Narrativa italiana Romanzi Il Consiglio d'Egitto
 

Il Consiglio d'Egitto Il Consiglio d'Egitto

Il Consiglio d'Egitto

Letteratura italiana

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Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, si trova a Palermo nel dicembre 1782 per via di una tempesta che ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane. È questo il caso che fa nascere, nella mente dell'abate Velia, maltese e incaricato di mostrare all'ambasciatore le bellezze di Palermo, un disegno audacissimo: far passare il manoscritto arabo di una qualsiasi vita del profeta, conservato nell'isola, per uno sconvolgente testo politico, Il Consiglio d'Egitto, che permetterebbe l'abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario.



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Il Consiglio d'Egitto 2010-09-08 08:46:26 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    08 Settembre, 2010
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Ieri come oggi

Il Consiglio d’Egitto è il primo romanzo storico di Leonardo Sciascia, scritto nel 1963, ricorrendo a una tecnica che sarà presente anche nelle opere successive, vale a dire con l’ambientazione in un tempo passato della vicenda, ma con il preciso scopo di criticare il presente. Così, con l’ironia e il sarcasmo che sono propri dell’autore siciliano, si narra dell’episodio dell’abate Vella, che sul finire del XVIII secolo ebbe la bella pensata di buggerare gli intellettuali siciliani e anche parte di quelli europei falsificando la traduzione di un codice arabo e poi costruendone uno completamente nuovo, grande esercizio di impostura svolto unicamente per trarne propri benefici.
La truffa, perché questo è il reato commesso, ha quasi dell’incredibile, ma è d’obbligo precisare che questo religioso ebbe l’indubbia capacità di attirare il positivo interesse dei nobili siciliani con il primo codice (Il Consiglio di Sicilia), mentre con il secondo (Il Consiglio d’Egitto) invece capovolse la situazione, con principi e baroni timorosi di perdere i loro secolari privilegi a vantaggio del Re.
Detto così sembrerebbe poca cosa, la semplice storia di un birbante, ma inserito nel contesto dell’epoca è rimarchevole l’intreccio fra l’impostura e il tentativo di modernizzare l’isola grazie all’opera dell’illuminato Viceré Caracciolo.
In effetti esisteva un dissidio, nemmeno tanto latente, fra la corona e la nobiltà sicula, privilegiata da secoli al punto da costituire nella scala sociale un’entità di potere autonoma, sulla quale il re poteva ben poco.
I fuochi della rivoluzione francese, lo spirito libertario ed egualitario che la stessa portava tuttavia finì per rinsaldare i legami fra il monarca e i suoi vassalli, spezzando e di fatto seppellendo ogni tentativo di modernizzazione.
Al personaggio emblematico dell’impostore si accompagna quello di chi invece ha voluto essere se stesso fino in fondo, quell’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, illuminista ed eticamente convinto dell’uguaglianza degli uomini al punto di tentare di avviare una vera e propria rivoluzione; la congiura, scoperta prima di essere posta in atto, lo porterà prima all’arresto, poi alla tortura e infine alla condanna a morte per decapitazione. Per quanto il paragone possa sembrare distonico, la figura dell’abate, scoperto nell’inganno e rinchiuso in carcere, è una luce viva che poco a poco si spegne, mentre quella del cospiratore è una lampada che, anche dopo la sua morte, arde soave, un segno di speranza per un futuro, anche se molto di là a venire. Infatti, Di Blasi ha provato almeno a smuovere le acque, torbide, limacciose della forza parassita che domina in Sicilia, ieri come oggi, ieri i nobili, oggi la mafia.
L’ultimo capitolo, quello della esecuzione della sentenza di morte del cospiratore, è di rara e incomparabile bellezza, poche pagine preziose che chiudono nel migliore dei modi un romanzo di grande valore.

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