Idda
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
“Cosa resta di noi quando perdiamo noi stessi?”
Memoria, radici, sentimenti: sono questi i temi attorno al cui intreccio si muovono i personaggi del nuovo romanzo di Michela Marzano, edito nelle scorse settimane da Einaudi.
Un romanzo bellissimo, intenso, a tratti struggente, che racconta non una ma due storie parallele, seppur appartenenti a dimensioni temporali differenti: una è quella della voce narrante, Alessandra, una quarantenne italiana trasferitasi da molti anni in Francia per sfuggire al peso insostenibile dei ricordi legati a una drammatica vicenda familiare e lasciati nel suo assolato Salento; l’altra, invece, è quella di Annie, l’anziana madre del compagno della stessa protagonista, la quale viene colpita da un disturbo neurodegenerativo che erode senza pietà ricordi e affetti della sua esistenza passata. È a lei che si riferisce quell’ “idda” che riecheggia quasi misteriosamente nel titolo e il cui suono e significato (“lei”, in dialetto pugliese) riemergono all’improvviso dal pozzo del tempo e delle parole identitarie in verità mai dimenticate. Due donne diverse, figlie di epoche lontane, due vicende in apparenza slegate che però, proprio quando sembra che tutto sia finito per via della malattia di Annie, troveranno un punto d’incontro inatteso attraverso uno di quei piccoli grandi miracoli con cui la vita talvolta può sorprenderci.
Particolarmente coinvolgente e profonda, la scrittura dell’autrice ci consegna un’unica storia dai tanti volti che affronta con coraggio anzitutto il tema della malattia negli anni della vecchiaia - la si chiami Alzheimer, demenza senile o in altro modo - mettendo ben in evidenza sia l’estrema fragilità di chi la vive in prima persona sia lo spaesamento, e forse anche la non completa accettazione, da parte dei familiari. “Che cosa resta di noi quando perdiamo noi stessi?” ci si domanda con angoscia di fronte a un evento di tale portata che fa sì che non si riconoscano nemmeno le persone più care; e poi, raggiunta una certa età, chi dice che non si possa avere “diritto” al decadimento mentale? Difficile dare una risposta certa a interrogativi tanto inquietanti perché, come dimostra Alessandra, abbiamo tutti paura di perdere il controllo sulla nostra vita, di non riconoscere gli altri né, tanto meno, riconoscerci.
“Chi siamo davvero? E se la verità fosse altrove, diversa rispetto a quello che pensiamo? E se la parte autentica di ognuno di noi fosse nascosta proprio finché ci sforziamo di controllare tutto, perché ci sono tante cose da fare e non possiamo permetterci il lusso di essere, semplicemente essere, stanchi, depressi, svogliati, capricciosi, noiosi, persino sbagliati e dementi, ecco sì, questo: dementi?”
Tutto ciò, naturalmente, non può non ricollegarsi al tema del passato, quella preziosa identità individuale che, nel bene e nel male, fa parte di noi rendendoci quel che siamo e senza la quale non si può vivere appieno il presente né costruire il futuro. Non lo si può rinnegare, il passato: per quanto lontano si provi ad andare, per quanto si cerchi di ricominciare daccapo altrove rivestendo il cuore d’un manto d’oblio forzato, ce lo porteremo sempre dietro e presto o tardi dovremo affrontarlo perché “[…] il passato non passa mai, e la pace è sempre impastata di rimpianti e recriminazioni.”
Ottima la caratterizzazione dei personaggi, sia femminili che maschili; molto ben curata l’introspezione psicologica che scava nelle emozioni, nei sentimenti, nelle paure in particolare di Alessandra, in quel suo disperato rifiuto di diventare madre che potrà superare soltanto allorché si riconcilierà con la propria storia di figlia.
Un lungo e tormentato viaggio che ricostruisce esistenze ed essenze smarrite e, con tono spesso disarmante, racconta la forza dell’amore che, alla fine di tutto, è la sola cosa che ci appartenga veramente e rimanga per sempre.
“Ci sono cose che, sebbene l’amore che ci lega a una persona sia più profondo di un oceano, non possono essere né dette né spiegate. Nemmeno la persona che amiamo può ripagarci dei torti dell’esistenza. Lo sbaglio peggiore che si può commettere è attribuirle il potere di riparare la nostra vita.
Ma ci sono anche cose che dovrebbero sempre essere dette, pure quando mancano le parole e si è certi di non essere capiti. Altrimenti pian piano ci si allontana, si spalanca la voragine dell’incomprensione, e persino l’amore più grande viene consumato dall’indifferenza. ”
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Chi si perde e chi si ritrova
Ci sono due donne...molto diverse fra loro, per età, storia, lingua, nazionalità, ma legate allo stesso uomo, figlio di una e compagno dell'altra,
Due donne che in qualche modo si specchiano...
...e mentre una si perde, l'altra si ritrova.
Mentre Annie (ottantenne affetta da demenza senile) dimentica parole, volti, nomi...Alessandra (quarantenne con un passato irrisolto) si scopre a pronunciare i vocaboli in dialetto della sua terra, riaffiorano ricordi e immagini della sua infanzia, seppelliti da troppi anni insieme al rancore verso suo padre.
È come se, dopo aver perso sua madre, Alessandra avesse deciso di diventare orfana di tutto il suo passato.
Si può scappare da un luogo, ci si può allontanare dalle persone, chiudere i rapporti famigliari, ma mai seppellire la propria storia.
Quella torna. Torna sempre.
Il cervello di Annie, invece, vorrebbe restare e non ce la fa...è diventato come una grande casa, in cui, a poco a poco, si spengono tutte le luci, fino a quando non si resta al buio.
E allora, cosa rimane di noi quando perdiamo noi stessi?
Chi siamo quando i ricordi svaniscono?
Cosa si salva?
...i "residui di sé", la percezione di un'affettività e una familiarità ineffabile.
E poi resta l'amore, quello che va oltre la malattia, oltre l'assenza di memoria.
E più Annie perde contatto con la realtà, più Alessandra ha bisogno di appigli.
Più Annie smarrisce la sua identità, più Alessandra sente il bisogno di ritrovare la propria.
Più in Annie si propaga il vuoto della memoria, più Alessandra cerca di colmare quello lasciato dalla morte di sua madre.
Una si sgretola e l'altra raccoglie i pezzi, tenendoli insieme per ricostruire la vita di chi non riesce più a raccontarla e per ricostruire se stessa.
Tema delicatissimo, che la Marzano maneggia con rispetto e profondità, con levità e attenzione, lasciandoci addosso quegli interrogativi che tendiamo a non porci, almeno fino a quando la vita non ci impone di farlo.
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Il passato tra Alessandra ed Annie
Michela Marzano, torna in libreria, con Idda, cioè “lei.” Un romanzo di grande spessore e di forte impatto emotivo. Il passato, nelle sue varie ed infinite forme, qui gioca un ruolo fondamentale. Le due protagoniste principali del libro, infatti, Alessandra e Annie, hanno un duplice e contrapposto modo di porsi dinnanzi al passato. Alessandra, consapevolmente, lo rifugge in toto, e non lo accetta in quanto fonte continua ed indefessa di dolore. Annie, nella sua malattia, non lo riconosce, non sa che cosa è, lo ha dimenticato. Due modi di porsi, contrapposti e contradditori.
Alessandra è una giovane ragazza, vive a Parigi, ha i capelli rossi e le lentiggini, ama ricambiata Pierre, ma un grande dolore ha segnato la sua vita: in un incidente d’auto nel Salento, con suo padre ubriaco, la madre perde la vita. Lui si salva, ma rimane paralizzato su una sedia a rotelle. Per Alessandra la fuga è immediata, va a Parigi ed insegna biologia all’Università,dove tutto è rigorosamente classificato e ben definito. Al contrario del suo sentire, perché lei non riesce ad elaborare il lutto. Perché:
“Come si fa a elaborare il lutto di una persona ancora viva? Un figlio può tollerare l’angoscia della perdita inevitabile della madre, che conosce da sempre e che, tuttavia, fa fatica a riconoscere?”
Annie, invece, sua suocera, ha un grave declino neurologico e non ricorda nulla di sé, non riconosce gli altri. Tra le due sembra, però, nascere una strana empatia. Alessandra attraverso Annie, e la ricostruzione del suo passato, tenta di superare le intrinseche difficoltà che le segnano la vita. Perché:
“Bisogna attraversare le macerie, recuperare la propria storia, per scoprire che l’amore sopravvivere all’oblio.”
Una bellissima e potente raffigurazione di due figure femminili che compenetrandosi diventano un unicum di vita, di gioia, di dolore e di passione e di sentimenti veri e forti. Un libro sull’identità, sulla memoria, sull’amore e sul perdono. Un’ottima riflessione su chi siamo davvero, come interagiamo con gli altri esseri umani e su come viviamo. Con una scrittura asciutta e priva di inutili fronzoli, l’autrice mette in atto un romanzo di alta qualità e di grande interesse.
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Essere
«A Parigi, mi dicevo, rinata e diversa, senza più bisogno di lacci e lacciuoli e catene e bugie, che poi è sempre così che succede: ci si lega, ci si soffoca e ci si dimentica che la vita non è altro che una serie di attimi da vivere nel presente, l’uno dopo l’altro, senza sensi di colpa e senza vergogna» p. 22
Alessandra, quarantunenne, biologa e amante delle piante che non richiedono legami, che sono autosufficienti e che vivono nella solitudine e indipendenza più totale, ha una relazione con Pierre, uomo con cui oltretutto convive e che ha incontrato poco dopo esser fuggita dall’Italia. Perché Ale si porta dietro un grande peso, un peso fatto di ricordi, di affetti, di un dolore determinato da una tragica morte occorsa negli anni in cui da crisalide si stava trasformando in donna, ma a cui ancora non ha saputo dare una spiegazione, un perché, una ragione da cui poter ripartire per seppellire quella furia cieca, quella rabbia senza confini, quella necessità di trovare un colpevole che perennemente la affliggono e che ancora oggi ne determinano le sorti dell’esistenza. Perché questa protagonista che sa farsi amare e che sa far storcere il naso con questo prevalente istinto di autoconservazione e egoismo conseguente, non vuole sposarsi perché l’atto del matrimonio corrisponde ad un vincolo che è destinato a ferire ma soprattutto non vuole avere figli, ha paura delle responsabilità che si acquistano con la genitorialità, del non essere all’altezza, di non poter eguagliare il mito di sua madre che rivive nel ricordo come una donna perfetta e capace di ricoprire la sua puricina di attenzioni e affetto. Nella sua memoria pugliese riecheggia ancora la sua ua, i suoi giochi nel cortile, le parole di Totò a cui si contrappone un astio radicato, coltivato, alimentato da anni e anni di procrastinare, di rifiuto, di ostinazione.
A questa prima storia personale se ne affianca una seconda dove protagonista è Annie, la madre di Pierre, affetta da una particolare malattia degenerativa che senza scrupoli erode quel vissuto, quel che è stato amato, quelli che sono stati i legami, lasciando una minima consapevolezza del chi si è. È lei l’Idda di cui al titolo, ed è tramite la sua vicenda, che verrà rievocata con lettere, con parole, con riflessioni, con oggetti, che arriverà la maturazione di questa docente bloccata in un impasse irremovibile.
«Chi siamo quando i ricordi svaniscono l’uno dopo l’altro, e sopravvivono soltanto alcune tracce del passato? […] Cosa resta di noi quando perdiamo noi stessi?» pp. 102-105
Due vite concomitanti che di primo acchito non sembrano aver alcunché in comune e che sembrano tra loro completamente slegate ma che in realtà sono funzionali l’una all’altra poiché portano in relazione generazioni diverse, donne diverse, circostanze diverse. La malattia, le radici, la memoria, i sentimenti, la famiglia, gli affetti, i figli, l’istinto di conservazione e di autoprotezione, sono soltanto alcune delle tematiche che Michela Marzano affronta in questa sua ultima fatica.
Un testo forte, struggente, capace di suscitare molteplici riflessioni, con personaggi solidi e ben strutturati e a cui si somma una prosa ricca, curata che non manca di portare il lettore ad interrogarsi sul proprio percorso. Unica pecca forse riscontrata è, a tratti, un’eccessiva prolissità che è funzionale all’oggetto delle vicende ma che rischia di sfiancare, di rendere farraginosa una lettura che di per sé è impegnativa per i molteplici contenuti insiti. Ad ogni modo, un elaborato godibile che ci ricorda che la cosa più importante, alla fine di tutto e al suo principio, è semplicemente amare.
«[…] In fondo nessuno è capace di essere un buon genitore, mi dico, ognuno fa come può e si adatta all’esistenza, basta solo fare pace con sé stessi e con il proprio passato, anche se il passato non passa mai, e la pace è sempre impastata di rimpianti e recriminazioni.» p. 230