I giorni dell'abbandono
Letteratura italiana
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Il vuoto di senso
Olga, una donna di 36 anni bella e con due figli, viene improvvisamente lasciata dal marito Mario, ingegnere di mezza età, per una ragazza di appena vent’anni nonostante il loro bel rapporto. Il motivo, un vuoto di senso. E sul vuoto di senso è costruito tutto il romanzo. Cos’è un vuoto di senso: una cosa che non si crea non si distrugge, si tampona con un corpo, in maniera del tutto provvisoria e si trasmette come una maledizione. Olga ci parla infatti in prima persona del suo vuoto di senso che è il riflesso del vuoto di senso di Mario: riflesso ma amplificato come se Olga fosse uno specchio di Mario. Il vuoto di Olga viene descritto come assenza: assenza di attenzione, vuoti di memoria, fatica a fare le solite cose, sonno. La vita di Olga prima resa felice dall’affetto per il marito e per i figli viene svuotata di questo sentimento e nella sua assenza si insinua la follia, Olga si avvicina al confine con la follia senza però varcarlo. Questo avvicinarsi è descritto come uno svuotamento di spirito nella vita di Olga che viene riempita di materia. I figli e il cane diventano materia: feci, escrementi, vomito. Il linguaggio e il pensiero di Olga vengono stravolti come se Olga fosse posseduta e ci sono pagine di pensieri e di parole oscene, decisamente oscene. Lo scopo di Elena è quello di rendere la follia e l’avvicinarsi del famoso confine ma in realtà l’overdose di osceno non raggiunge questo scopo e io avrei tagliato diverse pagine, soprattutto i pensieri. Più i pensieri che le parole sguaiate, essendo il linguaggio sguaiato sintomo indicativo di depressione. Ma tutti quei pensieri sono troppi e poco femminili.
L’incipit, come tutti gli incipit di Elena è bellissimo. Sembra di entrare nella storia di corsa inseguendo il bianconiglio e ci si ritrova improvvisamente nel mondo di Elena. Mario, il marito, resta sullo sfondo e è descritto con poche pennellate che ne danno un ritratto molto efficace. Un uomo a volte grigio a volte molto divertente, un uomo a corrente alternata. Ma proprio in un momento in cui la corrente manca, cioè nel momento del vuoto di senso, Mario lascia la famiglia e mette il corpo di Carla a chiudere la falla di senso. Illumina cioè il vuoto assoluto con il cerino dell’emozione legata alla seduzione della ragazza, cerino che brucerà velocemente lasciando Mario al punto di partenza, cioè alla ricerca di un nuovo corpo che funga da provvisorio tappo. Olga, nel suo vuoto di senso, anche lei si ritrova nella stessa situazione come se venisse inglobata e convertita alla stessa filosofia di vita di Mario pur disprezzando Mario per aver usato il cerino dell’emozione. Olga si sceglie Carrano, il musicista come compagno, un uomo sensibile con cui illuminare il suo vuoto. Usa il fiammifero del sentimento invece del cerino dell’emozione pur nella consapevolezza della stessa provvisorietà della soluzione. Il vuoto d senso, viene naturalmente trasmesso anche ai figli in una reazione a catena.
Mario, viene descritto dagli amici benpensanti di lui alla moglie Olga come opportunista e voltagabbana, anche se con molte qualità. Ora l’essere opportunista non è una sua caratteristica genetica ma è anche quella una conseguenza del vuoto di senso che porta all’adesione alla filosofia di vita dell’effimero, che ha come conseguenza inevitabile l’essere opportunista e voltagabbana. Come dice Elena/Olga ci sono tante persone che conducono la loro vita tranquilla e dormono per cui non sono soggette a dolorosi vuoti di senso. Ma nel caso che uno ci fosse soggetto, le due possibili soluzioni sono l’adesione all’effimero, il vivere l’attimo che comporta un egoismo vorace e cieco (quello di chi sta annegando che per tirare il respiro tira sott’acqua chi gli si avvicina) o puntare al trascendente. L’egoismo è una conseguenza del sistema scelto di auto-salvataggio e non una caratteristica a priori dell’individuo-Mario. L’alternativa di scelta sarebbe quella di dare un senso trascendente alla propria vita legandola a un’idea di bene non a intermittenza. Sembrerebbe una scelta irrazionale, rispetto all’altra supportata dai cinque sensi, ma bisogna considerare che i cinque sensi non spiegano in nessun modo la vita e la morte (passaggio da materia organica a organica-vivente).
La parte finale del romanzo è molto bella.
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I giorni dell'abbandono.
"...il dolore si è distillato, mi ha avvilita ma non mi ha spezzata."
Il libro racconta la storia di Olga, una donna di 38 anni con due figli, che improvvisamente viene lasciata dal marito.
"Tempo, tempo, tutto il tempo della vita si era perso, e solo per disfarsene con la leggerezza di un capriccio. Che decisione ingiusta, unilaterale. Soffiare via il passato come un brutto insetto che si è poggiato sulla mano."
La Ferrante come solo lei sa fare, entra nell'animo di Olga, in profondità, ci racconta di una donna "guastata", smarrita, offesa che ha dedicato la sua vita a quella di un marito che senza curarsi di lei l'abbandona.
Olga sarà costretta: ad affrontare i fantasmi del passato ("la poverella" una donna che aveva subito la sua stessa sorte durante la sua infanzia a Napoli), ad occuparsi del cane Otto (dono del marito ai figli) che capirà di amare solo quando sarà troppo tardi, i suoi figli da un giorno all'altro saranno costretti a convivere con una madre "diversa" sguaiata, insofferente e intollerante e con il padre mancante, perderà la sua integrità, fino quasi a sfaldarsi, dovrà combattere il rancore e il dolore, fino a ricompattarsi per affrontare di nuovo la "sua" vita.
"Sì, ero stupida. I canali dei sensi si erano chiusi, non vi scorreva più il flusso della vita chissà da quando. Che errore era stato chiudere il significato della mia esistenza nei riti di Mario mi offriva con prudente trasporto coniugale. Che errore era stato affidare il senso di me alle sue gratificazioni, ai suoi entusiasmi, al percorso sempre più fruttuoso della sua vita. Che errore, soprattutto, era stato credere di non poter vivere senza di lui, quando da tempo non era affatto certa che con lui fosse vita."
Olga è una donna che mi ricorda Lila o Lenù dell'Amica geniale, perché la Ferrante ha la capacità di pennellare magistralmente l'animo delle donne che soffrono, che si "guastano" o si "smarginano" per poi puntualmente tornare a esistere, quietamente.
"Il futuro sarà tutto così, la vita viva insieme all'odore umido della terra dei morti, l'attenzione insieme alla disattenzione, i balzi entusiastici del cuore insieme ai bruschi cali di significato. Ma non sarà peggio del passato."
"Esistere è questo, pensai, un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c'è nient'altro di vero da raccontare."
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Il pene quotidiano
Il romanzo analizza la dimensione femminile nel momento dell’abbandono: il “che cos’ha lei più di me”, l’isterismo sboccato, l’introspezione ossessiva, lo smarrimento, la graduale accettazione che scivola in disincanto, con l’ineluttabile condanna del maschio (egoista, poligamo) e dei sentimenti in generale (pantomima finalizzata al sesso). È un’operazione accorta, che ripercorre i luoghi comuni della rinuncia casalinga: la donna cede il passo alla madre, la carriera affonda nelle sabbie mobili della famiglia. Il tema, serio, non lascia mai questo sentiero già tracciato. Il che induce a facili immedesimazioni, in contesti quotidiani, comuni, dove le ambizioni giovanili e il culto del sex appeal s’infrangono contro incombenze domestiche indefettibili: la caffettiera sul fuoco, il cane da portare ai suoi bisogni, un figlio che vomita: tutto, in questa realtà del focolare, ha la precedenza sui sogni. Come può, una donna, non abbrutirsi? È il suo stesso sacrificio che la fa tramontare. E lui, il marito, il banalissimo Mario, cerca un nuovo inizio con una donna più giovane – solo per ripetere, forse, un ciclo erotico prestabilito, fatale.
Il libro ha venduto, e se n’è tratto un film. C’è un buon dispiegamento del discorso, con sporadica comparsa di trovate linguistiche e immagini “letterarie” in un insieme, tuttavia, modesto. Spiace la sproporzione tra l’appiattimento di certe dinamiche psicologiche, ridotte a mera “genitalità”, la sciatteria bisillabica di «fighe», «cazzi», «culi», e il rilievo prolisso, un po’ noioso, dato alla manualità delle faccende svolte “con la testa altrove”. È la distrazione improvvida della madre affranta che immagina suo marito «fottere» con l’amante... L’esito materialista, brutale, basso, è offerto saltando a piè pari un itinerario di elucubrazioni più elevate, a maggior ragione se si considera che la protagonista ha velleità da scrittrice.
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- sì
- no
The coldest days of my life
Chi se la ricorda la canzone anni settanta dei Chi-Lites?
Potrebbe fare da colonna sonora a questo romanzo, con il quale
Elena Ferrante ci getta nel vuoto. Lasciando un senso di assenza, di mancanza, di inadeguatezza. Di estraniazione e di estraneità.
Fin dalle prime pagine irrompe sulla scena – personaggio solitario e abbandonato – Olga. Moglie e madre di due figli, è stata improvvisamente lasciata dal marito (“tranquillo per anni, senza un solo attimo di disorientamento, e poi all’improvviso scombussolato da un niente”): Mario le ha preferito una donna più giovane e si è allontanato dalla famiglia per “un improvviso vuoto di senso”.
Con questo distacco si apre il periodo doloroso de “I giorni dell’abbandono”, durante il quale la protagonista viene risucchiata nella disperazione che si manifesta innanzitutto in anoressia (non in senso patologico), insonnia e disattenzioni che potrebbero risultare fatali. Nella confusione emotiva, con lo stato d’animo e l’inconcludenza del perdente, Olga cerca di analizzare le cause (ma ve ne sono? Ed erano prevedibili?) della sua condizione: la dignità perduta, la prigionia nel ruolo familiare, il desiderio di una donna napoletana di adeguarsi alla vita torinese, più riservata e contenuta, più ragionata e meno impulsiva di quella che caratterizza la sua città di origine.
Poi Olga si propone di reagire: nel palazzo semivuoto (la vicenda si svolge in agosto) vive un musicista solitario e introverso. Con lui “l’abbandonata” tenta di stabilire un contatto, ma la vicenda ha il sapore della forzatura: la relazione è un accostamento ragionato e premeditato di due solitudini piuttosto che un’unione sotto l’insegna del trasporto sentimentale; è imitazione dell’amore tra i residuati della rabbia e le rovine dell’esperienza trascorsa.
Per tutto il romanzo si respira il disagio: nel compatimento degli amici, nei maldestri tentativi di Olga di truccarsi e travestirsi, nel rapporto con il cane Otto.
Quando si accende un barlume (“Devo reimparare il passo tranquillo di chi crede di sapere dove sta andando e perché”) è troppo tardi per il lettore: annichilito dalla tristezza dei giorni dell’abbandono, quasi non riesce più a credere che “un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle” possano rappresentare un lieto fine, perché “non c’è nient’altro di vero da raccontare”...
Bruno Elpis
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Il documentario interiore
Ho letto in molte recensioni che la Ferrante, in questo romanzo, desse voce a immagini violente, parole gridate, crudeli, laceranti. In realtà, tra queste pagine ho trovato una sintassi pacata e un’incredibile (perché a tratti inverosimile) onestà d’animo. Olga è una donna che analizza spietatamente il succedersi dei suoi stati d’umore in declino, la sua psicologia sempre più fragile e l’oscillazione incontrollata dell’equilibrio fisico e morale; è una macchina incorruttibile, perché perde il controllo mentre afferma di perderlo, in un lungo e spietato documentario di sé che non lascia spazio né all’autocommiserazione, né a una qualunque conciliazione con il mondo esterno che le ha fatto tanto male. Forse è per questo che, a un certo punto del romanzo, non vuole e non riesce ad aprire la porta?
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Olga alla deriva
Ancora giovane e bella, due figli, un marito,un cane lupo. Una vita comune, appagante, serena. Almeno questo e' cio' che crede Olga.
Poi lui nel nulla intinge la voce, ti guarda, taglia corto, ti dice addio.
ADDIO. Ti sembra di avere perso tutto.
La terra si sgretola ai tuoi piedi, ora vedi innanzi a te solo un burrone: profondo, nero.
Nella tua destra la manina della tua bambina. Nella tua sinistra la mano di tuo figlio. Tra le caviglie il pelo arruffato del cane. Tutto intorno il vuoto. E la menzogna che affiora ogni istante di piu'.
L'amore,il rispetto,la famiglia,dove ha buttato tutto questo lui ? Perche' cosi' ?
Ti ha troncato ogni prospettiva sul futuro, ha distrutto anche il passato che ora quasi ti vergogni a ricordare, pare una burla, una truffa, la mente rimuove. Resta il caos. E due bambini che non possono capire. Sola.
Ci sono donne piu' forti, ce ne sono di meno forti, ma questo si vedra' poi col tempo.
La sofferenza viscerale dello shock inferto da un colpo alla schiena fa male a tutti,indifferentemente.
Questo libro parla di una storia comune e lo fa con rabbia, calandosi profondamente nel tumulto esistenziale di una donna abbandonata, cullata nello sporco giaciglio della menzogna.
Acre l'odore che si respira durante tutta la narrazione, come il puzzo della malattia che e'cancro del corpo, qui e'la mente che guida la deriva, il cuore in cenere, l'umiliazione.
Frequente l'utilizzo di termini non proprio di classe, io che per prima non amo le parolacce nella forma scritta, qui le capisco, le lascio passare, perche' c'e' il tempo dei sinonimi e c'e' il tempo in cui il rancore e la spossatezza non concedeno scelta.
Un romanzo difficile da recensire, credo sia un libro che in particolar modo possa essere apprezzato da chi riesce - per vicissitudini personali o per sensibilita' - ad entrare in empatia con questa donna e la sua disperazione.
Utile forse si', a chi tradisce, a chi mente. Sia mai che leggendo il dolore degli altri impariamo tutti ad essere un po' piu 'sinceri. Un po' piu' leali. E poter salvare col rispetto almeno l'amore che c'e' stato .
Buona lettura.