Il caffè delle donne
Letteratura italiana
Editore
Widad Tamimi è nata a Milano nel 1981. Figlia di un profugo palestinese fuggito dall'occupazione israeliana del 1967 e di una donna di origini ebree, la cui famiglia scappò a New York durante la Seconda guerra mondiale, è cresciuta in Italia. Il caffè delle donne è il suo primo romanzo.
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Opinioni inserite: 2
rifletto bevendo un buon caffè
questo libro, che ho appena terminato, mi è piaciuto molto.
Mi ha provocato rabbia, regalato dolcezza, ma soprattutto mi ha fatto riflettere sulla condizione femminile.
La storia in sè forse è banale, soprattutto alla fine, l'happy end rituale per riuscire a terminare un racconto che non aveva più senso di continuare oltre perchè comincaiva a ripetersi.
La cosa veramente interessante però è la riflessione riguardo alla situazione in cui vivono le donne, sia nei paesi arabi che qui da noi in Italia, dove è ambientato il romanzo quando la protagonista non si trova in Giordania. Mi sono chiesta ripetutamente se la liberazione della donna avvenuta da noi sia stato un buon affare. La non possibilità di scelta e la totale sottomissione all'uomo ed al padre ha portato ad una giusta battaglia per la conquista dei diritti di base, ma il femminismo spinto all'estremo, la scomparsa dei ruoli a livello sociale e familiare, ha fatto bene alle donne ed ai rapporti di coppia? Ha fatto bene alla società? Ci ritroviamo a muoverci nel mondo completamente insoddisfatte attorniate da uomini spaventati dalla nostra forza e dalla troppa determinazione e troppa convinzione. Non sappiamo più scegliere se vogliamo essere madri o mogli o donne in carriera e facciamo tutto contemporaneamente, spesso tutto male o comunque in modo aggressivo, causa la stanchezza ed i troppi impegni. Poi ci volgiamo a Est e vediamo queste donne, che noi compatiamo, fiere del loro ruolo e con l'assoluta certezza di cosa è giusto fare ed essere. Allora io mi chiedo la nostra libertà e la nostra intelligenza non potremmo utilizzarla per trovare una giusta via di mezzo?
Queste sono le riflessioni che mi ha suscitato questo bel libro, scritto da una donna di padre arabo palestinese e di madre di origine ebrea, che vive in occidente ma che da bambina passava le sue vacanze estive dai parenti del padre. Conosce bene l'argomento di cui tratta in questo romanzo.
Questo libro parla delle donne, delle loro emozioni, della loro forza, del loro valore come palo portante delle famiglie, e ci obbliga ad interrogarci sul senso della parola libertà.
Se poi qualche femminista mi maledirà....pazienza.
Indicazioni utili
Sognare la libertà sul fondo di una tazzina
Questo romanzo mi ha ricordato un oggetto prezioso che si può guardare ma non toccare, e cioè un testo molto curato, a tratti poetico, che però ti lascia apatica, della serie “ben scritto, ma alla fine cosa mi hai dato?”
Alcune idee di partenza sono senza dubbio originali, in primis la descrizione dei vari personaggi e dei loro caratteri fatta attraverso il tipo di caffè che prediligono. Alla madre di Qamar, ad esempio, il caffè piace forte, intenso superiore ricco. Con la giusta corposità. E mentre a Qamar piace leggero, annacquato, quasi senza carattere, sua madre cerca un aroma che incida, “e lo beve bollente perché la lingua venga scolpita da solchi indimenticabili, eterni”.
Molto bella è anche l’idea di ricollegare al caffè la vita della protagonista, facendo partire le sue sofferte decisioni e la sua graduale maturazione da una lontana divinazione dei fondi del caffè che le avevano fatto da ragazzina, così come quella di combinare caffè ed amore: “Le difficoltà in una coppia arrivano sempre, bisogna lasciare sedimentare. Perché l’amore è come il caffè”.
Tuttavia, l’innegabile bellezza di queste descrizioni si perde poi nella trama complessiva, nella narrazione della vita presente di Qamar, inframmezzata ai ricordi delle estati che passava da bambina in Giordania, presso la numerosa famiglia paterna, convivendo in una grande casa con una tribù di zie, zii, cugini e vicini. Immagino che l’autrice volesse verosimilmente descrivere con rimpianto e malinconia il periodo passato da Qamar ad Amman: l’impressione che se ne trae è invece quella di ambiente chiuso, bigotto, in cui una donna si sente imprigionata, in cui il tempo sembra non scorrere mai.
Ecco, la narrazione ha questo stesso ritmo sonnacchioso, per pagine e pagine.
Non per niente Qamar, dopo che è divenuta donna ed è stata separata e confinata dietro le mura, non ci ritorna più per quasi venti anni, preferendo crescere nella più banale (ma certamente più vivace) Italia.
Se poi si considera che l’unico “evento” consentito alle donne nella Grande Casa (oltre a lavorare e partorire figli, possibilmente maschi) consisteva nel riunirsi per bere il caffè e per leggere il futuro nei sedimenti lasciati nella tazzina, non si riesce davvero a capire da dove derivi tutto questo rimpianto per Qamar, giovane arabo-occidentale, eternamente insoddisfatta.
Il fatto è che la sua vita in occidente (ovvero università, carriera nelle ONG, convivenza con fidanzato -occhio, non matrimonio! - in assoluta LIBERTA’), le appare così grigia (?), mentre laggiù ad Amman tutto resta ammantato da un velo di (finta) favola: ah…le mie radici, ah quella cara vecchia cultura che non mi appartiene, ma a cui resterò legata per sempre.
Confesso che io, nella mia probabile ottusità mentale, non ho proprio capito perché.
Persino questa visione idealizzata non riesce a nascondere inaccettabili contraddizioni: lei, libera, istruita, con un lavoro come mediatrice culturale, non batte ciglio quando vede i lividi sotto il velo della zia. Nel nostro mondo sarebbe violenza, laggiù giammai! Qamar si guarda bene dal minimo accenno di critica: il marito ha sempre rispetto e pudore per la sua sposa, e non si spinge mai oltre il limite (e gli altri familiari possono far finta di non vedere, perché tanto c’è sempre lo sguardo compassionevole dell’Onnipotente che dall’alto benedice le mogli docili e devote…).
La Tamimi scrive bene, con frasi da annotare, ma non mi è piaciuto il tanto promesso incontro-scontro tra culture: ciò presuppone, in effetti, la contrapposizione di almeno due culture, ma qui dove sono? In realtà Qamar non ci fa che parlare del suo mondo, della sua tradizione arabo-mussulmana, e, solo per intuizione-deduzione, capiamo che sia sua madre, sia il suo compagno Giacomo non ne fanno parte. Ma, appunto, quale è la loro cultura, contrapposta alla sua? Silenzio assoluto. Come se loro non avessero neppure una propria dimensione religiosa, o una propria tradizione familiare (anche se banalmente italiana).
Davvero un testo contraddittorio: seppure viene continuamente ribadito il concetto della ricerca dell’unione tra le differenze, del ponte gettato tra due mondi, io ne ho visto e conosciuto - attraverso gli occhi di Qamar- uno solo.
Indicazioni utili
- sì
- no