con chi ha idee diverse, che ricerca con ostentazione la comprensione dell’altro, il compromesso – sì, il compromesso – tra orientamenti differenti in nome di un beneficio collettivo, che rifugga dalla purezza e pretenda la forma dell’impuro. Nel mezzo, c’è la vita dell’io-narrante, interiore soprattutto, ma in relazione costante col mondo nel quale si muove, perché crede fermamente nel presente, nella forza delle cose; c’è l’amore puro per Elena, militante di estrema sinistra, finito a causa di una frivolezza – uno Snoopy regalatole nel giorno di San Valentino e restituito al mittente con disprezzo; c’è l’amore impuro – perché fatto di problemi quotidiani, difficoltà e dissapori superati di volta in volta, di compromessi nella gestione dei propri spazi... - per la donna che sposerà e dalla quale avrà due figli, e che chiama Chesaramai per sottolineare la leggerezza, o meglio la lieve superficialità con la quale affronta le cose della vita. Ed è proprio la superficialità il residuo che resiste nel punto di vista mobile dell’io-narrante. Una superficialità addebitata inizialmente alla madre, ma che lui finisce col fare propria, al punto da diventare un abito mentale: sfiorare le cose senza mai farne parte appieno, in modo da rimanerne sempre un poco fuori, così come durante l’epidemia di colera dell’agosto 1973, così come durante il terremoto del 23 novembre 1980 – abbastanza vicini da sentirlo, ma non troppo da restarne coinvolti. È il diritto all’esistenza della superficialità che viene con forza ribadito in chiusura di romanzo, perché esistono le cose serie ma uguale dignità hanno le futilità, le leggerezze, le spensieratezze – tutte fanno parte della natura umana e se la sinistra non vive entrambe le realtà, non potrà che essere elitaria e dispregiativa. È la superficialità, inoltre - questo tipo di superficialità che incorpora le diverse nature e inclinazioni dell’animo umano - l’antidoto per le ricadute nella purezza, sempre presenti allorché si impugna l’etica come unico campo di discussione, praticando quello che Kundera chiama «judo morale» e che Piccolo mette in metafora con l’esempio di un gruppo di ciclisti che invade le strade della città con l’intento – sapendosi dalla parte del giusto – di umiliare la vita colpevole degli altri.
Un libro complesso e denso, questo di Francesco Piccolo, scritto in una prosa robusta, rigorosa, capace di accogliere e amalgamare testi di diversa natura e padroneggiare il ritmo più propriamente narrativo, così come quello saggistico, giornalistico, della recensione letteraria e cinematografica. Elementi eterogenei si sedimentano nella scrittura di Piccolo e si amalgamano in un corpus compatto ma allo stesso tempo sfaccettato, così da dare diversi punti di luce al cammino tortuoso – perché in fondo questo tipo di cammino è sempre tortuoso – della voce narrante, nel suo personalissimo passaggio dalla vita pura a quella impura - che altro non è che la trasposizione letteraria del percorso di ciascuno di noi.

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"Le attenuanti sentimentali" di Antonio Pascale
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Il desiderio di essere come tutti 2014-11-04 08:17:57 Jane Marple
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Jane Marple Opinione inserita da Jane Marple    04 Novembre, 2014
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Tutti per uno, uno come tutti

Tutti.
Un unico pronome rosso in segno di commiato.
Berlinguer muore, l’Italia è in piazza, un pugno si alza in una stanza. Qualcuno desidera essere lì, ma è altrove che si svolge il suo appuntamento con la Storia.
Come al tempo del colera che aveva falciato Napoli, come per il sisma in Irpinia o per i continui terremoti di Palazzo Chigi: quell’orizzonte lontano, in fondo, non è poi così distante e, a guardarlo bene, sembra sfiorare anche il cielo di Caserta.
È la televisione che rende tutto più vicino, ma non troppo e fa affiorare il desiderio di essere come tutti per il solo difetto di essere come i prossimi, come coloro che preferiscono arrivare secondi per potersi schierare dalla parte dei giudici, come quei puri che puntano il dito perché loro sì che sono incorruttibili, sicuri di avere la ragione in pugno e il futuro a portata di mano, tanto da preferire la lettura di quelle “sacre scritture” a un peluche in carta rosa il 14 febbraio. Perché la politica non fa festa, neppure a San Valentino!
Ma il desiderio di essere come tutti è guardare lontano, oltre il prossimo, sino all’opposto e scoprire che anche lì c’è qualcosa di buono, qualche viso pulito con cui pranzare ad una convention domenicale, quella leggerezza di chi sa temperare il peso della vita con un «Chesaramai», la forza di colui che a tennis preferisce un set point a un servizio perdente e di chi, nonostante tutto, quel giorno in piazza salutava un’epoca che non sarebbe tornata.
In tutti c’è il sorriso di una madre che insegna ad essere forti, l’incomprensione che vela la fierezza di un padre, la dolce vaporosità di una moglie che rende tutto più semplice, anche un’imperdonabile elezione del ’94.
Come la bellezza di Diana svelata agli occhi di Atteone e poi al bambino furtivo che ruba di sera una coca cola alla Reggia, allo stesso modo il romanzo di Francesco Piccolo schiude dinanzi agli occhi del lettore la bellezza del tempo che passa con il suo carico di personaggi, di eventi e di sentimenti, con le sue stagioni che alternano castighi a ricchi doni, nel suo avvicendare la vita pura (Berlinguer) a quella dell’impurità (Berlusconi), con la saggezza di chi è riuscito, insieme a qualche anno in più, a raggiungere la consapevolezza dei propri errori.
Un racconto in prima persona in cui costume e politica si mescolano al ricordo autobiografico di un’Italia che, pur cambiando volto, forse è rimasta sempre la stessa; un premio Strega farcito di citazioni cinematografiche e letterarie che ha saputo convincere grazie allo sguardo imparziale e partecipativo, umoristico e poetico sulle debolezze umane, perché ognuno di noi, quando la Storia bussa, è lì. Come tutti.

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a chi non sbadiglia alla sola parola “politica” e a chi riesce ad andare oltre le proprie sicurezze.
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Il desiderio di essere come tutti 2014-04-15 21:09:24 ant
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ant Opinione inserita da ant    15 Aprile, 2014
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Crescita interiore

Originale e suggestivo racconto dello scrittore Francesco Piccolo che, partendo da spunti e suggestioni di carattere personale , narra sia dello sviluppo del suo pensiero di cittadino e delle sue simpatie politiche, e soprattutto racconta ed elabora digressioni e concetti relativi agli ultimi anni di avvenimenti italiani.
Si parte sempre da episodi molto significativii e conosciuti e da lì in poi Piccolo è abile a collegare i suoi pensieri e le sue idee. Tanti i passaggi da sottolineare in questo testo, su tutto, a mio avviso, la simpatica metabolizzazione del protagonista sul fatto di avere idee politiche vicine alla sinistra addirittura scaturite e interiorizzate a 10 anni durante la visione di una partita di calcio(Germania Ovest-Germania Est dei Mondiali del 1974)!!! Sempre molto vivi nel romanzo anche i collegamenti tra la città di origine dello scrittore(Caserta) e quello che poi succede nel mondo, emblematico il momento del testo in cui il protagonista si rivede bambino nella Reggia di Caserta nel punto più elevato del Parco a contemplare le statue e l'istante in cui addirittura tutti i potenti della terra, durante il G8 del 1994, sono nella stessa identica situazione.
Un testo che spazia, come dicevo, tra pensieri di tutti i tipi relativi alla crescita del protagonista e tanti avvenimenti che hanno caratterizzato la storia italiana da fine anni 70 in poi.
Voglio chiudere questa recensione estrapolando un passaggio che mi ha particolarmente colpito, relativo al fatto che, secondo Francesco Piccolo, essere di idee politiche di sinistra in Italia è sinonimo di propensione alla sconfitta. Dopo una partita persa a tennis con un amico...
..."""il piacere di combattere contro avversari imbattibili e migliorare e conquistare qualche punto in più, resistere ogni volta un po' di più prima di soccombere - era ciò in cui mi ero identificato da sempre, in tutti i campi della mia esistenza. Volevo ritrovare a tutti i costi quella condizione della Germania Est contro la Germania Ovest , l'unica posizione che mi interessava era quella: essere più debole, fare fatica, essere sul punto di perdere, e poi con uno scatto improvviso vincere a sorpresa""".....
Cerebrale e fantasioso

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