I fantasmi di pietra
Letteratura italiana
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I fantasmi italiani
Nella struttura di "Fantasmi di pietra", autore Mauro Corona, non c'è la sola descrizione del paese di Erto nel trascorrere del tempo attuale durante le quattro stagioni, c'è qualcosa di molto di più e lo scriverò dopo. Erto, per chi ancora non lo sa, giace in altitudine, irto, dunque come vuole il suo nome è appoggiato tuttora solatio con poche anime che lo abitano su una sponda collinare sul fianco destro del Vajont, il fiume che negli anni '60 si trasformò in un lungo lago per via dell'invaso d'acqua e della famosa diga che ancora oggi si vede intatta giungendo a Longarone. Raggiunto il paese dalla strada inerpicata a tornanti che sale da Longarone, superato il paese di Cassio, esso appare nel pianoro e invita quasi ad entrare. Gettando la vista verso la montagna dinanzi si scorge ancora chiara e vasta l'impronta a "M" del distacco della frana sul monte Toc e a valle l'enorme quantità di rocce, pietrami e terra che in un unico balzo portò via, con un'onda che si sollevò sino a 200 metri di altezza, il 9 ottobre 1963, un centinaio di morti tra le frazioni di Erto e Cassio, ed altre 1900 e più sotto nella cittadina di Longarone e località limitrofe. La scorrevolezza e la semplicità della scrittura di Mauro Corona ci consente di abitare quei luoghi e quei paesaggi fatati, incantati, dolenti e austeri, ma a tratti anche felici, gaudenti, epici e gloriosi di gesta umane, affaticate nell'allevamento degli animali, nell'essere boscaioli di grande tempra, ci consente di immaginare ad occhi aperti le mirabili arti dei falegnami, dei fabbri, degli scultori in legno. Corona è un perfetto epigono dei suoi conterranei e ha imparato ecellentemente tutto quel che va raccontando, ma è per noi qui anche un narratore fantastico di altrettante storie fantastiche, un prodigioso scrittore della montagna aspra e solitaria, ma dispensatrice di purezza estetica attraverso l'opera intellettuale cesellata di chi sa scandagliare in se stesso, sa trarre da se con le lettere quest'altra arte che è la scrittura. Mauro Corona non racconta però solo della sua Erto fisica, inurbana, e non ci ammalia, in particolare in questo libro, solo con l'estro narrativo e poetico sui suoni e sui movimenti della natura che con grande maestria sa quasi dipingere con le parole, o per i sentimenti e i pensieri che animano stupefacentemente i suoi personaggi, ma riesce con singolare capacità filosofica e morale a convincerci di ciò che accade realmente nella vita di tutti noi e sebbene noi viviamo in città o paesi popolosi. Lui non indugia alla prolissità del giudizio, è essenziale nello scritto quanto nella vita egli è deciso e pregno di volontà. Traggo da alcune frasi che riporto da "Fantasmi di pietra" il tenore dei vari livelli interpretativi che sono stati per me di grande interesse e spero lo siano anche per voi:
"I legni per diventare buoni dovevano guardare il tramonto, verso dove finiva la strada, diceva mio nonno. Solo così risultavano migliori, meno tenaci, meno aggressivi. La consapevolezza della fine toglieva loro irruenza e resistenza." In questa frase possiamo apprezzare la saggezza antica di innumerevoli vite vissute e perciò meglio comprese dall'esperienza e ci accorgiamo subito perciò che queste non sono considerazioni fatte a tavolino. Ritroviamo qui una vera filosofia della vita dove tutto è presente alla persona; anche le cose partecipano universalmente ad un movimento eterno, anche i legni, allo stesso modo che l'uomo traguarda al suo tramonto, sono messi a guardare verso il finito e perciò essi stessi migliorano acquistando una maggiore lavorabilità. Sarà questa anche una deduzione empirica, ma è spiegazione. è comunque una filosofia della natura, un distillato di sapienza che è stata accuratamente ereditata da generazioni. Oggi non produciamo più questi tesori culturali. Il rischio attuale della società post-moderna o post-teconologica è nella smemoratezza dei patrimoni morali a favore di altri pensatori che hanno teorizzato altre verità a tavolino producendo un deserto della ragione, perciò sradicata da questo ricco umanesimo dell'esperienza. Ecco un altro brano:
"Non tutte quelle pietre vanno d'accordo tra loro, ma per il bene della strada restano unite. Gli abitanti del vecchio paese non hanno avuto questa tenacia. Dopo la tragedia (del Vajont) si sono disgregati, hanno aperto vuoti nel mosaico sociale. Negli interstizi s'è infilata l'acqua dell'assenza diventata ghiaccio che ha divelto, scardinato l'unità delle tessere. La forza generata dello stare uno accanto all'altro è andata distrutta". Questa immagine di Erto che si attaglia a queste pietre che divelte hanno perso l'unità delle tessere è anche del nostro Paese. Ricordiamoci però che non sono teorie nuove, si trovano anche nelle descrizioni antiche dei resoconti del Guicciardini, del Leopardi, o del De Sanctis, anche di quel periodo dei secoli scorsi quando la nostra Nazione politica ancora non esisteva, ma esisteva comunque una certa identità popolare, territoriale, che sempre più veniva ricercata con l'uso e l'aumento di una lingua volgare comune e voluta come unita, intera, nel Risorgimento. Esisteva già un giudizio preciso sul cinismo, sullo scetticismo e sull'individualismo che hanno da sempre caratterizzato l'Italia. Gli interessi delle parti, della Chiesa che ha per troppo lungo tempo badato al suo potere temporale, degli Imperi che qui si combattevano e facevano incetta dei nostri territori, delle varie Corporazioni che dal costituirsi dei comuni hanno avuto un chiaro scopo nel loro arricchimento e non certo per la pubblica utilità del cittadino; queste realtà tutte insieme hanno da sempre bloccato il compimento dell'unione delle nostre tessere locali e oggi non di meno per la democrazia sembra che questo processo continui imperterrito. Oggi gli stessi interessi della finanza, delle imprese, delle professioni, della stessa politica, non perseguono ancora la crescita della civiltà e anche se vi sono da tempo le carte del diritto con enunciate le loro chiare e nobili ispirazioni! La politica attuale somiglia veramente a quell' acciotolato sconnesso di Erto dove il paesano, l'italiano, non sa dove mettere i piedi, rischiando di rompersi l'osso del collo in una miriade di problemi ancora non risolti e in ulteriore aggravamento. Oppure ancora:
"La bontà è un conservante speciale, mantiene giovani, fa rimanere bambini, tiene in piedi l'entusiasmo, la fiducia e il buonumore ". Anche L'Italia avrebbe bisogno di grandi esempi di bontà che coinvolgessero ed unissero. Occorrerebbe diventare capaci di discutere e di rispettarsi nella diversità delle proprie posizioni senza dover essere nemici. Ma la bontà non può che seguire dalla verità. Per questo credo non si possa non essere daccordo con la prof. De Monticelli quando afferma che la politica, per la questione morale, dovrebbe riprendere la via di Socrate. Nella raffigurazione della società ertana, Corona ha saputo esprimere nei suoi racconti una profonda saggezza che lui vorrebbe fosse anche un pò la nostra. Per questo scrive. Ognuno in quel caro luogo dei ricordi passati porta i suoi fardelli, i suoi diffetti, ma lì le persone si affrontano, si dichiarano per quello che davvero sono, si interpellano coraggiose, discutono e litigano, ma tutto si risolve nell'essere trasparenti. Questo è il carattere limpido della moralità, altro invece è quello che oggi spacciamo per saper vivere, ovvero la doppiezza, la furbizia, la prudenza mascherata da vigliaccheria.
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Il miglior libro di Corona
Di questo autore amo il linguaggio visionario, ma concreto, le metafore attinte dall'esperienza quotidiana del mondo montanaro e contadino. In quest'opera è ben dosata l'alternanza tra poetiche sequenze riflessive e sequenze narrative più icastiche. Ho apprezzato soprattutto le descrizioni del paese fantasma, delle case di pietra diventate delle creature vive: ogni pietra ha la sua storia e la propria dignità anche nell'abbandono.
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La Spoon River di un paese perduto
Di questo suo libro l’autore ha detto “Ho scritto la Spoon River del mio paese perduto” e Mario Rigoni Stern, lo scrittore a cui Corona viene spesso accostato per le tematiche, ritenne che questo fosse il miglior lavoro dell’artista friulano, perché il racconto va con le stagioni e subito viene il desiderio di andare avanti nella lettura con ingordigia.
In queste due opinioni mi ritrovo anch’io, come si potrà meglio comprendere nella prosecuzione di questa mia.
Erto, da quando si staccò il 9 ottobre 1963 un’immensa frana dal monte Toc, precipitando nell’invaso del Vaiont e sollevando un’onda altissima che sconvolse gli abitati vicini e rase al suolo in pianura il paese di Longarone, è un agglomerato di case abbandonate, in cui la natura avanza riprendendo possesso di quello che le era stato tolto.
Le visite di Mauro Corona in questo paese ormai morto, effettuate durante le stagioni dell’anno, sono un pellegrinaggio della memoria, alla riscoperta di un passato nemmeno tanto lontano, ma che, in quelle vie ormai spopolate e in quelle case dove rigogliose crescono le ortiche, sembra infinito, come se il tempo si fosse fermato in quella notte e avesse vetrificato i giorni.
Ogni casa è come una lapide di Spoon River, senza epigrafi, se non quelle che emergono prepotenti dalla memoria dell’autore.
E così conosciamo chi erano gli abitanti, le loro storie, a volte addirittura risalenti, per effetto della trasmissione orale, a epoche assai precedenti.
Per certi aspetti il racconto diventa un poema, un canto intimo che l’autore avverte in sé mano a mano che procede per le vie deserte.
Nulla sfugge al ricordo, emergono dalle nebbie dell’oblio figure che non potranno che restarvi in mente, personaggi all’apparenza insignificanti, ma che nella narrazione, senza enfasi peraltro, acquistano una luce propria di straordinaria intensità.
C’è l’infanzia, povera, di Mauro Corona, ci sono perfino leggende popolari che riacquistano nerbo, come la maledizione delle streghe che prevedeva, anche se in termini generici, il disastro del Vajont.
Quelle mura vuote, quei tetti sfondati rivivono grazie alla memoria e alla straordinaria magia della scrittura che fa rinascere una realtà che non c’è più.
Sovente sembra di essere accanto all’autore in questa sua deambulazione, scoprendo con lui piazze, osterie, officine di fabbri, ma non è solo una serie di ritratti che ci viene proposta, perché non sono figure statiche quelle degli abitanti, ma riusciamo a coglierli nella loro attività, nella vita di ogni giorno, nelle bevute all’osteria, nel lavoro dei campi, nella cruda desinenza delle morti.
Grazie a Mauro Corona il paese defunto torna in vita e lo vediamo com’era in un periodo di riferimento tipico, quell’anno solare in cui le quattro stagioni ci portano il profumo della primavera, il calore dell’estate, i tappeti di foglie dell’autunno e la fiamma nel camino dell’inverno.
E’ una narrazione commovente, a volte anche struggente, è il più bell’omaggio che l’autore potesse fare al suo paese morto, rendendolo immortale con questo stupendo libro.